martedì 30 ottobre 2018

Sul diritto delle nazioni all’autodecisione - Lenin

da Lenin, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, pag 538-583
trascrizione a cura di Valerio e pubblicazione a cura del CCDP per il 94° anniversario della Rivoluzione d'ottobre. - www.resistenze.org - materiali resistenti in linea - iper-classici - 

                                      pubblicato nella rivista Prosvestcenie, n.4-5-6, 1914 

Il paragrafo nove del programma dei marxisti russi, che tratta del diritto delle nazioni all’autodecisione, ha suscitato recentemente (come abbiamo già detto nella «Prosvestcenie»[i]) tutta una crociata da parte degli opportunisti. Tanto il liquidatore russo Semkovski in un giornale liquidatore di Pietroburgo, quanto il bundista Liebmann e il socialnazionalista ucraino Jurkevic hanno attaccato quel paragrafo nei loro giornali, trattandolo col massimo sdegno. Non vi è dubbio che questa «invasione delle dodici lingue» dell’opportunismo contro il nostro programma marxista è strettamente collegata con le odierne oscillazioni nazionaliste in generale. Ecco perchè ci sembra opportuno esaminare particolareggiatamente la questione. Notiamo solo che nessuno degli opportunisti sunnominati si è valso di argomenti nuovi: tutti quanti si sono limitati a ripetere quel che Rosa Luxemburg [ii] aveva scritto nel suo lungo articolo polacco, pubblicato negli anni 1908-1909 ed intitolato «La questione nazionale e l’autonomia». Nella nostra esposizione, dovremo quindi tener conto soprattutto degli argomenti «originali» di quella scrittrice.
 
 
 
1. CHE COSA È IL DIRITTO DELLE NAZIONI ALL’AUTODECISIONE
 
È naturalmente questa la questione che si presenta per prima quando si vuole esaminare con metodo marxista la cosiddetta autodecisione. Che cosa bisogna intendere per autodecisione? Bisogna cercare una risposta nelle definizioni giuridiche tratte da ogni specie di «nozioni generali» di diritto? O bisogna cercarla nello studio storico-economico dei movimenti nazionali? 

Non è affatto strano che i signori Semkovski, Liebmann, Jurkevic non abbiano neppure pensato a porsi tale domanda, si siano limitati a sogghignare sull’«oscurità» del programma marxista, senza neppur sapere, a quanto pare, nella loro semplicità, che la questione dell’autodecisione delle nazioni è trattata non solo nel programma russo del 1903, ma anche nella risoluzione del Congresso Internazionale di Londra del 1896 (ne parleremo particolareggiatamente a suo luogo). È invece molto più strano il fatto che Rosa Luxemburg, la quale molto declama contro quel paragrafo, chiamandolo astratto e metafisico, sia caduta, proprio lei, nel peccato di astrattezza e di metafisica. Proprio Rosa Luxemburg, infatti, si perde costantemente in ragionamenti generici sul diritto di autodecisione (e perfino - cosa del tutto ridicola - in disquisizioni sul come conoscere la volontà della nazione), ma non si pone mai, chiaramente e nettamente, la domanda se la soluzione debba essere cercata nelle definizioni giuridiche o nell’esperienza dei movimenti nazionali del mondo intiero.

domenica 28 ottobre 2018

Questione nazionale e «fronte unico» Zetkin, Radek e la lotta d’egemonia contro il fascismo in Germania - Stefano G. Azzarà

Da: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/index -stefano.azzara Università di Urbino 
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017,  licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 
Leggi anche: Fascismo. Misurare la parola. - Palmiro Togliatti 



