mercoledì 15 ottobre 2025

Lotta di classe identitaria e non identitaria - John Holloway

Da: https://comune-info.net - Pubblicato sul numero 4/2025 della Revista Critica anticapitalista di Comunizar, sorella di Comune. - John Holloway è un sociologo, filosofo, giurista, saggista ed accademico irlandese, di orientamento marxista operaista, i cui lavori sono strettamente associati al movimento neo-zapatista in Messico, dove risiede stabilmente dal 1991 (john holloway). 


Negli ultimi trent’anni stanno emergendo nuove lotte contro il capitale. Si focalizzano spesso sul come e non tanto “contro chi” e lasciano da parte il concetto di lotta di classe. Il rifiuto del dominio del lavoro sulla vita è parte importante in questo ripensamento. “Da un lato c’è una lotta reale e costante per intensificare o diminuire lo sfruttamento. È la lotta sindacalista… – scrive John Holloway – È una lotta di classe, ma identitaria, rinchiusa nella logica del sistema, è la lotta di una classe contro un’altra. Implica un processo di identificazione… Questa lotta trabocca continuamente in espressioni di lotta che mettono in discussione o rifiutano il lavoro astratto stesso… Sono lotte per un’altra determinazione dell’attività umana, per un altro tempo, per la vita contro la catastrofe capitalista…” (comune-info

Perché insistiamo sull’importanza della lotta di classe? La risposta non è ovvia. Sarebbe stata ovvia cinquant’anni fa. Qualsiasi movimento anticapitalista parlava in termini di lotta di classe. Ma non è il caso ora. Molti movimenti di resistenza e ribellione preferiscono non parlare di lotta di classe, o perché sentono che li collega con una tradizione che rifiutano o perché non sembra rilevante per le lotte attuali. La classe operaia (intesa per il momento come gruppo di persone) non è più organizzata come prima e non svolge lo stesso ruolo nei conflitti visibili della società.

Allora, perché parliamo di lotta di classe e cosa intendiamo con questo? In primo luogo, il concetto di lotta di classe pone l’antagonismo sociale al centro della comprensione della società. Questa società è, prima di tutto, una società antagonista. Non è semplicemente una società di dominio, perché il dominio significa resistenza, antagonismo, lotta.

Secondo, questo antagonismo ha un asse centrale. Questa società, come tutte le precedenti società storiche, è basata sullo sfruttamento. Una parte della società produce la ricchezza necessaria per la riproduzione sociale e questa ricchezza è appropriata dall’altra parte. Il fatto che molti non siano direttamente produttori di ricchezza, ma contribuiscano alle condizioni necessarie per la sua produzione (attraverso l’educazione, ad esempio) non cambia affatto la centralità del rapporto di sfruttamento. Lo sfruttamento non è un processo automatico ma una lotta costante per modellare l’attività degli sfruttati e delle sfruttate. Il processo di sfruttamento (nel capitalismo la produzione di plusvalore) svolge un ruolo centrale nella determinazione di tutta l’attività sociale (la forma e il contenuto dell’istruzione o del servizio sanitario, per esempio).

Nel capitalismo, lo sfruttamento ha come condizione preliminare la conversione dell’attività umana in lavoro astratto, cioè in un’attività astratta dal suo contenuto particolare e misurabile in termini quantitativi. Questa conversione è anche lotta costante, implica la disciplina sociale e la resistenza contro questa disciplina. Senza l’imposizione del lavoro astratto non può esistere il capitale. Penso a questa lotta come la lotta della sveglia al mattino: suona la sveglia e devi subordinare il tuo giorno al tempo ed al comando del capitale.

Abbiamo due livelli di lotta, allora. La lotta dello sfruttamento e la lotta, logica e storicamente precedente, per trasformare l’attività umana in lavoro astratto che produce valore. Marx discute questa lotta di base per imporre il lavoro astratto nel primo capitolo de Il Capitale, ma la presenta non come lotta bensì come contraddizione tra lavoro utile o concreto e lavoro astratto. Lo sfruttamento, al contrario, è presentato in dettaglio come lotta, lotta focalizzata sulla durata e sulle condizioni del lavoro. Quando Marx ritorna sulla questione dell’imposizione del lavoro astratto nei capitoli sull’accumulazione originaria, sembra supporre che la conversione dell’attività in lavoro sia qualcosa di passato, qualcosa che il capitale è riuscito ad imporre nella transizione dal feudalismo al capitalismo (ma Marx è sempre contraddittorio). Lo storico E.P. Thompson adotta la stessa argomentazione in un articolo brillante sulla trasformazione del tempo nella transizione al capitalismo: l’instaurazione del capitalismo fu la conversione del tempo in tempo-orologio, e la conversione dell’attività in lavoro disciplinato.

Nella visione dominante la lotta di classe è la lotta del lavoro contro il capitale, e dei lavoratori contro i capitalisti. I lavoratori sono intesi come lavoratori salariati e l’organizzazione socialista è costruita su questo presupposto: i sindacati rappresentano i lavoratori salariati e i partiti riformisti e rivoluzionari partono dalla stessa idea. L’abolizione del lavoro salariato è proposta, ma solo come obiettivo post-rivoluzionario (un’ambizione che non ha avuto alcun ruolo effettivo nelle rivoluzioni russa e cinese). Le lotte dei lavoratori contro il lavoro stesso (assenteismo, sabotaggio ecc.) sono in genere forme di lotta condannate come irresponsabili dai sindacati. Inoltre, queste forme di lotta semplicemente non si vedevano attraverso le lenti della lotta di classe tradizionale e non apparivano nelle teorie marxiste della lotta di classe fino a quando la militanza nelle fabbriche automobilistiche del nord Italia negli anni Sessanta (dove molti dei lavoratori erano contadini arrivati in città, senza tradizione di disciplina fabbriche?) ha forzato il riconoscimento di queste lotte anti-lavoro, prima da parte delle teorie operaiste italiane.

