*Da K. Marx “Lavoro salariato e capitale” https://ildiariodellatalpa.wordpress.com/
Tutto il testo: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/lavcap.htm
Passiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?
Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro salario?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un franco [22] al giorno dal mio borghese”, l’altro: “Io ricevo due franchi”, ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per un determinato tempo di lavoro [23] o per fare un determinato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa.
Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il borghese [24] paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro. Il borghese [25] compera, dunque, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro [26]. Con la stessa somma di denaro con la quale il borghese ha comperato il loro lavoro [27], per esempio con due franchi, avrebbe potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altra merce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbre di zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I due franchi con i quali egli ha comperato dodici ore di lavoro [28], sono il prezzo del lavoro di dodici ore. Il lavoro [29], dunque, è una merce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la bilancia.
Gli operai scambiano la loro merce, il lavoro [29], con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto lavoro [30]. Per tessere dodici ore, due franchi. E i due franchi, non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare per due franchi? Di fatto, quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro [29], contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due franchi esprimono dunque il rapporto in cui il lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suo lavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo del lavoro [31]; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo.
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
giovedì 16 marzo 2017
mercoledì 15 marzo 2017
America Latina: dal boom economico alla crisi* - Osvaldo Coggiola**
*seminario alla Biblioteca Popolare A. Gramsci del Tufello, via Monte Favino 10, Roma, 10/03/17
**Osvaldo Coggiola, prof di Storia presso la Università di San Paolo del Brasile (USP)
**Osvaldo Coggiola, prof di Storia presso la Università di San Paolo del Brasile (USP)
martedì 14 marzo 2017
Marx rivisitato (2): capitale, lavoro e sfruttamento*- Riccardo Bellofiore
*Da:
http://www.dialetticaefilosofia.it/
(pubblicato
in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi,
“Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/marx-rivisitato-capitale-lavoro-e.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/marx-rivisitato-capitale-lavoro-e.html
[…] Secondo Marx,
le merci si scambiano perché già eguali prima del loro confrontarsi
sul mercato.
Le merci hanno cioè
un valore di scambio, si pongono in certi rapporti relativi tra di
loro, perché sono valori assoluti, prima della metamorfosi finale
con il denaro, che pure è la loro destinazione essenziale. Dietro il
valore assoluto Marx rinviene, appunto, nient’altro che lavoro
astratto oggettivato [18].
Il modo di
esposizione all’inizio del Capitale dà l’apparenza di svolgersi
secondo un processo logico che va dal
valore di scambio al valore al lavoro; e, perciò, di una progressiva
espunzione dalle merci di tutte
le caratteristiche diverse da quella di essere meri prodotti di
lavoro.
Come è stato mille
volte osservato, se si ragiona secondo questa procedura, non si vede
perché oltre al lavoro, elemento attivo della produzione, non
dovrebbe rimanere anche la natura, elemento passivo.
Quest’ultima,
d’altra parte, entra nei processi produttivi come natura
trasformata: include perciò, oltre alle quantità
di lavoro passato coagulato nei mezzi di produzione, anche la
scienza, la tecnica e l’innovazione. Non
si vede allora perché anche questi ulteriori elementi non debbano
essere considerati creatori
del valore. Sarebbe inoltre, in questo caso, decisiva l’obiezione
di Böhm- Bawerk: oltre
all’essere prodotti di lavoro, le merci possiedono tutte la
caratteristica dell’utilità – esistono, semmai,
merci che non sono esito di processi di lavoro.
Il fatto è che la
sequenza marxiana non va letta dal valore al lavoro ma in senso
inverso, dal lavoro al valore
[19]. La domanda che si pone Marx è in sostanza questa: quale è la
condizione del lavoro in quella
situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce
nel momento in cui gli esseri umani
producono, ma posteriormente, nello scambio di prodotti in quanto
merci?
Qual è, dunque, la
condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua
erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente
separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo
impersonale del mercato – alle cose – invece che essere implicita
già nella stessa attività?
Quando, insomma, la
socialità di ciò che hanno prodotto si realizza post factum, e si incarna in un potere
d’acquisto generale, indifferente a ogni determinazione specifica,
il denaro?
lunedì 13 marzo 2017
«Concentrare tutte le forze» contro «il nemico principale»*- Domenico Losurdo
«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico».
(Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista)
Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi
1. Democrazia e
pace?
Conviene prendere le
mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse
mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare
la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il
presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea
radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva
lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica
popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza
«significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock,
Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni
impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati
eliminati» (Sherry 1995, p. 182).
Non si trattava di un sogno, raccapricciante quanto si voglia ma senza contatti con la realtà: in quegli anni l’arma atomica veniva ripetutamente brandita contro la Cina impegnata a completare la rivoluzione anticoloniale e a conseguire l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale. La minaccia risultava tanto più credibile a causa del ricordo, ancora vivido e terribile, di Hiroshima e Nagasaki: le due bombe atomiche lanciate sul Giappone agonizzante ma con lo sguardo rivolto – su questo concordano autorevoli storici statunitensi (Alperovitz 1995) – anche o in primo luogo all’Unione Sovietica. Del resto, a essere minacciati non erano solo l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese. Il 7 maggio 1954, a Dien Bien Phu, in Vietnam, un esercito popolare guidato dal partito comunista sconfiggeva le truppe di occupazione della Francia colonialista. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense Foster Dulles si era così rivolto al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente contro il Vietnam?) (Fontaine 1968, vol. 2, p. 118).
Nonostante non
indietreggiassero neppure dinanzi alla prospettiva dell’olocausto
nucleare pur di contenere la rivoluzione anticoloniale (essenziale
elemento costitutivo della rivoluzione democratica), nonostante tutto
ciò, in quegli anni gli Stati Uniti e i loro alleati propagandavano
la NATO da loro fondata come un contributo alla causa della
democrazia e della pace. È in questo contesto che va collocato il
discorso nel marzo 1949 pronunciato da Togliatti alla Camera dei
deputati, in occasione del dibattito relativo all’adesione
dell’Italia all’Alleanza Atlantica:
«La principale
delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non
fanno le guerre. Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente
che non abbiamo un minimo di cultura politica o storica? Non è vero
che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del
XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano come
democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione
contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo
che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per
conquistare determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di
materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù
indigene dei pellerossa, per distruggerle, dando uno dei primi esempi
di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente
qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente».
Non si doveva
neppure dimenticare «la ‘crociata delle 19 nazioni’, come venne
chiamata allora da Churchill» contro la Russia sovietica, ed era
peraltro sotto gli occhi di tutti la guerra della Francia contro il
Vietnam, in quel momento in pieno svolgimento (TO, 5; 496-97).
sabato 11 marzo 2017
La crisi dell'economia italiana all'interno della crisi dell'area euro - Marco Veronese Passarella
Seminario di Marco Veronese Passarella nell'ambito del corso di Economia Monetaria.
Un'interpretazione basata sul paradigma della riproducibilità.Una risposta critica di Riccardo Bellofiore.
