venerdì 31 ottobre 2025

Il concetto di “distruzione creatrice” in Schumpeter: una riformulazione critica - Vadim Bottoni

Da: https://forzalavoro.work - Vadim Bottoni, economista, funzionario amministrativo presso la direzione centrale studi e ricerche dell'Inps e saggista. - Joseph Schumpeter (Třešť, 8 febbraio 1883 – Taconic, 8 gennaio 1950) è stato un economista austriaco, tra i maggiori del XX secolo. 


In una fase di cambiamenti strutturali come quella odierna riteniamo importante proporre degli spunti teorici relativi al pensiero economico che si è concentrato su questo tema. Iniziamo in questo numero con l’idea di “distruzione creatrice” che è una delle nozioni più celebri e controverse sviluppate da Joseph Schumpeter, economista austriaco del XX secolo. Con essa, Schumpeter descrive la dinamica profonda dello sviluppo capitalistico, concependo l’innovazione non come un’evoluzione graduale e pacifica, bensì come un processo per sua natura dirompente, in cui la creazione del nuovo implica la scomparsa del vecchio. Si tratta, in altri termini, di un meccanismo di rottura, in cui ogni innovazione distrugge assetti consolidati, modelli produttivi precedenti, strutture organizzative ormai obsolete. La forza propulsiva di tale trasformazione è l’imprenditore innovatore, figura centrale nel pensiero schumpeteriano, capace di immaginare e realizzare combinazioni economiche inedite.

L’economia, secondo Schumpeter, non cresce per accumulo lineare o per semplice espansione delle attività esistenti. Al contrario, lo sviluppo autentico nasce da discontinuità radicali. Questo tipo di sviluppo, distinto dalla crescita quantitativa, si manifesta attraverso l’introduzione di novità tecnologiche, organizzative o di mercato che alterano profondamente il funzionamento dell’intero sistema economico. L’intuizione fondamentale è che ogni nuova configurazione economica comporta inevitabilmente la soppressione di quella precedente: ciò che emerge prende il posto di ciò che viene superato. È questo il senso profondo della “distruzione creatrice”.

L’impresa dell’innovatore: una figura attiva del cambiamento

Per Schumpeter alla base di questo processo sta la figura dell’imprenditore. Egli non è un semplice gestore di risorse esistenti, ma un agente dotato di capacità visionaria, in grado di rompere la routine e di introdurre elementi di novità. Una certa mitologia dei visionari condottieri delle big tech dovrebbe suonarci come famigliare colonna sonora delle mirabolanti conquiste sfornate nella Silicon Valley in questi ultimi decenni.  Per Schumpeter la sua azione è rischiosa, incerta, ma essenziale. L’innovatore infatti agisce spinto non solo dal calcolo del profitto, ma anche da un impulso creativo, dal desiderio di costruire, di emergere, di plasmare la realtà secondo la propria intuizione. In questo senso, la funzione dell’imprenditore è eminentemente trasformativa: egli è il motore del cambiamento, il catalizzatore dell’evoluzione economica.

Il cuore della teoria schumpeteriana non è tanto l’innovazione in sé, quanto il ciclo dinamico che essa innesca. Quando un’innovazione entra nel mercato, essa genera vantaggi competitivi temporanei per chi l’ha introdotta, provocando un rimescolamento delle posizioni acquisite. In un secondo momento, però, il successo iniziale stimola l’imitazione: nuove imprese copiano l’innovazione, si appropriano delle tecniche e delle idee, e così il vantaggio originario si erode. Quando l’innovazione diventa diffusa, si stabilizza in una nuova forma di routine, fino a quando un ulteriore salto innovativo non rompe di nuovo l’equilibrio.

La distruzione come motore dell’equilibrio dinamico

Per Schumpeter, il capitalismo è definito da questa incessante alternanza di squilibri e nuovi equilibri. L’economia, in questo modello, non si autoregola verso uno stato di armonia statica, come nella visione neoclassica. Al contrario, si rinnova periodicamente attraverso l’azione creatrice dell’imprenditore, che genera discontinuità strutturali. L’innovazione non si limita a migliorare ciò che esiste: essa soppianta, smantella, sostituisce. Si pensi, ad esempio, all’introduzione dell’automobile che ha progressivamente reso obsolete le carrozze trainate da cavalli, oppure alla diffusione dell’informatica che ha radicalmente mutato i paradigmi industriali del Novecento.

È importante sottolineare che Schumpeter non idealizza questo processo: egli ne riconosce tanto la forza produttiva quanto la carica distruttiva. L’innovazione comporta inevitabilmente perdite: posti di lavoro, settori industriali, competenze professionali possono essere spazzati via. Ma proprio questa capacità di rinnovarsi continuamente è, per Schumpeter, ciò che rende il capitalismo vitale. L’instabilità non è un effetto collaterale da correggere, bensì una condizione intrinseca alla dinamica economica moderna.

Una teoria economica della discontinuità

Un elemento distintivo della visione schumpeteriana è il rifiuto della concezione statica dell’economia. Mentre buona parte dell’economia classica e neoclassica si concentra sull’equilibrio, sulla massimizzazione dell’efficienza e sulla ripetitività dei comportamenti, Schumpeter costruisce una teoria fondata sul cambiamento. Egli distingue tra un’economia di “flusso circolare”, che riproduce sempre gli stessi schemi, e un’economia “evolutiva”, in cui lo sviluppo si produce proprio attraverso rotture, deviazioni, salti qualitativi.