1. La questione tedesca nel movimento comunista

Nel movimento operaio internazionale, la questione tedesca e le sue possibili ricadute sulle prospettive generali della rivoluzione socialista in Europa hanno costituito un argomento tradizionalmente assai dibattuto. Come faceva notare Pierre Broué, riportando nelle pagine iniziali della sua celebre opera sulla – mancata – rivoluzione tedesca le ottimistiche previsioni letterarie di Preobrazhenskij e gli auspici politici di Zinovev1, è un dibattito che si è fatto però tanto più necessario e intenso con l’Ottobre e soprattutto negli anni successivi alla conclusione della Prima guerra mondiale, in ragione delle profonde trasformazioni politiche che si erano verificate in Germania dopo la sconfitta e la caduta del Kaiser e nel contesto di un conflitto civile dalle conseguenze imprevedibili. Un conflitto a intensità variabile ma pressoché ininterrotto, le cui incontrollabili esplosioni – ora a destra, ora a sinistra – sembravano certamente porre le basi per la rottura definitiva di quell’ordine borghese del quale la socialdemocrazia, nelle analisi dei bolscevichi, si era fatta garante a Weimar. Ma che rischiavano al tempo stesso di condurre ad un esito decisamente diverso da quello che ancora dopo il Terzo congresso il Comintern riteneva comunque prossimo, come sarebbe in effetti accaduto in Italia con la presa del potere da parte del fascismo nel 1922 2.
In realtà, sappiamo bene che lo sguardo sulla Germania coincide in un certo senso con l’atto di nascita stesso del partito comunista moderno. «I comunisti rivolgono la loro attenzione sopratutto alla Germania», avevano spiegato Marx e Engels sin dal 1848 e in un contesto assai diverso, «perché la Germania è alla vigilia d'una rivoluzione borghese e perché essa compie questo rivolgimento in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più evoluto che non l'Inghilterra nel Diciassettesimo secolo e la Francia nel Diciottesimo»3. Ragion per cui, concludevano, «la rivoluzione borghese tedesca può essere soltanto l'immediato preludio d'una rivoluzione proletaria» destinata a propagarsi in tutta Europa. E questa impostazione assai ottimistica ritornava ancora nella prefazione alla seconda edizione russa del 1882, sfrondata del precedente meccanicismo ma con parole non dissimili: un’eventuale «rivoluzione russa» sarebbe stata ovviamente importante; ma poiché non era di certo possibile affidare l’affermazione del comunismo alla «comunità rurale», il suo valore sarebbe consistito in primo luogo nel funzionare come «segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino»4. Ancora nel 1892, poi, come sempre Pierre Broué ricorda, il vecchio Engels si aspettava che la Germania fosse «al centro del campo di battaglia nel quale borghesia e proletariato si sarebbero fronteggiati nella lotta finale»5.
Adesso, dopo Versailles, la Germania era ancora il cuore della rivoluzione europea, come i padri fondatori avevano ritenuto? Costituiva cioè quel diaframma geopolitico strategico la cui rottura avrebbe consentito una risoluzione agevole dello scontro tra gli antagonisti di classe su scala continentale e l’insediamento del socialismo in uno dei centri nevralgici più progrediti del mondo capitalistico, spingendo «alla conquista immediata del potere»6 (la «lega Spartaco» occupava non casualmente il primo posto nell’elenco dei convocati presente nella Lettera d’invito per il I congresso dell’Internazionale7)? Oppure la borghesia tedesca, indebolita dai colpi ricevuti ma proprio per questo ancor più inferocita, sarebbe riuscita anche in quel paese a reprimere le forze comuniste e a elaborare, sulla scorta di una guerra totale che aveva cambiato per sempre la natura della sfera politica, un regime capitalistico autoritario di nuovo tipo; un nuovo modello politico che, muovendo dal laboratorio tedesco, si sarebbe diffuso in Europa con una virulenza ancora maggiore rispetto al fascismo italiano? E come assicurare la sopravvivenza della stessa rivoluzione in Russia, se il paese dei soviet fosse rimasto privo di ogni appoggio e dunque isolato e accerchiato nella sua arretratezza atavica e nella sua oggettiva debolezza produttiva e militare?