Un'interpretazione basata sul paradigma della riproducibilità.Una risposta critica di Riccardo Bellofiore.
venerdì 10 marzo 2017
DEL FETICISMO*- Stefano Garroni
*Riproduzione di
alcuni passaggi tratti dalla discussione del 2/04/99 sul CAP. 24° DEL TERZO
LIBRO DEL CAPITALE. https://www.facebook.com/groups/
Qui l’audio di tutto l’incontro https://www.youtube.com/playlist?list=PLF3B95A47287B917B
Qui tutta la trascrizione dell'incontro: https://www.facebook.com/mirko.bertasi.7/posts/10212727174763040
Qui l’audio di tutto l’incontro https://www.youtube.com/playlist?list=PLF3B95A47287B917B
Qui tutta la trascrizione dell'incontro: https://www.facebook.com/mirko.bertasi.7/posts/10212727174763040
Stefano Garroni:
[...]L’affermazione “la dottrina marxista-leninista” è
totalmente folle, perché non esiste empiricamente.
Perché esiste
una ricerca che non è conclusa, e sulla base di una non-conclusione
Marx ne ha pubblicata una parte. Quindi è tutto un lavoro da fare
ancora. E va sempre ricordato che Marx di libri ne ha pubblicati
pochissimi. Ha pubblicato Miseria della filosofia, La sacra famiglia,
e il primo libro de Il capitale. Il resto sono opuscoli e materiale
enorme per libri che non vengono mai scritti.
Poi ovviamente con
Lenin la cosa è ancora più evidente perché essendo un uomo
politico interviene sempre sul “momento”, sostanzialmente:
modifica, rettifica, cambia, e quindi il senso fondamentale è quello
di una elaborazione in movimento, in sviluppo.
[...]I termini vanno
intesi come schemi di ragionamento, come problematiche, come
impostazione dei problemi. Voglio dire: c’è un’osservazione che
fece Bertrand Russell, a proposito di Hegel. Russell dice che Hegel è
un pensatore il cui intento è superare le contraddizioni, togliere
le contraddizioni. Generalmente quando si parla di Hegel si parla del
filosofo che mette in evidenza le contraddizioni. Russell sottolinea
che Hegel vuole toglierle le contraddizioni. Questa osservazione è
estremamente importante e giusta, nel senso che per Hegel è chiaro
che se io metto in evidenza l’esistenza di una realtà
contraddittoria, allora metto in evidenza anche l’esistenza di un
processo oggettivo che tende al superamento di quella contraddizione.
Hegel prende posizione per questo processo obiettivo che
potenzialmente toglie le contraddizioni. La contraddizione per Hegel
è scandalo che va tolto.
[...]Se io mi muovo
per il superamento delle contraddizioni vuol dire che io ritengo sia
che le contraddizioni debbano essere tolte, sia che le contraddizioni
possono essere tolte.
giovedì 9 marzo 2017
Lavoro agile o smart working: il lavoro del futuro (o del presente?)*- Benedetta Gagliardoni**
**Laureata in
Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Macerata
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/smart-working-sfruttamento-illimitato.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/smart-working-sfruttamento-illimitato.html
Chi
non sognerebbe di poter svolgere almeno parte del proprio carico
lavorativo al di fuori del normale posto di lavoro?
Questa
idea, fino a poco tempo fa un’utopia, sta prendendo piede anche nel
nostro Paese, diventando una modalità di lavoro sempre più
concreta.
Lavoro
agile o smart
working?
Il
lavoro agile, detto anche “smart
working”,
nasce a seguito dell’avvertita esigenza di individuare strumenti in
grado di rendere maggiormente flessibile la prestazione lavorativa e
di aumentare, così, la produttività, riducendo i costi in capo al
datore di lavoro e favorendo la conciliazione dei tempi di vita e di
lavoro del prestatore.
L’equiparazione
linguistica tra l’espressione inglese “smart
working”
e la traduzione italiana “lavoro agile” ha suscitato diverse
perplessità, dovute al fatto che, mentre la seconda sembra rimandare
direttamente all’obiettivo di semplificare l’armonizzazione tra
vita quotidiana e lavoro, evocando, così, una modalità lavorativa
parzialmente indipendente, la prima, traducibile letteralmente come
“lavoro intelligente” sembrerebbe volta maggiormente a
sottolineare la volontà di trovarsi in una realtà lavorativa
caratterizzata da tecnologia, efficienza, versatilità, creatività
ed al passo con i tempi. Tuttavia, seppur le due espressioni assumano
significati non propriamente coincidenti, si ritiene opportuno
individuare l’essenza del lavoro agile o smart
working per
mezzo di un’operazione di bilanciamento tra quelle che sono le
esigenze prettamente conciliative tra vita e sfera lavorativa e
quello che è il mutamento del metodo di lavoro, sempre più tendente
a modalità “smart” di svolgimento della prestazione lavorativa.
L’intervento
del Ddl 2233: cosa si intende per lavoro agile?
mercoledì 8 marzo 2017
La giornata internazionale delle donne*- Aleksandra Kollontaj**
*Tradotto
da www.marxists.org. Prima pubblicazione: Mezhdunarodnyi den'
rabotnitz (International Women's Day), Moscow 1920. http://www.antiper.org/
Una celebrazione militante
**(San
Pietroburgo, 31 marzo 1872 – Mosca, 9 marzo 1952), è stata una
rivoluzionaria russa, la prima donna nella storia che abbia avuto
l'incarico di ministro e di ambasciatrice.
Una celebrazione militante
La
Giornata delle Donne (o Giornata delle donne lavoratrici) é una
giornata di solidarietà internazionale e un giorno per ricordare la
resistenza e l’organizzazione delle donne proletarie.
Ma questa non è una giornata speciale solo per le donne. L’8 marzo è una data storica e memorabile per gli operai e i contadini, russi e di tutto il mondo. Nel 1917, in questo giorno prese avvio la grande Rivoluzione di Febbraio [1]. Furono le operaie di Pietrogrado ad iniziare questa Rivoluzione; furono esse che decisero di innalzare la bandiera dell’opposizione allo zar e ai suoi sostenitori. E così questo giorno, per noi, è una doppia celebrazione.
Ma se questa è una festa per tutto il proletariato perché la chiamano Giornata della donna? Perché teniamo incontri e celebrazioni dedicate in modo particolare alle operaie e alle contadine? Non può questo, forse, offuscare l’unità e la solidarietà della classe lavoratrice?
Ma questa non è una giornata speciale solo per le donne. L’8 marzo è una data storica e memorabile per gli operai e i contadini, russi e di tutto il mondo. Nel 1917, in questo giorno prese avvio la grande Rivoluzione di Febbraio [1]. Furono le operaie di Pietrogrado ad iniziare questa Rivoluzione; furono esse che decisero di innalzare la bandiera dell’opposizione allo zar e ai suoi sostenitori. E così questo giorno, per noi, è una doppia celebrazione.
Ma se questa è una festa per tutto il proletariato perché la chiamano Giornata della donna? Perché teniamo incontri e celebrazioni dedicate in modo particolare alle operaie e alle contadine? Non può questo, forse, offuscare l’unità e la solidarietà della classe lavoratrice?
Per
rispondere a queste domande dobbiamo fare un passo indietro. A come e
perché fu organizzata la Giornata della donna.
Come e perché è stata organizzata la giornata della donna?
Non molto tempo fa, in effetti circa dieci anni fa, la questione dell’uguaglianza della donna e la questione della sua partecipazione al governo accanto agli uomini erano fortemente dibattute. La classe operaia in tutte le nazioni capitalistiche lottava per i diritti delle lavoratrici: la borghesia non voleva accettare queste rivendicazioni. Non era nel suo interesse rafforzare il voto della classe operaia nel parlamento; e in tutti i paesi i borghesi ostacolarono il passaggio di leggi che davano più diritti alle lavoratrici.
I socialisti del Nord America premevano sulla propria rivendicazione del voto con particolare insistenza.