In questo contesto, l’innovazione assume un significato profondo: essa non è semplicemente una nuova tecnologia o un nuovo prodotto, ma un mutamento sistemico, capace di ridefinire le regole del gioco. Ogni innovazione è una nuova combinazione di fattori, una riconfigurazione delle relazioni tra input, processi e output. Questo può riguardare l’introduzione di un prodotto inedito, l’apertura di un nuovo mercato, la scoperta di una risorsa sconosciuta o la trasformazione radicale di un modello organizzativo.

Innovazione e cicli economici

Secondo Schumpeter, le innovazioni non si distribuiscono nel tempo in modo regolare, ma tendono a concentrarsi in cluster, in “grappoli” che generano fasi espansive dell’economia. Quando un grappolo di innovazioni si afferma, si innesca un ciclo espansivo, in cui nuove imprese entrano sul mercato, i consumi aumentano, gli investimenti crescono. Tuttavia, questo slancio è temporaneo. A mano a mano che le innovazioni si diffondono e diventano routine, il tasso di profitto si riduce, la concorrenza si intensifica e si giunge a una fase di saturazione, che può sfociare in una crisi. Ma sarà proprio questa crisi a porre le condizioni per un nuovo ciclo di innovazioni.

In questa prospettiva, la crisi economica non è un evento da evitare a ogni costo, ma una tappa necessaria del ciclo capitalistico. Essa segnala la fine di un paradigma e prepara il terreno per l’affermazione di un altro. Il capitalismo, dunque, è un sistema che vive di discontinuità, e che si rigenera attraverso la distruzione delle sue stesse forme passate.

Le ambivalenze del concetto: creatività, potere, ideologia

Il concetto di “distruzione creatrice” è stato largamente utilizzato nel dibattito contemporaneo, spesso in modo acritico o retorico. Nelle narrazioni promosse da molte grandi aziende tecnologiche, in particolare nella Silicon Valley, l’innovazione è presentata come un processo liberatorio, in grado di emancipare l’individuo dalle pastoie del passato. Tuttavia, questa retorica tende a nascondere le disuguaglianze di potere che attraversano i processi innovativi. L’imprenditore digitale è spesso descritto come un eroe solitario, mentre vengono occultate le condizioni sociali, istituzionali e materiali che rendono possibile l’innovazione.

L’uso neoliberista della “distruzione creatrice” ha spesso svuotato la teoria schumpeteriana del suo carattere critico. Schumpeter non celebrava ingenuamente l’innovazione: egli ne riconosceva tanto la potenza quanto la violenza. La distruzione di strutture obsolete non è priva di costi, e questi costi ricadono frequentemente sui lavoratori, sulle comunità, su chi non ha voce nei processi decisionali. Quando le piattaforme digitali definiscono i loro collaboratori come “micro-imprenditori”, si appropriano della terminologia schumpeteriana per legittimare forme di precarietà, di sfruttamento, di controllo algoritmico.

Innovazione collettiva e impresa sociale: una rilettura possibile

Un uso più coerente e promettente delle intuizioni schumpeteriane può essere fatto nell’ambito dell’impresa sociale e del Terzo settore. Qui, il concetto di innovazione assume una valenza collettiva e relazionale. L’innovazione non è il frutto di un genio isolato, ma il prodotto di interazioni, di reti, di processi partecipativi. L’impresa sociale, in particolare, ha saputo dare risposte a bisogni emergenti, elaborando nuovi modelli di servizio, nuove forme di governance, nuove relazioni con il territorio.

La “distruzione creatrice”, in questo contesto, può essere intesa come la capacità di superare forme inefficienti o escludenti di organizzazione sociale, dando vita a pratiche più inclusive, eque e sostenibili. Il mutamento non avviene solo sul piano economico, ma anche su quello culturale, istituzionale e politico. L’impresa sociale non si limita a erogare servizi: essa riformula le domande, ridefinisce le priorità, promuove una cittadinanza attiva.

Conclusione: un’idea da ripensare criticamente

Il concetto di “distruzione creatrice”, se ben compreso, può essere una chiave preziosa per leggere i processi di trasformazione delle società contemporanee. Tuttavia, esso va maneggiato con attenzione, evitando derive ideologiche e semplificazioni. Esso invita a riconoscere che ogni innovazione autentica comporta rottura, rischio e conflitto; che il progresso non è lineare, ma segnato da tensioni e ambivalenze; che l’economia è, in ultima analisi, una pratica sociale e non un automatismo tecnico.

Recuperare la lezione di Schumpeter, allora, significa restituire all’innovazione la sua carica trasformativa, ma anche la sua complessità. Significa, soprattutto, riportare l’attenzione su chi crea, su chi perde, su chi viene coinvolto nei processi di cambiamento. Solo così sarà possibile ripensare l’innovazione non come privilegio di pochi, ma come bene comune, frutto di un impegno collettivo volto a migliorare la vita delle persone e la qualità delle relazioni sociali.

Nessun commento:

Posta un commento