venerdì 26 ottobre 2018

Oltre il testo - Carlo Sini

Da: InSchibbolethTV - Carlo_Sini- è un filosofo italiano.- CarloSiniNoema 




                                                                                                                                   Ludwig Wittgenstein, Note sul "Ramo d'oro" di Frazer

RISVOLTO
Queste Note sul “Ramo d’oro” di Frazer sono una fra le più singolari delle molte sorprese che ha offerto in questi anni, e continuerà a offrire, la pubblicazione degli inediti di Wittgenstein. In queste rapide e densissime pagine, che raccolgono una serie di postille alla grande opera di Frazer, attraverso la quale la cultura occidentale aveva preso ufficialmente atto del mondo religioso dei ‘primitivi’, Wittgenstein ha dato il suo unico contributo ‘esplicito’ all’antropologia – e anche in questo caso è riuscito a creare quel ribaltamento delle prospettive che il suo pensiero ha portato dovunque si sia mosso. Innanzitutto abbozzando una ‘antropologia dell’antropologo’ – fondata su questo assioma: «Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi» – davvero sbalorditiva, se si pensa che le prime di queste pagine sono del 1931, mentre le ‘scienze umane’ hanno cominciato a porsi quel problema, peraltro in modo piuttosto goffo, solo in questi ultimi anni. Inoltre, Wittgenstein ci propone qui certe letture di fatti religiosi ‘primitivi’ che non solo mostrano come Frazer spesso desse, di quegli stessi fatti, una banale razionalizzazione ‘vittoriana’, ma in certo modo li toccano al cuore, con quella capacità di percepire e definire le esperienze più complesse e inafferrabili di cui Wittgenstein dà prova in tutta la sua opera, tanto che appare più che giustificata l’indagine condotta da Jaques Bouveresse nel saggio qui pubblicato in appendice, che tende a ritrovare, soprattutto negli scritti della ‘seconda fase’ di Wittgenstein, un vero tesoro ancora da scoprire di osservazioni antropologiche.

giovedì 25 ottobre 2018

"Gli imbrogli del post - modernismo" - Stefano Garroni

Da: mirkobe79 - Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. 
Il video che viene qui proposto è una risposta a questa intervista di Diego Fusaro: https://www.youtube.com/watch?v=EV_P_eybAe4&list=PLo-vwNjnLdbYeKAXeEYoXqFW5S7KNk0sY&index=9)

"...dobbiamo sempre ricordare che la politica è l'arte del possibile. Cioè non ha nessun senso lanciare la parola d'ordine dell'internazionale se non esiste nel mondo obiettivamente qualcosa che spinge al superamento dei confini nazionali. E il capitalismo ha anche questo ruolo di favorire, di mettere in luce, questa spinta verso l'internazionalismo, il superamento delle nazioni. Ovviamente con tutte le contraddizioni, perché poi non esiste una mondializzazione capitalistica -mondializzazione non è lo stesso di globalizzazione. In realtà l'internazionalismo del padrone ha dato luogo a regioni economiche diverse, e anche conflittuali -basti pensare alla faccenda dollaro euro per esempio-. Se si vuole fare politica realmente bisogna avere un fondamento alla radice di tutto [...] bisogna che la parola d'ordine che io lancio, il movimento che metto in piedi, abbia un riferimento obiettivo, abbia una radice nel movimento obiettivo delle cose. Ora il movimento obiettivo delle cose è verso un'economia che supera il confine nazionale."
                                                                               

    Gli imbrogli del post-modernismo, Stefano Garroni (22/01/2014) (a cura di Adriana Garroni)

Con questo breve intervento mi propongo di rispondere ad alcune delle tesi formulate dal professore americano R. Inglehart nel suo libro La società post-moderna (pubbl. it. 1998) e dal giovane filosofo italiano Diego Fusaro in una recente intervista. A mio parere, sia questo libro sia le idee di Fusaro -seppur a diverso livello e a diversa dignità culturale- sono due campioni del carattere fondamentalmente anticomunista e antimarxista della cultura post-moderna.

Nella sua intervista Diego Fusaro sostiene che Marx si sarebbe sbagliato nel lanciare la parola d’ordine dell’internazionalismo proletario, in quanto l'unico internazionalismo esistente ed operante nella storia è quello del capitale: sbandierare tale parola d'ordine coinciderebbe, paradossalmente, con l'esaltazione della mondializzazione del capitalismo. A dimostrazione di ciò, secondo il giovane filosofo, ci sarebbero gli errori che Marx avrebbe commesso nella previsione dello sviluppo economico del capitalismo.

Secondo Fusaro, si deve sostenere il ritorno ad una dimensione nazionale, che avrebbe maggiore vitalità democratica della dimensione sovranazionale. La comunità nazionale garantirebbe maggiormente la democrazia, perché consentirebbe al cittadino di avere un peso effettivo nelle scelte politiche del proprio paese. Invece, se il potere si centralizza sul piano internazionale il singolo cittadino è assolutamente schiacciato da tale Moloch.

martedì 23 ottobre 2018

La manovra del Governo danneggia il Mezzogiorno - Guglielmo Forges Davanzati

Tramite Riccardo Bellofiore  da: https://www.quotidianodipuglia.it, 21 ottobre 2018, - guglielmo-forges-davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.


Il documento di Economia e Finanza ha, per così dire, ingannato numerosi commentatori, convinti che si tratti di una svolta radicale della politica economica italiana e convinti che finalmente ci siamo lasciati alle spalle le politiche di austerità.