Il 28 febbraio 1909 le donne socialiste degli Stati Uniti organizzarono grandi manifestazioni e incontri in tutto il paese, rivendicando i diritti politici per le donne lavoratrici. Questa fu la prima “Giornata della donna”. L’iniziativa per l’organizzazione di questa giornata spetta quindi alle operaie d’America.
Nel 1910 alla Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Operaie, Clara Zetkin portò avanti la proposta di organizzare una Giornata internazionale delle donne lavoratrici. La conferenza decise che ogni anno, in ogni paese, si sarebbe celebrata nello stesso giorno, una “Giornata della Donna” sotto lo slogan “Il voto alle donne unirà la nostra forza nella lotta per il socialismo”.
In quegli anni la richiesta di rendere il parlamento più democratico allargando appunto il suffragio ed estendendolo alle donne era una questione vitale. Precedentemente alla prima guerra mondiale gli operai avevano il diritto di voto in tutte le nazioni borghesi ad eccezione della Russia. Solo le donne, come i malati di mente, rimanevano senza questo diritto. Allo stesso tempo però, la dura realtà del capitalismo esigeva che la donna partecipasse all’economia della nazione. Ogni anno c’era un incremento nel numero di donne che lavoravano nelle fabbriche e nei negozi, o come domestiche o donne a ore. Queste donne lavoravano accanto agli uomini e producevano con le loro mani la ricchezza del paese. Ma restavano senza diritto di voto.
Ma negli ultimi anni prima della guerra l’aumento dei prezzi spinse anche le casalinghe più pacifiche ad interessarsi delle questioni politiche ed a protestare ad voce alta contro la politica di saccheggio della borghesia. Le “rivolte delle casalinghe” divennero sempre più frequenti, infiammandosi in momenti diversi in Austria, Inghilterra, Francia e Germania.
Le lavoratrici compresero che non era sufficiente fracassare i banchetti al mercato o minacciare qualche commerciante: capirono che queste azioni non abbassavano il costo della vita. Bisognava cambiare la politica del governo. E per realizzare questo, la classe lavoratrice doveva ottenere che fosse esteso il diritto di voto.
Fu deciso di istituire una Giornata delle donne in ogni nazione come forma di lotta per il diritto di voto. Questa giornata doveva essere una giornata di solidarietà internazionale nella lotta per obiettivi comuni e per misurare la forza delle donne lavoratrici organizzate sotto la bandiera del socialismo.
Come e perché è stata organizzata la giornata della donna?
Non molto tempo fa, in effetti circa dieci anni fa, la questione dell’uguaglianza della donna e la questione della sua partecipazione al governo accanto agli uomini erano fortemente dibattute. La classe operaia in tutte le nazioni capitalistiche lottava per i diritti delle lavoratrici: la borghesia non voleva accettare queste rivendicazioni. Non era nel suo interesse rafforzare il voto della classe operaia nel parlamento; e in tutti i paesi i borghesi ostacolarono il passaggio di leggi che davano più diritti alle lavoratrici.
I socialisti del Nord America premevano sulla propria rivendicazione del voto con particolare insistenza.
Il 28 febbraio 1909 le donne socialiste degli Stati Uniti organizzarono grandi manifestazioni e incontri in tutto il paese, rivendicando i diritti politici per le donne lavoratrici. Questa fu la prima “Giornata della donna”. L’iniziativa per l’organizzazione di questa giornata spetta quindi alle operaie d’America.
Nel 1910 alla Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Operaie, Clara Zetkin portò avanti la proposta di organizzare una Giornata internazionale delle donne lavoratrici. La conferenza decise che ogni anno, in ogni paese, si sarebbe celebrata nello stesso giorno, una “Giornata della Donna” sotto lo slogan “Il voto alle donne unirà la nostra forza nella lotta per il socialismo”.
In quegli anni la richiesta di rendere il parlamento più democratico allargando appunto il suffragio ed estendendolo alle donne era una questione vitale. Precedentemente alla prima guerra mondiale gli operai avevano il diritto di voto in tutte le nazioni borghesi ad eccezione della Russia. Solo le donne, come i malati di mente, rimanevano senza questo diritto. Allo stesso tempo però, la dura realtà del capitalismo esigeva che la donna partecipasse all’economia della nazione. Ogni anno c’era un incremento nel numero di donne che lavoravano nelle fabbriche e nei negozi, o come domestiche o donne a ore. Queste donne lavoravano accanto agli uomini e producevano con le loro mani la ricchezza del paese. Ma restavano senza diritto di voto.
Ma negli ultimi anni prima della guerra l’aumento dei prezzi spinse anche le casalinghe più pacifiche ad interessarsi delle questioni politiche ed a protestare ad voce alta contro la politica di saccheggio della borghesia. Le “rivolte delle casalinghe” divennero sempre più frequenti, infiammandosi in momenti diversi in Austria, Inghilterra, Francia e Germania.
Le lavoratrici compresero che non era sufficiente fracassare i banchetti al mercato o minacciare qualche commerciante: capirono che queste azioni non abbassavano il costo della vita. Bisognava cambiare la politica del governo. E per realizzare questo, la classe lavoratrice doveva ottenere che fosse esteso il diritto di voto.
Fu deciso di istituire una Giornata delle donne in ogni nazione come forma di lotta per il diritto di voto. Questa giornata doveva essere una giornata di solidarietà internazionale nella lotta per obiettivi comuni e per misurare la forza delle donne lavoratrici organizzate sotto la bandiera del socialismo.
domenica 5 marzo 2017
Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista*- Enzo Pellegrin
Si
sente spesso parlare della "proletarizzazione del ceto medio"
come fenomeno sociale dell'attuale epoca economica. Recentemente,
sull'Espresso, discorrendo dei
recenti tumulti romani di tassisti e ambulanti, l'editorialista
Gilioli aveva modo di notare come "con
un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte
l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o
dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.[…] i
conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è
Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e
tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà
pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà
come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. […] Poi però
accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri
robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno
altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo
per portare a casa un reddito. Ci saranno soluzioni più
soddisfacenti per i consumatori di quanto siamo noi, a un costo
minore. Nessuno, fuori, ci rimpiangerà."
Viene spontanea una riflessione: il progresso tecnologico non ha un effetto neutro: dipende dalle mani e dai cervelli che lo possiedono.
Personalmente non vedo affatto negativamente un mondo in cui un certo tipo di lavoro divenga obsoleto e vi siano dei mezzi tecnici per evitarlo. Se la produzione di ricchezza fosse collettivamente determinata, distribuita a ciascuno in base ai propri bisogni ed alle proprie aspirazioni e finalizzata alle necessità reali della collettività e dell'ambiente, non avrei nulla in contrario verso i mezzi che rendono obsoleta la fatica per produrla. In queste condizioni tutti ne avremmo un equo vantaggio. Lavoreremmo di meno per produrre un valore a vantaggio di tutti.
Perché ci si dovrebbe opporre al fatto che l'ente collettivo trasporti i passeggeri con una navetta ad intelligenza artificiale a tutte le ore anziché utilizzando la fatica di un'autista? Se quell'autista, per questo, non perde un lavoro, ma ci guadagna un vantaggio, potendo impiegare diversamente il proprio tempo ed il proprio lavoro altrove a vantaggio proprio e del collettivo, perché essere contrari?
Nel mondo nostro, all'interno del capitalismo globalizzato, non è però così.
Ogni innovazione tecnologica è - nel nostro sistema economico - finalizzata a produrre il maggior profitto per il capitalista privato che la promuove e ne sfrutta i vantaggi.
