Da: https://www.strisciarossa.it - Marcello Mustè, Università di Roma Sapienza (Filosofia teoretica), è uno storico della filosofia e filosofo italiano. Marcello Mustè
Leggi anche: Da Labriola a Gramsci, quel marxismo che ha saputo essere originale. - Marcello MustèFoto Marco Di Gianvito/ZUMA Press Wire/Shutterstock
“Blocchiamo tutto”. È uno slogan ragionevole e pieno di significato. Solo pochi anni fa il mondo si è fermato per il diffondersi di una malattia globale, il Covid-19, che ha costretto la gran parte degli Stati ad assumere misure restrittive e la comunità scientifica a cercare e trovare, in tempi rapidissimi, rimedi efficaci per salvaguardare la vita e la salute degli uomini. Oggi è esploso un altro virus, di origine e natura diversa, ma più pericoloso e distruttivo dell’altro. Questo virus consiste nel ritorno generalizzato della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, con i programmi di riarmo e di creazione di nuovi e più micidiali ordigni nucleari che inevitabilmente ne seguono. Questa è la malattia che si sta propagando nel nostro tempo.
Il sintomo principale di questa patologia è lo svuotamento sistematico e programmatico degli organismi internazionali, a cominciare dall’Onu, come si è visto in maniera esemplare lo scorso 18 settembre, con l’abuso del potere di veto da parte degli Stati Uniti (l’ennesimo, cioè il sesto in meno di due anni) nel Consiglio di sicurezza sulla possibilità di un cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Al disegno di eliminare l’efficacia degli istituti di regolazione internazionale (quelli vòlti alla pace e alla sicurezza, come le Nazioni Unite, e quelli economici), corrisponde il vuoto di egemonia delle “grandi potenze” e, in modo particolare, il declino dell’America, ormai incapace di governare i conflitti globali e regionali nel senso di una pur minima stabilità.
Non è possibile non vedere, infatti, come la politica americana (quella presente e quella passata) sia stata incapace di dare uno sviluppo agli accordi di Oslo del 1993, contenendo lo spirito vendicativo e di potenza della destra israeliana e favorendo la crescita delle forze più responsabili del mondo palestinese. La conseguenza è quella che vediamo, cioè una guerra criminale e lo sterminio di un popolo. In altre parole, assistiamo alla fine dell’America come “grande potenza” e alla disgregazione di quella compagine di interessi difformi che viene ancora definita “Occidente”.
La Flotilla segna una frattura storica
Se ne è accorto il mondo, se ne sono accorti soprattutto i giovani. Un movimento umanitario internazionale, come la Global Sumud Flotilla, cresciuto spontaneamente in diverse parti del pianeta, che con un atto di coraggio ha saputo mobilitare le piazze e le opinioni pubbliche di diversi paesi, rappresenta un atto di consapevolezza inedito e un momento di frattura storica. La politica democratica deve ripartire di qui e assumere questo fatto come il principio di una svolta e di una nuova fase del proprio cammino.
C’è un punto, tuttavia, che deve essere chiarito, per quanto possa risultare divisivo anche tra le nostre file. Ed è un punto dirimente. La tragedia palestinese non costituisce un episodio isolato nel contesto internazionale, ma appartiene a un quadro più ampio, che non riguarda soltanto gli assetti futuri del Medio Oriente. C’è un nesso tra quanto accade a Gaza (con la distruzione sistematica di un intero popolo) e quello che succede in altri scenari, a cominciare dall’Ucraina.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha prodotto un quadro di instabilità generale, che ha inizialmente toccato i quindici paesi della ex-federazione e gli altri, come la Polonia o l’Ungheria, che appartenevano alla sua sfera di influenza, dentro cui si è inserito il progetto unipolare di allargamento del campo “occidentale” e il sogno sempre sognato di una disintegrazione della federazione russa. Uscire dalla logica del “confine orientale” e ristabilire princìpi di cooperazione e di collaborazione tra Est e Ovest rappresenta il primo passo per una vera politica di pace. Ma questo richiede, per la politica democratica, un mutamento profondo di paradigma e, anche qui, una svolta significativa di orientamento ideale.
Oltre la logica dei dazi e della protezione dei confini, che l’America adotta (inutilmente) per tentare di risolvere problemi strutturali della propria economia (un paese che consuma oltre le proprie capacità produttive, una nazione “signorile” che ha cercato di delegare al Sud del mondo le attività “servili”), il mondo è da tempo entrato, per nostra comune fortuna, in una condizione di crescente interdipendenza economica, alla quale si accompagna una società civile sempre più consapevole e interconnessa.
Difendere questo regime globale della produzione e degli scambi, contro i ricorrenti tentativi di “chiusura” dei mercati nazionali e dei confini territoriali, è oggi uno dei compiti principali delle forze di progresso. Ma l’interdipendenza non è un bene assoluto e si fonda su due condizioni abbastanza precise. In primo luogo esige una capacità politica di regolazione delle singole economie, che devono mostrarsi in grado di orientare (nel senso, per esempio, della sostenibilità ecologica e della giustizia sociale) le scelte di produzione e di consumo; in secondo luogo, l’interdipendenza economica deve accompagnarsi a un effettivo multilateralismo, allo sviluppo autonomo e spontaneo, sul piano politico e culturale, e al rispetto reciproco di differenti modelli di civilizzazione.