Si tratta di un inganno dal momento che, come verrà mostrato, questa manovra – sebbene basata su un aumento del rapporto deficit/Pil – non contribuisce alla ripresa della crescita. Ed è un’illusione ottica pensare che qualunque politica fiscale espansiva generi crescita, nel breve come nel lungo periodo. La manovra del Governo, poi, si configura come un insieme di interventi che rischia di accentuare le divergenze regionali.

Per le seguenti ragioni:

1) La flat tax – ancora in fase di definitiva elaborazione - è un’imposta regressiva, che, cioè, fa pagare più tasse, in termini relativi, ai percettori di redditi bassi rispetto ai percettori di redditi alti. Poiché questi ultimi si trovano prevalentemente al Nord, l’effetto macroeconomico non può non essere maggiore detassazione al Nord rispetto alle aree deboli del Paese.

2) Il reddito di cittadinanza, nella sua ultima formulazione e dunque con il vincolo della spesa per prodotti italiani, va nella direzione di incentivare i consumi per beni prodotti al Nord e, al tempo stesso, di disincentivare le innovazioni da parte delle imprese lì localizzate. L’appello all’italianità, in questo caso, dato il dualismo che caratterizza storicamente l’economia italiana, si traduce di fatto in un appello a comprare beni prodotti nelle regioni più ricche del Paese. 
Molto è stato detto sui centri per l’impiego. Anche in questo caso, va rimarcata una significativa disparità, nel loro funzionamento, fra Sud e Nord del Paese, con prevedibili effetti di segno negativo sulla loro capacità, nelle regioni meridionali, di funzionare in modo efficace.

3) La “pace fiscale” – ovvero, chiamata per quello che è, il condono per gli evasori – al netto delle discutibili implicazioni etiche e anche economiche (di norma, i condoni creano l’aspettativa di ulteriori condoni, accrescendo, non diminuendo, l’evasione), riguarda ovviamente i percettori di redditi variabili, dunque non i dipendenti pubblici e, più in generale, non i percettori di redditi tassati “alla fonte”. 
Anche in questo caso, il dualismo dell’economia italiana conta. La “pace fiscale” non può che tradursi, nei fatti, in un sostegno al reddito delle partite IVA e delle piccole imprese del Nord. 

lunedì 22 ottobre 2018

Le ultime vicende dal Nicaragua - Alessandra Ciattini 





Da: https://www.lacittafutura.it -
Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 


Il Nicaragua tra passato e presente, tra progressismo e liberismo in un mondo multipolare. 


È sempre molto difficile esprimersi sulla politica di un paese lontano, che inevitabilmente conosciamo di seconda mano e che per più ha portato avanti per decenni una politica sociale progressista e antimperialista, per liberarsi dal giogo degli Stati Uniti, i quali – come è ampiamente documentato – hanno finanziato, tramite la CIA vendendo le armi all’Iran [1], l’attività controrivoluzionaria dei contras contro il movimento sandinista, che nel 1979 aveva scalzato il dittatore Anastasio Somoza. 

domenica 21 ottobre 2018

"Il pensiero di Marx come ontologia dell’essere sociale – rileggendo Lukàcs" - Paolo Vinci (2/3)

Da: AccademiaIISF - http://www.iisfscuoladiroma.it  
Paolo Vinci è docente di Filosofia pratica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma. - http://www.rivistapolemos.it 
Leggi anche: Riflessioni 16... - Stefano Garroni (https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/10/riflessioni-16-stefano-garroni.html) 

I° Incontro: "Il pensiero di Marx come ontologia dell’essere sociale" – rileggendo Lukàcs - Paolo Vinci (1/3)

II° Incontro:
                    

III° Incontro: "Il pensiero di Marx come ontologia dell’essere sociale – rileggendo Lukàcs" - Paolo Vinci (3/3) 

sabato 20 ottobre 2018

Il socialismo e la guerra - Vladimir Lenin (1915)

Da: https://www.marxists.org - L'opuscolo Il socialismo e la guerra fu scritto nel luglio-agosto 1915 - Trascritta per Internet dalla redazione "Che fare", Aprile 2000


Indice del testo:

Prefazione alla seconda edizione
    I. I principi del socialismo e la guerra del 1914-15
    II. Le classi e i partiti in Russia
    III. La ricostituzione dell'Internazionale
    IV. La storia della scissione e la situazione attuale della socialdemocrazia in Russia 