I vantaggi delle innovazioni tecnologiche consistono spesso nella possibilità di diminuire la quantità di lavoro umano necessaria per produrre una data quantità di ricchezza.
Ma non sempre.
sabato 4 marzo 2017
L'ultimo contadino (The Last Farmer) - Giuliano Girelli
L'agricoltura contadina produce cibo per oltre il 70% della popolazione del pianeta, mentre l'agricoltura industriale non provvede che al 30%; ciò nonostante 2.8 miliardi di persone nel mondo vivono con meno di 2 dollari al giorno, la maggioranza di queste persone sono contadini o ex contadini che ora vivono nelle baraccopoli di qualche grande città.
Questo documentario parla di loro, della globalizzazione e dunque anche di noi.
Questo documentario parla di loro, della globalizzazione e dunque anche di noi.
Documentario sui danni della finanza al "3° mondo"...
venerdì 3 marzo 2017
ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO*- Stefano Garroni
*Brevi passaggi dall’intervento nell’Incontro-Convegno tenutosi
alla Sapienza di Roma il 18/03/99 su LE ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO
di T. EAGLETON – A.Ciattini, A.Simonicca, A.Colajanni, N.Gasbarro,
S.Garroni. https://www.facebook.com/groups/276130642477707/?fref=ts
Qui l’audio di tutti gli interventi: https://www.youtube.com/watch?v=htILF79-rbM&list=PLF60090192DC349BA&index=1
[...]C'è una sola illusione: quella di esistere. Il post-modernismo
non esiste.
[...]Immaginate un grande pittore che faccia un quadro, dopo un po'
di anni questo quadro viene stampato, riprodotto e venduto al
supermercato. Questo momento è il post-modernismo.
[...]Colajanni descrive certe vicende delle università. Ma collega
Colajanni questo è proprio l'emarginazione, la marginalità! Ha
ragione Eagleton, non è che io non sono marginale perché manovro i
dollari, è che la cultura è stata resa marginale da un sistema di
potere che è sempre di più concentrato in poche mani che sono
volgarmente le multinazionali che hanno i soldi da dare ai professori
universitari, e questi fanno i giochetti tra di loro, ma non hanno
più nessun peso effettivo.
Questo è il punto reale. Si scopre una
certa marginalità nel post-modernismo? ma certo, ma si tratta di
quegli strati piccolo o medio borghesi che hanno creduto alla
possibilità di un nuovo grande New Deal, di un nuovo grande momento
del capitalismo che assicurasse a tutti, cioè a loro, ricchezza,
benessere, libertà, potere: non è successo. Non è successo.
Recentemente è uscito un articolo di una studiosa americana, negli
Stati Uniti, in cui giustamente si sottolinea che al di là
dell'asprezza degli scontri nel ‘68, negli Stati Uniti in
particolare, gli obiettivi di lotta erano quelli di un capitalismo
democratico. Un largo strato di intellettuali ha creduto di poter
accedere finalmente al potere. Non ce l’ha fatta. Il grande crollo
è questo, la grande disillusione di non potere avere spazio nella
società dei padroni. E non ce l'hanno infatti.
[...]Noi abbiamo, con una profondità notevolissima, con una ricchezza
di temi enorme, con un'attualità formidabile - questa si attuale, penso a Kierkegaard, penso Nietzsche, per esempio, altro che Vattimo
questa roba qua -, abbiamo una tematizzazione profondissima, ricca, densa, di tutti i problemi che noi stiamo vivendo. Però noi
li stiamo vivendo a livello del supermercato, della riproduzione di
supermercato. Lì venivano vissuti in maniera molto seria, molto
profonda.
[...]Nel ‘68, i colleghi lo ricorderanno, era un luogo comune la
critica al soggetto cartesiano, perché è un soggetto autoritario,
unilaterale, e implica la dittatura della ragione. Questo significa
non aver letto minimamente, per esempio, il discorso sul metodo. Dove
la dimensione è completamente un'altra. Non aver riflettuto su che
cosa vuol dire l'arbitrarismo teologico di Cartesio. Cartesio in
definitiva dice: “A noi è sicuramente evidente che uno più uno fa
due, non c'è dubbio. Perché è evidente? Perché così Dio ha
voluto. Ma avrebbe potuto volere altrimenti”. Il che vuol dire
costruire il mondo su una situazione di arbitrio. Con buona pace
della dittatura della ragione, dell'unilaterale ragione che tutto
soffoca. Non è vero!
Tutto il pensiero moderno nasce con il senso fortissimo del dramma, dell'ambiguità. Giustamente Colajanni ricordava quel libro che mette in questione non la post-modernità, ma la modernità. Ha ragione. In che senso? ovviamente, nel senso che la post-modernità, le fesserie che l'industria culturale ci ammannisce, sulla base di Vattimo e di tanti altri imbroglioni del genere (non esiste). Per esempio se noi andiamo effettivamente a studiare le cose, ma dove sta questa cattiva ragione che tutto imprigiona? Sta in Diderot? In Hume? In Locke? Dove sta? Tutta la cultura moderna è piena del senso del dramma, dell'ambiguità, della complessità. Pensate a Kant. Là dove la ragione è un progetto, è un qualcosa da costruire, è un impegno morale. Se la ragione è un impegno morale vuol dire che non è nei fatti. È un impresa in cui io mi butto e devo rischiare: vinco, perdo, non so.
[...] Alt! il post-modernismo è una falsificazione totale. Certo se
noi andiamo alle cose serie, per esempio andiamo a Nietzsche, per
esempio andiamo a Kierkegaard, per esempio andiamo a Schopenhauer,
cogliamo qualche cosa di molto importante, che sono quelle ambiguità,
quelle contraddizioni grandi che si nascondono nella società
moderna. Anche i suoi momenti più grandi di conquista di libertà:
la democrazia, il parlamentarismo. Beh, le analisi di Nietzsche, di
Schopenhauer, sono formidabili. C'è un anticipo netto del dramma del
totalitarismo della società democratica, dell'appiattimento della
personalità che la società democratica comporta. Uno dei cui
effetti è il post-modernismo. Solo in un uomo diventato misero,
piatto, il post-modernismo può valere come atteggiamento culturale.
Badate, voglio dire esattamente questo: ha senso leggere Kierkegaard,
ha senso leggere Nietzsche, ha senso leggere Schopenhauer. Io non
condivido le loro posizioni, ma qui imparo. Non ha senso leggere
Derrida, Vattimo e quest'altra roba qua. Non ha nessun senso, non
imparo, non capisco meglio il mondo, non acquisto una nuova
problematicità. Qui ha ragione Eagleton ed è molto bella la
descrizione che faceva Colajanni, perché ha perfettamente ragione.