Costruire un’Europa di pace
Questo paradigma delle relazioni internazionali – fondato sulla relazione tra interdipendenza e multilateralismo – dovrebbe portare l’Europa a cambiare la propria direzione, a uscire dalla sindrome del “confine orientale” e ad abbandonare i devastanti progetti di riarmo. Costruire un’Europa di pace, in grado di mediare (e non di accrescere) i conflitti e di guardare all’Est e al Sud del mondo, oltre la griglia ideologica del conflitto tra “autoritarismo” e “liberalismo”, dovrebbe essere il primo articolo di un programma democratico e progressista.
In vista delle elezioni politiche del 2027 dobbiamo ripartire da qui. Il dramma palestinese e le minacce di guerra saranno il principale banco di prova per la costruzione del consenso e per l’idea di un nuovo governo nazionale. Creare il “campo largo”, cioè una vasta alleanza di forze sociali e politiche, centrata sul ruolo del mondo del lavoro, rimane il compito essenziale. Ma, come ho detto, i fatti di queste settimane hanno determinato una novità storica importante e richiedono uno sforzo strategico originale e coraggioso. Lo si vede, in primo luogo, da quello che accade nel campo sindacale, dove il programma classico di una riunificazione delle tre confederazioni sembra tramontare, mentre abbiamo visto (alla conferenza stampa per lo sciopero generale) sedere fianco a fianco i massimi dirigenti di Cgil, Usb e Cobas.
È evidente che il problema principale, per la costruzione di quel “campo largo”, è di riattivare le energie “dormienti” della società civile, di guadagnare il consenso di un astensionismo elettorale che sta diventando sempre più patologico per la democrazia. Questo non significa “radicalizzarsi”, ma rispondere alle domande (queste sì, “radicali”) che attraversano la vita civile, a cominciare dalle nuove generazioni. Lo schema di un’alleanza tra sinistra e centro moderato appare insufficiente rispetto a questo compito. Utile, forse, ma non risolutivo.
Per compiere questo passaggio, dobbiamo rimettere in discussione vecchi schemi. Dopo la fine dei partiti che avevano animato la “prima repubblica” e delle ideologie che li sostenevano, la dialettica politica ha cercato, comprensibilmente, di disporsi e riposizionarsi lungo l’asse destra-(centro)-sinistra, come se queste espressioni di geografia parlamentare indicassero princìpi e valori auto-evidenti. Oggi assistiamo a una scomposizione sempre più accentuata di queste larghe aree politiche e, anche attraverso di essa, dobbiamo ricostruire le ragioni di un soggetto che guardi alla trasformazione. Per fare alcuni esempi, il magistero della Chiesa non lascerà indifferenti strati di opinione che definiamo di “centro”, i leghisti della prima ora sentiranno come un tradimento il nazionalismo della Lega di oggi e molti elettori che consideriamo di “destra” assisteranno al degradare della loro cultura in un “occidentalismo” ormai lontano dai vecchi ideali. Ci sono, poi, i nostri “delusi”, quelli che hanno visto inaridirsi il progetto originario di un partito democratico che raccogliesse e unificasse le migliori tradizioni del riformismo italiano. Siamo in una epoca in cui le ideologie, lungi dall’essere scomparse, tendono a scomporsi e a chiedere nuove figure di rappresentanza politica.
Uscire dalle secche
Parlare della pace e di un nuovo ordine del mondo può essere la chiave per mobilitare queste energie “dormienti”, che, non senza ragioni, hanno a lungo disertato la lotta politica. Con la Global Sumud Flotilla e con lo sciopero generale del 3 ottobre il “vaso di pandora” è stato aperto. Ora spetta alle forze politiche esprimerne il significato e rappresentarne, con una adeguata elaborazione, le ragioni. Quella passione e quel sentimento possono diventare nuova politica e nuovo governo. Per questo occorre, naturalmente, che i principali soggetti – il Pd e il M5S – costruiscano un’alleanza e prefigurino le linee programmatiche di un esecutivo.
Ma, anche qui, occorre uscire dalle vecchie secche e liberare la mente a prospettive inedite. Al di là delle inevitabili scaramucce su questioni di minore conto, è necessario che queste forze politiche sperimentino originali forme di alleanza, capaci di dare al futuro governo una struttura solida. Non basta un patto verticistico, né è sufficiente quell’accordo di programma (“alla tedesca”, per intenderci) prospettato da Giuseppe Conte. Queste due forze devono convincersi che l’una può compensare i limiti dell’altra, che dalla loro unione può sorgere, nelle differenze reciproche, qualcosa di meglio di quanto abbiamo visto finora. Da un lato, il M5S ha realizzato, con la guida di Conte, il percorso politico più interessante degli ultimi anni, avviando una trasformazione del proprio progetto politico e assumendo posizioni più coerenti e avanzate sul piano della politica estera. D’altro lato, il Partito democratico può aiutare i pentastellati a congedare quella diffidenza nella democrazia rappresentativa, nel ruolo dei partiti, che rimane un limite tuttora insuperato della loro impostazione culturale. Unire forze diverse, ma in maniera “organica”, così che l’una possa apprendere qualcosa dall’altra, e ciascuna possa mitigare i limiti dell’altra, sembra l’unica strada produttiva per restituire alle forze di progresso una strategia all’altezza della nuova fase che si è aperta.
Nessun commento:
Posta un commento