    Appendice I. La guerra e la socialdemocrazia russa
    Appendice II. La conferenza delle sezioni estere del Partito operaio socialdemocratico russo
 Appendici:
    I. La guerra e la Socialdemocrazia Russa
    II. Conferenza delle sezioni all'estero del POSDR 


Il socialsciovinismo è il pieno sviluppo dell'opportunismo


In tutto il periodo della II Internazionale si è svolta ovunque, in seno ai partiti socialdemocratici, una lotta fra l'ala rivoluzionaria e l'ala opportunista. In diversi paesi è avvenuta una scissione di questo genere (Inghilterra, Italia, Olanda, Bulgaria). Nessun marxista ha mai dubitato del fatto che l'opportunismo esprime la politica borghese nel movimento operaio, esprime gli interessi della piccola borghesia e l'unione di un'infima parte di operai imborghesiti con la propria borghesia, contro gli interessi della massa dei proletari, della massa degli oppressi.

Le condizioni obiettive della fine del secolo XIX hanno particolarmente rafforzato l'opportunismo trasformando l'utilizzazione della legalità borghese in un atteggiamento servile dinanzi ad essa, creando un piccolo strato di burocrazia e di aristocrazia della classe operaia, attirando nelle file dei partiti socialdemocratici molti "compagni di strada" piccolo-borghesi.

La guerra ha accelerato questo sviluppo, trasformando l'opportunismo in socialsciovinismo, rendendo palese l'unione segreta degli opportunisti con la borghesia. Nel tempo stesso, le autorità militari hanno proclamato dovunque lo stato d'assedio, mettendo il bavaglio alla massa operaia, i cui vecchi capi sono quasi tutti passati alla borghesia. La base economica dell'opportunismo e del socialsciovinismo è identica: gli interessi di un gruppo piccolissimo di operai privilegiati e di piccoli borghesi che difendono la propria situazione privilegiata, il proprio "diritto" alle briciole dei profitti ottenuti dalla "loro" borghesia nazionale col depredamento di altre nazioni, con i vantaggi della posizione di grande potenza, ecc.

Il contenuto ideologico e politico dell'opportunismo e del socialsciovinismo è identico: la collaborazione delle classi invece della lotta di classe, la rinuncia ai mezzi rivoluzionari di lotta, l'aiuto al "proprio" governo nelle situazioni difficili, invece di utilizzare le sue difficoltà nell'interesse della rivoluzione. Se consideriamo tutti i paesi europei nel loro complesso, se rivolgiamo l'attenzione non a singole persone (fossero anche le più autorevoli), risulterà che proprio la corrente opportunista è divenuta il sostegno principale del socialsciovinismo, mentre dal campo dei rivoluzionari si leva, quasi dovunque, una protesta più o meno conseguente contro di esso. E se si considera, per esempio, il raggruppamento delle tendenze al Congresso internazionale socialista di Stoccarda del 1907, vediamo che il marxismo internazionale era contro l'imperialismo, mentre l'opportunismo internazionale già allora era in suo favore.

giovedì 18 ottobre 2018

Riflessioni 16... - Stefano Garroni


Da: Mirko Bertasi  Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. - https://www.facebook.com/groups



Alienazione/Estraneazione 

"Voi sapete che Marx, - e anche Hegel - , usa due termini in modo abbastanza rigorosamente distinto, che in italiano vengono resi, volta a volta senza molto rigore, o con alienazione o con estraneazione. 

Molte volte in italiano estraneazione o alienazione vengono detti nello stesso senso. Entausserung un termine, entfremdung l’altro. 
I due termini hanno significati profondamente diversi.

Riprendiamo l’esempio che fa Marx: una persona costruisce con la fantasia qualche cosa e qui abbiamo l’entfremdung, l’estraneazione, quando la mente ha prodotto qualche cosa, ma questo qualche cosa assume l’aspetto di una realtà autonoma, indipendente, vincolante la persona che pure la produce.

Quindi la persona non si riconosce più come produttore di quella cosa, ma vede quella cosa come un potere esterno che lo domina. Questa è l’ entfremdung, diciamo l’estraneazione

Se con la mia fantasia produco qualcosa, e quindi se la mia fantasia si esterna in una rappresentazione, e facciamo conto addirittura questa rappresentazione io l’appunto sulla carta, sulla tela o costruisco un oggetto, qui non c’è estraneazione, perché questa produzione della mente, la mente ancora la conserva come propria produzione, cioè si riconosce come produttrice di quella cosa. 
Qui c’è semplicemente il fatto che la capacità soggettiva si è alienata nel mondo delle cose, ha prodotto una cosa, ma conserva la consapevolezza che quella cosa è un suo prodotto. È semplicemente Entausserung, alienazione totale, ma non estraneazione.