Quante cose sono accennate, per esempio in questo libro è nettamente
presente Wittgenstein. È nettamente presente un certo modo di
leggere Hegel, Kant, mediato dalla tradizione empiristica che è di
grandissimo interesse. Proprio contro quella compresenza della falsa
sinistra, o della sinistra chiusa nel dogma. È presente Wittgenstein
in Eagleton. Io non sono antropologo quindi non so fare il paragone
che faceva Colajanni, ma certo che questa enfasi sull’
“immaginiamo”, io la leggo come un diretto chiamare in causa
Wittgenstein appunto, ed è - mi soffermo su questo per un motivo,
non sto facendo arena accademica -, wittegensteiniano il fatto anche
che questo sottolineare i momenti immaginativi “immaginiamo che …”,
non ha nulla a che fare con il post-moderno. Questo “immaginiamo
che …”, serve poi a tornare nella realtà per capirla meglio, e
Wittgenstein lo sottolinea molte volte. I giochi linguistici che io
immagino, invento, hanno la funzione di farmi capire meglio il gioco
linguistico reale, della lingua che effettivamente parliamo. Questo
non è post-moderno. Questo è un uso dell'immaginazione per
allargare gli strumenti di cui posso disporre per capire ciò che
c'è. [...]
giovedì 2 marzo 2017
L'etica degli Stoici*
Ogni essere vivente
fin dalla nascita tende spontaneamente alla propria conservazione,
scegliendo le cose consone alla propria natura: questo è il punto di
partenza dell'etica stoica, che riconosce però all'uomo la capacità
di approfondire questo livello istintivo grazie all'opera del logos.
Questo è in grado di riconoscere l'ordine dell'universo e di
perseguire quindi il bene supremo nel volontario adeguamento al fato.
Vivere secondo natura significa in conclusione per l'uomo vivere
secondo il logos, sopprimendo tutte le passioni (piacere e dolore,
desiderio e paura) che turbano l'esercizio della ragione. Tutto ciò
che non tocca questa razionalità è «indifferente»: vita e morte,
salute e malattia, ricchezza e povertà; laddove possibile tuttavia
le cose consone alla propria natura vengono preferite, e sono anzi il
presupposto di quelle azioni «convenienti» che costituiscono la
normale vita sociale degli uomini.
Il primo impulso
L'etica stoica condivide con molte tendenze dell'etica antica sia uno stretto legame con il problema della felicità, sia una fondazione (per lo meno nella formulazione datale da Crisippo) nell'osservazione della realtà naturale. Il punto di partenza consiste infatti nell'osservare quale sia il «primo impulso» (próte hormé) nella natura dell'uomo e dei viventi in generale. Già le testimonianze evidenziano come questo punto di partenza sia determinato in polemica con Epicuro:
Affermano che il primo impulso per l'animale è tendere a conservare sé stesso, perché la natura fa sì che l'animale si appropri di sé fin dal principio (oikeióuses autó tes phýseos ap'archés), come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, dove dice che il «primo proprio» (próton oikéion) per ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di essa. Infatti non sarebbe verosimile né che la natura facesse alienare un animale da sé, né che dopo averlo fatto non lo facesse né alienare né appropriare. Resta dunque da dire che dopo averlo costituito lo faccia appropriare a sé stesso: così infatti respinge le cose dannose e cerca quelle appropriate.Ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo impulso degli animali vada verso il piacere, mostrano che è falso. Affermano infatti che il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.In nulla, affermano, la natura differisce riguardo alle piante e riguardo agli animali, perché pur senza impulso e sensazione amministra anche le prime, e d'altra parte in noi alcune cose avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali in più si aggiunge l'impulso, servendosi di esso vanno verso le cose proprie. Dunque per questi vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall'impulso, mentre, dato che il logos è dato agli esseri razionali per una più perfetta costituzione, vivere secondo natura diventa per essi esattamente vivere secondo logos. Infatti questo si aggiunge come artefice dell'impulso (SVF III.178).
martedì 28 febbraio 2017
Trotzky, il profeta ricordato* - Stefano Paterna
*Isaac Deutscher, Il
Profeta esiliato,Milano, PGreco Edizioni, 2011, p. 436. https://www.lacittafutura.it/
Ci fu un tempo nel
quale alle labbra del proletariato internazionale perveniva il
medesimo grido: “Viva Lenin! Viva Trotzky!”. Negli anni che vanno
dall’Ottobre rosso fino alla fine degli anni ’20, ma anche dopo,
fino al suo assassinio in Messico, il nome di Lev Davidovic Bronstein
detto Trotzky è rimasto il sinonimo della Rivoluzione in Russia e
nel mondo.
La riedizione nel
2011 della bellissima trilogia biografica di Isaac Deutscher sul
grande rivoluzionario (“Il profeta armato”, “Il profeta
disarmato” e “Il profeta esiliato”), da parte della casa
editrice PGreco, dà modo di apprezzare a pieno lo spessore del
personaggio, la sua dimensione umana, la vastità della tragedia che
non è solo personale, ma di un’intera epoca e ha segnato in modo
profondo il movimento comunista e il pensiero marxista.
Il comunismo post
1991, più che mai in occasione del centenario della Rivoluzione del
1917, non può permettersi ancora abiure e dimenticanze: se vuole
ridestarsi al ventunesimo secolo ha bisogno dell’intera sua storia
e di tutta la ricchezza e varietà del marxismo (o più correttamente
dei marxismi), come già ribadito in altra occasione su questo stesso
giornale (a proposito di Bordiga). Di questa ricchezza e varietà è
parte importantissima l’esperienza politica e teorica di Lev
Trotzky, fondatore dell’Armata Rossa, presidente del Soviet di
Pietrogrado nel corso della prima Rivoluzione del 1905 e poi di nuovo
nel 1917, commissario agli Affari Esteri della Repubblica Sovietica e
firmatario del Trattato di Brest-Litovsk che, per quanto riguarda la
Russia, pose fine alla Prima Guerra Mondiale. Di fatto, al di là
delle opinioni e delle preferenze ideologiche, l’esponente
bolscevico più importante e maggiormente coinvolto nella Rivoluzione
di Ottobre, dopo Lenin.
Certo, a partire
dalla metà degli anni ’20 la marea montante dello stalinismo lo
sommergerà di calunnie e di accuse le più fantasiose e aberranti
fino a dipingerlo prima come un agente di Hitler e del Giappone
imperiale e poi dell’imperialismo Usa. Tuttavia della sua proposta
politica (industrializzazione accelerata e collettivizzazione
dell’agricoltura) prenderà nota lo stesso Stalin che parzialmente
e brutalmente la applicherà a partire dal 1929. Il medesimo Stalin
che rimarrà ossessionato dalla figura dell’esule (pure ormai privo
di qualsiasi potere rilevante) fino al 1940, quando lo farà uccidere
da un sicario del NKVD, Ramon Mercader.
Di tutto ciò e di
moltissimo altro scrive diffusamente Isaac Deutscher nella sua
imponente trilogia pubblicata tra il 1954 e il 1963. Deutscher
(1907-1967) è stato sì un militante del Partito Comunista Polacco e
della sua corrente antistalinista, ma da storico ha dato vita nella
biografia di Trotzky a un’opera assolutamente equilibrata che non
nasconde le sue simpatie e le sue avversioni, ma le fonda sulla
robustezza dei fatti. Così, non viene occultata la funzione
progressiva dello stalinismo a partire appunto dalla scelta di
recidere il cordone ombelicale con la Russia arcaica e contadina,
anche se quel taglio suggerito dalla Opposizione unificata di
Trotzky, Zinovev e Kamenev, fu applicato con una tale violenza e con
i conseguenti gravi squilibri che i tre oppositori di certo non
auspicavano; e non vengono dimenticati gli errori tattici che Trotzky
commise a partire dalla morte di Lenin in poi non ponendo
immediatamente e sino in fondo la questione dell’esautorazione del
georgiano dal ruolo di segretario generale del partito come gli
chiese di fare lo stesso Lenin poco prima di morire oppure con la
stessa fondazione della Quarta Internazionale, creatura nata morta e
di fatto sterile, così come gran parte delle sette trotzkiste
avvicendatesi negli anni seguenti alla morte del fondatore. Di
tutt’altra pasta erano invece i trotzkisti sterminati alla fine
degli anni ’30 in Urss e che andavano alla morte cantando
l’Internazionale.