Qui il problema si fa estremamente importante. Perché questa distinzione significa: non è vero che l’uomo perde di libertà quando la sua vita si oggettiva, quando i prodotti della sua attività divengono cose, entrano nel mondo degli oggetti. L’uomo perde di libertà quando questo mondo degli oggetti gli si erge contro come un potere estraneo. E questo passaggio dalla produzione nella cosa alla produzione di potenze dominanti, questo passaggio è mediato dai rapporti sociali.

Il meccanismo della proiezione dell’uomo nel mondo delle cose, non è questo la fonte della perdita di libertà, fonte della perdita di libertà è quando il rapporto sociale è fatto in maniera tale per cui questo prodotto ti si rovescia contro come potere estraneo. 

Brutalmente, non è la scienza, non è la tecnica, non è l’esser cosa in un mondo di cose, il male. Il male è quando il mondo delle cose diventa qualcosa in cui non mi riconosco più, diventa un potere che mi domina.
Quando la tecnica, la scienza, diventa qualche cosa che vincola la mia libertà-volontà che mi si impone e che diventa un potere dominante.

È chiaro che se Marx ed Hegel partono dal punto di vista dell’insieme, della totalità, è ovvio che non possono avere un atteggiamento negativo verso l’obbiettività. Perché è chiaro che in questo momento voi siete oggetto del mio sguardo ma io sono oggetto del vostro. 

Nel rapporto sociale tutti sono contemporaneamente soggetti-oggetti, nella misura in cui c’è relazione c’è sempre questo scambio continuo dalla posizione del soggetto a quella dell’oggetto. 

Quindi non può essere questo oggettivarsi il male, il male è quando il meccanismo sociale è tale per cui l’oggettivo diventa il potere che domina. E quindi non polemica contro la scienza, contro la tecnica, contro la legge, contro l’obbiettività, ma contro quel tipo di rapporto sociale che rovescia tutto ciò in potere dominante." 

mercoledì 17 ottobre 2018

L’esplosione del debito pubblico senza un prestatore di ultima istanza - Domenico Moro

Da: https://www.economiaepolitica.it - domenico-moro è ricercatore presso l’Istat.





I trattati europei e l’euro, imponendo austerità e inibendo l’implementazione di politiche economiche su misura per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto il risultato opposto a quello previsto dai decisori politici e dalla dirigenza della Banca d’Italia negli anni’80 e ’90: il debito pubblico italiano è aumentato.


Il debito pubblico è in Italia uno dei temi principali, se non il principale, attorno al quale ruotano il dibattito economico e le scelte politiche. Il debito pubblico, giudicato eccessivo, è stata una delle motivazioni per l’adesione all’euro e ai trattati europei, allo scopo di costringere governi e parlamenti a una maggiore disciplina di bilancio, incidendo anche oggi sulle scelte di spesa e di politica economica. La maggior parte del debito pubblico attuale si è formata tra l’inizio degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, raddoppiando dal 59,9% sul Pil del 1981 al 124,9% del 1994. Nonostante i vincoli europei alla spesa pubblica, oggi il debito risulta superiore ai livelli dei primi anni ’90, raggiungendo il 131,8% sul Pil contro il 75,7% della media Ue e il 79% della media dell’area euro, ed essendo inferiore in Europa al solo debito greco.
L’obiettivo del presente articolo è capire perché il debito è raddoppiato tra 1981 e 1994 e perché successivamente non si è riusciti a ridurlo in modo significativo e duraturo.

lunedì 15 ottobre 2018

La dignità e l’orgoglio che ci fanno dire siamo tutti bastardi - Franco Cardini

Da; http://materialismostorico.blogspot.com - Franco Cardini è uno storico, saggista e blogger italiano, specializzato nello studio del Medioevo.


Blut und Boden, “Sangue” e “Suolo”. Una coppia che il Romanticismo tedesco è riuscito a rendere fatidica e della quale il nazionalsocialismo si è appropriato imponendone un’accezione allarmante. Ma a ben guardare si tratta di qualcosa di molto simile a un sistema di coordinate cartesiane entro il quale si può racchiudere la storia del genere umano. Da una parte la discendenza biologica dalla quale si esce e che si concretizza in termini genealogici; dall’altra il luogo nel quale si nasce e che può essere legato a ciascuno di noi secondo la familiarità che le passate generazioni gli riconoscevano. Delle due parole-chiave che a quei due termini archetipici si riferiscono, la “nazione” tende a privilegiare il carattere familiare e tribale della nostra origine, la nascita appunto; mentre la patria si rifà più propriamente alla terra dei padri, che noi sentiamo nostra in quanto fu anzitutto loro.

Roma, fedele alla mitica consegna del suo fondatore, fondò le basi del suo cammino imperiale e universalistico sulla solida, concreta base del diritto di ogni membro della sua civitas, l’insieme dei cives, a condividere gli stessi diritti e le stesse prerogative. L’affermazione civis Romanus sum, che risuona con la medesima solennità proferita dall’oratore Cicerone e dal tessitore Saulo, ebreo di Tarso, ha il medesimo significato: e traccia una barriera invisibile ma rigorosa tra chi è civis Romanus e chi non lo è: chi è peregrinus, straniero, e come tale certo anche hospes, che però può diventare facilmente un hostis, un nemico. Ma, espandendosi rapidamente tra VIII e I secolo a.C, Roma apprese una lezione sconvolgente: più la sua potenza si allargava, più diminuiva la coesione interna dei suoi abitanti mentre attorno a lei si moltiplicavano peregrini, hospites/ hostes, barbari.

Il diritto di cittadinanza romana, che poteva esser concesso a intere comunità e a singole persone, divenne un vero e proprio motore di aggregazione, producendo fedeltà e lealismo. Poiché, con la ridefinizione imperiale dello Stato, la concessione del diritto di cittadinanza era stata riconosciuta una prerogativa dell’imperatore, essa si trasformò in un motore della rivoluzionaria concezione secondo la quale l’Urbs si riconosceva e s’identificava con l’Orbis: essere romano acquisiva un significato universale, quanto meno entro i confini dell’impero ai quali si attribuiva una potenzialità di espansione illimitata.

Con la Constitutio Antoniniana del 212, l’imperatore Caracalla compì il definitivo passo sulla via di questa dilatazione del diritto di cittadinanza fino allo svuotamento del suo contenuto di status privilegiato e alla sua coincidenza con una pienezza di prerogative giuridiche di tipo universalistico. Tutto ciò, comunque, includeva un problema ulteriore. L’impero aveva già cominciato a entrare in una crisi complessa, un dato qualificante della quale era quello demografico con i conseguenti immediati macrofenomeni dello spopolamento delle campagne, della flessione della produzione, dell’aumento dell’insicurezza. Il collegare saldamente e strettamente la condizione dei singoli alla stabilità dello stato apparve come un provvedimento quanto mai lungimirante.

La frammentazione e la confusione tecnosociologica ed etnoculturale di oggi richiede una ridefinizione in termini di nuova coscienza identitaria. È una sfida alla quale rispondere con coraggio. Alla pressione di genti che in numero sempre più consistente giungono da paesi che lo sviluppo postcoloniale ha messo in crisi e si vanno insediando in paesi a loro volta compromessi dall’arresto o dall’involuzione dello sviluppo demografico, non si può rispondere se non con una scelta forte, esemplare, in grado d’infondere speranza e fiducia: fare del paese nel quale si nasce, anche se i nostri genitori sono venuti da lontano, la propria patria. Che non equivale affatto a un ricominciare da zero né un imporre una cultura estranea ma, al contrario, ad accettare un’eredità consolidata e prestigiosa fatta di lingua, d’istituzioni, di tradizioni, di valori. Tanto meglio poi se i nuovi cittadini sapranno immettere nella loro nuova patria anche il contributo delle tradizioni che i loro padri e le loro madri avranno loro tramandato. Dallo ius soli potrà nascere una società futura differenziata, non livellata: le differenze sono valori, ed è necessario affrontarle forti di una cultura dell’et- et, non dell’aut- aut.