lunedì 27 febbraio 2017
Uscire dall’Euro?*- Gennaro Zezza**
*Questa è la prima
bozza di un documento divulgativo che mi è stato richiesto. http://gennaro.zezza.it/
**Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale
“la creazione di una moneta unica porterà alla fine delle sovranità nazionali e alla capacità di agire in modo indipendente su questioni di rilievo…. La capacità di stampare moneta, e per il governo di finanziarsi presso la propria Banca centrale, è l’aspetto più importante dell’indipendenza nazionale. … Se vi si rinuncia, ci si trasforma in una autorità locale, o una colonia. … e quando arriva una crisi, se il Paese ha perso la capacità di svalutare e non può beneficiare di trasferimenti fiscali a compensazione, non c’è nulla che possa fermarne il declino, fino all’emigrazione come unica alternativa alla povertà”(1)
Abbiamo
voluto l’euro, abbiamo avuto il declino, e ora l’emigrazione e
l’aumento della povertà. E il sottoporre le nostre leggi di
bilancio alla Commissione Europea è solo una delle dimostrazioni del
fatto che il Governo è diventato una “autorità locale”.
Ma
allora perché abbiamo adottato l’Euro?
Per
lo stesso motivo per cui molti vogliono rimanerci! Era già chiaro,
nei dibattiti parlamentari che hanno preceduto la firma dei Trattati,
che rinunciare alla politica dei cambi e alla politica monetaria
comportava una compressione dei salari. La decisione di entrare
nell’Euro è stata politica, motivata dal desiderio di conribuire a
scrivere le regole della “casa comune europea”. Questo desiderio
si è rivelato una pia illusione, perché nonostante il peso
economico dell’Italia, l’evoluzione delle regole dell’Unione
europea e della gestione dell’Euro hanno tutelato principalmente i
gruppi industriali e finanziari del Nord, con scarsi interventi di
bilanciamento.
domenica 26 febbraio 2017
Perché distruggere la scuola pubblica?*- Paolo Di Remigio
*Da: http://www.badiale-tringali.it/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sono-utili-le-prove-invalsi-giorgio.html
La
vicenda della scuola pubblica italiana va inserita nella vicenda
della repubblica: l'Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla
sconfitta nella seconda guerra mondiale, dunque a sovranità più o
meno strettamente limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli
Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Negli anni '90 la sua classe
dirigente, abituata a un'ampiezza di movimento non più compatibile
con i progetti neoconservatori statunitensi di impero globale, è
stata liquidata e sostituita da avventizi alle dirette dipendenze dei
poteri globali, che hanno occupato tutti i posti di gestione, dallo
Stato alle banche, dai partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti.
Compito di questi proconsoli era la rinuncia a ogni sovranità dello
Stato e l'attuazione di politiche economiche neoliberali; di qui
l'adesione cieca alle più folli geopolitiche anglo-americane e la
partecipazione autolesionistica al progetto europeo. Nel nome delle
regole europee è stata smantellata l'economia mista; le imprese
pubbliche che avevano portato l'Italia a diventare una delle maggiore
potenze industriali sono state privatizzate; è stata ridotta la
spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono diventati sempre
più inefficienti e costosi per i cittadini; le pensioni così
ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza privata,
le file d'attesa agli ospedali così lunghe da costringere a
ricorrere alla sanità privata oppure a rinunciare a curarsi, la
scuola pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva di
un'offerta di istruzione privata.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sono-utili-le-prove-invalsi-giorgio.html
Lo
Stato minimo implica la scuola minima. La scuola minima è quella che
include, diverte, nonistruisce. Se istruisse non ci sarebbe spazio
per la scuola privata e questo offende il primo articolo di fede
dell'ideologia neoliberale: la superiore efficienza dell'impresa
privata rispetto all'impresa pubblica. Modello delle politiche
scolastiche europee è diventato così il sistema educativo
anglosassone che combina una scuola pubblica gratuita, ma degradata
al punto da dover disporre i 'metal detector' per arginare le
violenze, con una scuola privata, che promette facile accesso al
mondo del lavoro, ma costosa, per frequentare la quale ci si può
indebitare per tutta la vita – un sistema fallimentare a parere
unanime, denunciato ultimamente dal primo ministro May e dal
presidente Trump; un sistema che non può funzionare perché la
scuola privata su cui poggia trasforma in cliente l'alunno, gli dà
dunque una prevalenza sull'insegnante che rende improponibile la
severità e la fatica dell'imparare; un sistema che però consente un
imponente giro d'affari: solo se la scuola pubblica diventa un
ospizio, può nascere una domanda solvente di istruzione qualificata,
cioè genitori disposti a pagarla per i loro figli; solo questa
domanda può sostenere un'offerta di istruzione qualificata, cioè
una scuola privata che non sia più soltanto confessionale o
parassitaria della scuola pubblica, ma che costituisca il centro
nevralgico del sistema di istruzione.
sabato 25 febbraio 2017
Su: Europa e Globalizzazione*- Cristina Re**
*Intervento di Cristina Re, studentessa all'Università di Economia di Bologna, in un incontro avvenuto nella stessa con relatori Romano Prodi e il professor Emiliano Brancaccio. https://www.facebook.com/rethinkingeconomicsbologna/videos/1587848531231318/
"Salve
professore,
Sono Cristina di rethink economics_bologna/ e la ringrazio per aver accettato il
nostro invito. Detto ciò, però, questo è l'unico ringraziamento
che mi sento di farle. Mi permetta di rubarle due minuti.
Le parlo come
componente di quella che viene definita "Generazione Erasmus".
Eccola qui, la generazione Erasmus: una generazione nata e cresciuta
all'interno dell'Unione Europea ed educata con la favola di un'Europa
di cooperazione e obiettivi comuni, di uno spazio in cui viaggiare
liberamente ed educarsi alla diversità. Un luogo di pace, prosperità
e libertà.
La favola della
nuova generazione Europea di studenti colti, aperti e con alta
mobilità si scontra però con la realtà, ossia con la generazione
dei disoccupati e dei lavoratori poveri. Infatti, solo l'1% degli
studenti italiani partecipa a progetti di mobilità, mentre gli altri
si trovano in situazioni di precarietà o disoccupazione. La
disoccupazione giovanile nel 2017 è arrivata a superare il 40% e
coloro che trovano lavoro sono costretti ad accettare orari e salari
da fame con contratti a termine o retribuiti tramite voucher. In
tantissimi sono costretti ad emigrare; alcuni svolgono attività di
ricerca qui sotto finanziata altri sono costretti a lavori non
qualificati e sottopagati, nonostante l'alto livello d'istruzione.
Il futuro dei
giovani italiani è un futuro grigio e di cui lo Stato ha deciso di
non farsi carico. Siamo una generazione abbandonata dalle istituzioni
e, certo, non sarà tutta colpa dell'Unione europea, ma sicuramente
per capire come migliorare bisogna prima individuare le colpe ed i
colpevoli. L'italia ha scelto di condividere e mettere in atto lo
smantellamento dello stato sociale: ha tagliato educazione,
istruzione, protezioni sociali, investimenti industriali, ecc. Una
situazione di cui nessuno vuole farsi responsabile ma che è
strettamente collegata con l'adesione dell'Italia alle politiche
neoliberiste.
Professore, lei, il
18 gennaio ha rilasciato un'intervista al quotidiano.net/ in cui dice
"la mia Europa è morta. Ma spero che la crisi la svegli. Ora
possiamo solo aggiungere: preghiamo"
Beh, troppo semplice
così.
Mi dispiace ma mi
rifiuto di vivere in un paese che soffre di deficit di memoria. Che
trasforma i carnefici in vittime e i colpevoli in eroi.
Non possiamo non
dimenticare che lei, come presidente dell'IRI ha svenduto il
patrimonio economico italiano a società private.
Lei partecipò in
prima persona alla nascita dell'euro, prima come Presidente del
Consiglio e poi come Presidente della commissione europea.
Lei non si è
battuto per cambiare i criteri scellerati del trattato di Maastricht,
nei quali l'Italia non rientrava, ma promise riforme future. Da quel
peccato originale è succeduto un vortice di privatizzazione, tagli
al welfare, sottomissione ai diktat franco- tedeschi, attacco ai
salari e ai diritti dei lavoratori con l'unico obiettivo di ridurre
il nostro debito pubblico, rientrare nei parametri di Maastricht e
renderci "competitivi". Fu proprio durante il suo governo
che venne approvato il pacchetto Treu che diede inizio al fenomeno
della precarietà in Italia.
Durante il suo
secondo mandato da Presidente del consiglio, poi, fu lei a firmare il
trattato di Lisbona che di fatto era uguale alla Costituzione europea
bocciata nel 2005 da francesi e olandesi.
Mi dispiace ma non
può dire che questa non è la sua Europa. Questa è proprio la sua
Europa.
Lei ha svenduto il
nostro futuro e in cambio di cosa? Ecco cosa abbiamo ottenuto: la
libertà di andare all'estero a fare i camerieri o di vivere una vita
di precarietà e misera. Una vita che ha condotto molte persone alla
disperazione ed alcuni anche al suicidio.
Adesso, non le
chiedo, come fa qualcuno, di formare un nuovo partito o ricandidarsi
per riparare alla situazione. No, quello spetta a noi.
Però le chiedo,
come minimo, che riconosca le sue responsabilità e i suoi errori; e
che magari ci chieda anche scusa."
Genitori in difficoltà nel tempo della crisi - Silvia Vegetti Finzi*
*Silvia_Vegetti_Finzi è una psicologa italiana.
Al termine dell’adolescenza, quando si tratta di scegliere la facoltà universitaria o il lavoro, di restare o andare altrove, viene il momento in cui i ragazzi si fanno carico della loro vita: puntano lo sguardo sul futuro, calcolano le risorse e rischiano il domani. Spesso i genitori spaventati, incapaci di attendere, li subissano di consigli, previsioni, ammonizioni, sino a prendere il loro posto, sino a sostituirli. Agiscono indubbiamente per il loro bene ma in tal modo li rendono dipendenti e passivi e telecomandandoli tarpano le loro ali. Apparentemente può far comodo ma vivere nel futuro degli altri, nel loro orizzonte di aspettative, depaupera le motivazioni e impedisce ai giovani di scorgere quanto hanno in comune tra loro, come il loro destino sia condiviso dai coetanei e come il vero soggetto di una generazione sia il “Noi” non l’”Io”. Non sanno che da una crisi epocale ci si salva tutti o nessuno e procedono pertanto in ordine sparso, senza elaborare una narrazione collettiva, un romanzo corale al quale riconoscersi. In una lettera aperta scritta da un gruppo di ventenni al presidente del consiglio e pubblicata sul Corriere della sera si legge: “Siamo colposamente sospesi tra il vuoto di aspettative e il miraggio di sicurezze. Senza la possibilità di metterci in gioco con le stesse garanzie dei nostri padri e dei nostri nonni. La nostra voce è stata marginalizzata e resa afona anche per via di nostre comprovate responsabilità. Abbiamo subito le decisioni e consentito che la nostra indifferenza lasciasse ampi spazi di manovra a chi non ha avuto a cuore le nostre sorti...”
Al termine dell’adolescenza, quando si tratta di scegliere la facoltà universitaria o il lavoro, di restare o andare altrove, viene il momento in cui i ragazzi si fanno carico della loro vita: puntano lo sguardo sul futuro, calcolano le risorse e rischiano il domani. Spesso i genitori spaventati, incapaci di attendere, li subissano di consigli, previsioni, ammonizioni, sino a prendere il loro posto, sino a sostituirli. Agiscono indubbiamente per il loro bene ma in tal modo li rendono dipendenti e passivi e telecomandandoli tarpano le loro ali. Apparentemente può far comodo ma vivere nel futuro degli altri, nel loro orizzonte di aspettative, depaupera le motivazioni e impedisce ai giovani di scorgere quanto hanno in comune tra loro, come il loro destino sia condiviso dai coetanei e come il vero soggetto di una generazione sia il “Noi” non l’”Io”. Non sanno che da una crisi epocale ci si salva tutti o nessuno e procedono pertanto in ordine sparso, senza elaborare una narrazione collettiva, un romanzo corale al quale riconoscersi. In una lettera aperta scritta da un gruppo di ventenni al presidente del consiglio e pubblicata sul Corriere della sera si legge: “Siamo colposamente sospesi tra il vuoto di aspettative e il miraggio di sicurezze. Senza la possibilità di metterci in gioco con le stesse garanzie dei nostri padri e dei nostri nonni. La nostra voce è stata marginalizzata e resa afona anche per via di nostre comprovate responsabilità. Abbiamo subito le decisioni e consentito che la nostra indifferenza lasciasse ampi spazi di manovra a chi non ha avuto a cuore le nostre sorti...”
venerdì 24 febbraio 2017
A che serve il muro?*- Adriano Voltolin**
**Società di
Psicoanalisi Critica http://www.societadipsicoanalisicritica.it/
Come
ha messo bene in rilievo Aldo Giannuli
(http://www.aldogiannuli.it/psicoanalisi-del-muro/) le strategie
politiche, militari e ideologiche dei muri costruiti a difesa di ciò
che sta all’interno sono sempre fallite: il loro fondamento
psicologico ed ideologico è da ricercare in una rassicurazione di
chi lo erige e non alla sua difesa reale.
Le
dighe costruite per creare dei bacini idrici servono per evitare che
piene ed alluvioni travolgano i frutti del lavoro di ciò che sta a
valle e, se non vengono costruite in modo criminale, si pensi al
Vajont, nome sintomatico del monte che stava sopra la diga e che
significa in dialetto friulano “viene giù”, proteggono le case,
le coltivazioni e la vita stessa delle persone ed addirittura
servono, regolando l’afflusso delle acque, a far fiorire
ulteriormente il lavoro dell’uomo. Si pensi, più modestamente,
alle risaie ed ai prati marcitori lombardi: l’acqua, non più
trattenuta, allagando i campi produce il risultato straordinario di
fornire un cibo come il riso che costituisce buona parte
dell’alimentazione mondiale e in Lombardia forniva foraggio fresco
quando la neve ed il gelo coprivano la pianura padana. L’isolamento
dall’acqua è una strategia che non ha affatto per mira quello di
chi la ferma, ma il suo utilizzo più proficuo per rendere la
comunità più ricca e benestante.
Il
muro inteso come fortezza che protegge dall’invasione dei barbari è
invece concettualmente l’opposto: il benessere maggiore non è dato
dallo sfruttamento intelligente di ciò che viene dall’esterno in
modo da creare nuove opportunità, ma è fantasticato come
l’isolamento da esso. I colonizzatori inglesi e belgi non avevano
bisogno di costruire muri di cemento, ma il loro isolamento dai neri
del Kenya e del Congo era garantito dalla ricchezza, dalle armi e da
una ideologia grossolanamente illuministica che ricreava il modo di
vita europeo (delle classi agiate) in Africa.