Una futura società di bastardi? Ebbene, sì: e dobbiamo dirlo con dignità e con orgoglio. Siamo tutti bastardi. Lo siamo sempre stati. Le società pure sono frutto di lontane mitologie illuministiche e romantiche del tutto prive di concreta verifica storica. Proprio l’impero romano, che ai suoi massimi livelli almeno dal II secolo d.C. ha espresso imperatori iberici, illirici, arabi, siriaci e perfino berberi (e più tardi, in età bizantina, macedoni e anatolici) è prova di tutto questo. L’Italia, come terra avanzata nel Mediterraneo e protesa a sud, è obiettivamente in prima linea. Se riesce a rovesciare la situazione che si sta prospettando e da futura cavia imporsi come futura protagonista, avrà vinto la sua battaglia per la sopravvivenza e per la civiltà. E dato un esempio di lungimiranza ai governi europei, che stanno dimostrando di averne bisogno. 
21 7 2017 

domenica 14 ottobre 2018

"Il pensiero di Marx come ontologia dell’essere sociale – rileggendo Lukàcs" - Paolo Vinci (1/3)

Da: AccademiaIISF - http://www.iisfscuoladiroma.it 
Paolo Vinci è docente di Filosofia pratica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma. - http://www.rivistapolemos.it
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html 

I° Incontro:
                    

II° Incontro: "Il pensiero di Marx come ontologia dell’essere sociale – rileggendo Lukàcs" - Paolo Vinci (2/3) 

III° Incontro: "Il pensiero di Marx come ontologia dell’essere sociale – rileggendo Lukàcs" - Paolo Vinci (3/3) 


"lo sono attitudine, facoltà, dapprima solo naturale; questa attitudine non è dunque identica a me in quanto soggetto, in quanto pura soggettività, e così ciò che in me è dapprima solo in quanto natura, poiché non è identico con me, col mio sapere e col mio volere, non è in mio potere; io non ne sono in possesso, si tratta di qualcosa di esterno di cui devo ancora prendere possesso. E’qualcosa che debbo addomesticare, in modo da poterlo usare, da poterlo padroneggiare. Perché le mie dita, il mio braccio, mi obbediscano, devo prima addomesticare tali forze, in modo che l'obbedienza diventi la loro propria natura. Lo stesso vale per le capacità spirituali: la memoria, l'immaginazione, persino il pensiero deve essere educato, mi deve diventare famigliare, spedito, in modo che mi sia presente quando voglio che venga eseguita una determinata attività. Questa è una presa di possesso di determinazioni inizialmente estranee a me, alla mia volontà, alla mia libertà.”
(Hegel, Le filosofie del diritto: 82-3).

sabato 13 ottobre 2018

Discorso sulle donne - Thomas Sankara

da: Thomas Sankara - I discorsi e le idee, 2003 - Edizioni Sankara. Traduzione di Marinella Correggia - https://www.resistenze.org - 
Thomas_Sankara militare, politico e rivoluzionario burkinabé. Noto anche come Tom Sank. 


Discorso sulle donne (1) - 8 marzo 1987, in occasione della giornata internazionale della donna a Ouagadougou

Non accade spesso che un uomo si possa rivolgere a così tante donne in una volta. Né accade spesso che un uomo possa suggerire a così tante donne in una sola volta le nuove lotte da intraprendere.

La prima timidezza che assale l'uomo coincide con il momento in cui diviene cosciente che sta guardando una donna. Così, compagne militanti, capirete che malgrado la gioia e il piacere che provo a indirizzarmi a voi, rimango comunque un uomo, che vede in ciascuna di voi la madre, la sorella o la sposa. Vorrei anche che le nostre sorelle venute sin qui da Kadiogo e che non comprendono il francese - la lingua straniera in cui pronuncerò questo discorso - siano indulgenti con noi come lo sono sempre state, loro che, nostre madri, hanno accettato di portarci nel ventre per nove mesi senza lamentarsi (2).

Compagne, la notte del 4 agosto ha dato al popolo burkinabé un nome e al nostro paese un orizzonte. Corroborati dalla linfa vivificante della libertà, i burkinabé, gli umiliati e proscritti di ieri, hanno ricevuto lo scettro di quel che c'e di più Caro al mondo: la dignità e l'onore. Da allora, la felicità e diventata accessibile e ogni giorno avanziamo nella sua direzione, mentre le nostre lotte testimoniano i grandi passi avanti che abbiamo già compiuto. Ma la felicità egoista non è che un'illusione e noi abbiamo una grande assente: la donna. La donna è stata esclusa da questa processione felice.

Se degli uomini sono già ora vicini al grande giardino della rivoluzione, le donne sono ancora confinate nella loro oscurità spersonalizzante, confrontandosi in silenzio o con clamore sulle esperienze che stanno trasformando il Burkina Faso e che per loro non sono finora che dei clamori.