Sul
piano individuale, l’isolamento attraverso un muro difensivo, è
più facilmente avvertito come patologico mentre, per il fenomeno
della deresponsabilizzazione gruppale, non appare tale quando diviene
ideologia di massa. Nella richiusura paranoide il pericolo
dell’irruzione di un agente esterno viene avvertito come
catastrofico e, tanto meno tale agente è oggettivamente pericoloso,
tanto più esso appare infido e subdolo. Si pensi, è un esempio
magnifico, alla fortezza Bastiani ne Il deserto dei tartari di Dino
Buzzati: l’assoluta mancanza di pericolo del deserto viene
avvertita come tanto più minacciosa quanto più assente è ogni
individuo che provenga da esso: il giovane tenente Drogo invecchierà,
insieme a tutta la guarnigione, nella perenne attesa di un nemico che
non c’è e la sua vita sarà consumata per intero in una difesa
spasmodica da ciò che, all’esterno, non esiste.
giovedì 23 febbraio 2017
Su “UBER”, “SHARING” E “GIG ECONOMY”*- Carlo Formenti
*Da:
http://contropiano.org/ intervento di Carlo Formenti all’iniziativa organizzata da Noi Restiamo al
Politecnico di Torino il 10 maggio 2016. L’intervento non è stato
rivisto dal relatore ed eventuali errori
sono quindi da considerarsi a carico nostro. Il titolo è
redazionale.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nozione-di-progresso-renato-curcio.htmlSHARING E GIG ECONOMY: DINAMICHE TAYLORISTICHE E SFRUTTAMENTO
Prima parte dell’intervento:
Il lavoro che ho fatto negli ultimi 10-15 anni all'Università del Salento è stato in larga misura dedicato alla sociologia della rete che oggi, da quando sono felicemente approdato alla pensione, continuo a proseguitare; il giorno dopo che ho smesso di insegnare Teoria e tecnica dei nuovi media sono felicemente tornato a quelli che sono sempre stati i miei interessi fondamentali, che riguardano il socialismo economico e la sociologia politica. E ogni volta che mi tocca sentire qualcuno che mi telefona e mi dice "Professore, perché non viene a questo incontro su Internet e la società", subito mi si rizzano i capelli sulla testa; nel senso che in qualche modo dà per scontato che esista una sfera autonoma della dimensione della tecnologia e della rete come articolazione attuale della dimensione della tecnologia non sovradeterminata dai processi economici, politici, sociali, culturali e quant'altro. E che, viceversa, oggi sia possibile ragionare dei processi economici, politici, sociali e culturali prescindendo dal fatto che ormai le tecnologie di rete sono parte della nostra vita quotidiana, del nostro lavoro e delle relazioni sociali, del nostro viaggiare, sentire, stringere amicizie, ecc. Quindi, tendo sempre a riportare il tema a degli aspetti molto più determinati e specifici; in particolare, per quanto riguarda la questione del rapporto tra nuove tecnologie e lavoro, metterò a fuoco un aspetto molto particolare, che è quello di Uber, più altre esperienze che vengono variamente denominate di "sharing economy" o, negli Stati Uniti, di "gig economy", con una apertura più ampia rispetto al discorso e secondo me più interessante per il ventaglio di fenomeni che viene preso in considerazione.
Per affrontare questo problema, partirò da una piccola apologia del luddismo e dei movimenti luddisti nella prima metà dell'Ottocento in Inghilterra; perché, come sapete, negli ultimi giorni qui in Italia in particolare a Milano c'è stata una nuova ondata di agitazioni dei tassisti contro Uber, che erano stati preceduti da movimenti e fenomeni analoghi in tutto il mondo, ma particolarmente duri sono stati quelli avvenuti a Parigi l'anno scorso. In quell'occasione il mio "amico" Dario Di Vico (Corriere della Sera) si è come al solito precipitato a scrivere una serie di articoli in cui ha fatto una critica radicale di questa arretratezza e di questa assoluta stupidità nell'opporsi a un processo tecnologico che risulta irreversibile e non può essere contrastato in nessun modo, ma che è di per sé assolutamente benefico e porta una serie di vantaggi incredibili per i consumatori, per Uber ovviamente, che fa un sacco di quattrini, ma in prospettiva anche per gli stessi tassisti. Allora questo discorso richiama esattamente il tipo di argomenti che venivano usati contro il movimento luddista nel primo Ottocento inglese; tenete conto che il movimento dei luddisti, di cui si sa molto poco in realtà perché è stato studiato relativamente poco (non da storici specialisti), è stato un movimento di dimensioni enormi; per diversi anni l'Inghilterra ha visto mobilitazioni di massa, di distruzione e di incendi di fabbriche, di telai di nuova generazione, di scontri armati, cioè i luddisti andavano in bande di 200-300 a distruggere queste fabbriche e si scontravano con l'esercito inglese, con le milizie dei padroni dell'industria tessile, ci sono state centinaia di morti, molti dei quali impiccati, perché quando li prendevano li impiccavano anche perché era ancora illegale lo sciopero, figurarsi queste forme di mobilitazione violenta.
mercoledì 22 febbraio 2017
Sulla “Nuova lettura di Marx”*- Riccardo Bellofiore
*conferenza tenuta da Riccardo Bellofiore: 'Socializzazione e lavoro astratto in Marx'. L'intervento si è svolto nell'ambito del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società dell'Università degli studi di Milano-Bicocca. https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/teoria-critica-della-societa-critica.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/saggi-sulla-teoria-del-valore-di-marx.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/01/riabilitiamo-la-teoria-del-valore.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/saggi-sulla-teoria-del-valore-di-marx.html
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"La nuova letteratura su Hegel, negli ultimi decenni - e io nutro sempre più il sospetto che non abbiano torto - ritiene che questa rappresentazione di Hegel, che si ritrova in Marx e che in qualche modo ritroviamo in Adorno, Horckeimer, Schmidt e sarà uguale in Reichelt e Backhaus, questa lettura di Hegel come idealista un po' pazzo, che pensa che il concetto sia in qualche modo la realtà stessa, questa cosa non abbia a che vedere con lo Hegel vero e proprio.
Io non lo so, perché non sono un esperto, ma le cose che ho letto mi convincono che questa posizione abbia molte frecce al suo arco.
Al tempo stesso, voglio chiarire subito, che io sto dal lato di Marx e di questi autori per una ragione molto semplice: perché la mia tesi è che questo Hegel, fosse anche un Hegel pazzo, è quello che per Marx è il mezzo per comprendere qual è la logica del capitale come modo di produzione.
Quindi non conta tanto se veramente Hegel fosse un idealista, la tesi è che la realtà sociale capitalistica è una realtà idealistica. In questo senso una totalità negativa..."
Socializzazione
e lavoro astratto in Marx (Parte II): https://www.youtube.com/watch?v=Gmup_ASBeLw
Socializzazione
e lavoro astratto in Marx (Parte III): https://www.youtube.com/watch?v=PCFAUDcJjMw
martedì 21 febbraio 2017
Crisi si, ma quale teoria della crisi?- Marco Veronese Passarella*
*Università di Leeds
Slide dell'incontro: http://www.marcopassarella.it/wp-content/uploads/Perugia-2016.pdf
Slide dell'incontro: http://www.marcopassarella.it/wp-content/uploads/Perugia-2016.pdf
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