Nella visione tradizionale, la lotta di classe è un conflitto tra due gruppi: da una parte i lavoratori e dall’altra i capitalisti. Ogni lato aveva la propria identità, la propria cultura. Da qui la preoccupazione classica degli studenti quando entravano in contatto con Marx per la prima volta: e io cosa? In quale gruppo sono? La questione della classe si trasformava in un’analisi sociologica che era costretta ad aggiungere sfumature alla classificazione troppo semplicistica dei lavoratori e dei capitalisti. La lotta di classe si riduceva a una questione identitaria.

Esiste una brillante formulazione di Lenin di questa visione della lotta: Who-whom? (in inglese, scusate, non so né dove l’ha detto né come l’ha detto in russo). Chi a chi? Chi domina chi? Chi è il soggetto, chi è l’oggetto? La lotta è una questione di potere, del potere di un gruppo sull’altro, di una classe sull’altra. Questa visione non può essere separata da ciò che è accaduto nell’erroneamente chiamata Unione Sovietica e negli altri paesi che si chiamavano comunisti. Il chi-chi, chi a chi, esclude il come.

Soprattutto negli ultimi trent’anni stanno emergendo altre visioni dell’asse della lotta contro il capitale. Si focalizzano spesso sul come (orizzontalità contro verticalità, per esempio) e non tanto su chi contro chi, ed è comune che lascino da parte il concetto di lotta di classe.

Il rifiuto del lavoro è anche un tema importante in questo ripensamento. In questo contesto è importante ritornare al livello più profondo della lotta che è presente nell’analisi di Marx (sia pure come contraddizione e non come lotta), cioè la trasformazione dell’attività umana in lavoro astratto. Nel primo capitolo de Il capitale, Marx ci sta introducendo al capitalismo, la porta è ancora aperta. La ricchezza diventa merce, il valore d’uso diventa valore, il lavoro utile diventa lavoro astratto. Il mondo al di là del capitale è concettualmente presente: come punto di riferimento (la merce è una forma storica di ricchezza), come contraddizione (la ricchezza è la crisi della merce, le forze produttive distruggeranno i rapporti di produzione), come memoria (delle lotte contro la mercificazione e il lavoro astratto alle origini del capitalismo) o come lotta attuale (continuiamo a lottare contro il lavoro astratto ogni giorno per affermare la nostra propria determinazione della nostra attività)? Il fatto stesso che questo mondo al di là del capitale è concettualmente presente significa che non è totalmente incorporato nella sua forma storica attuale, che esiste un rapporto di non-identità o anti-identità, che la ricchezza trabocca la merce, il valore d’uso travolge il valore, il lavoro utile (fare umano) supera il lavoro astratto. Cioè che la merce è un processo di mercificazione, o meglio una lotta per mercificare la ricchezza, il valore una lotta per valorizzare le cose utili, il lavoro astratto una lotta per trasformare la nostra attività in lavoro quantificabile e senza senso. La merce, il valore, il lavoro astratto sono lotte per racchiudere, subsumere, identificare, classificare ciò che li trabocca, ciò che non può essere. Le nostre resistenze e ribellioni sono lotte contro la classifica.

In questo primo capitolo Marx ci sta chiudendo la porta, facendoci entrare nel capitalismo come un mondo identificato, classificato. Quando poi arriviamo allo sfruttamento, non è più una questione di un’attività umana che travolge il lavoro: il concetto di sfruttamento presuppone che stiamo già parlando di lavoro astratto e che lo sfruttamento è un rapporto quantitativo tra la quantità di tempo dedicata alla produzione del valore della forza-lavoro e la quantità dedicata alla produzione del plusvalore. (stiamo parlando delle interpretazioni classiche di Marx, Marx stesso è più contraddittorio). In altre parole, il concetto di lotta di classe che parte dallo sfruttamento è un concetto identitario che esclude la lotta contro il lavoro e la critica al lavoro come forma perversa dell’attività umana. Con le rivoluzioni russa e cinese, il lavoro è arrivato al potere.

Che cosa stiamo dicendo della lotta di classe, allora? Da un lato c’è una lotta reale e costante per intensificare o diminuire lo sfruttamento. È la lotta sindacalista, una lotta che colpisce molto le condizioni di vita dei lavoratori e dell’intera società. È una lotta che assume la permanenza del lavoro astratto e, quindi, il capitalismo. È vero che i sindacati non hanno la forza e la presenza che avevano trenta o quaranta anni fa, ma questa è una lotta inseparabile dall’esistenza del contratto di lavoro. Oltre a ciò, c’è anche una lotta costante per subordinare l’attività umana al lavoro astratto e alla logica del capitale, e una rivolta costante contro questa subordinazione. La prima è una lotta di classe, ma identitaria, rinchiusa nella logica del sistema, è la lotta di una classe contro un’altra. Implica un processo di identificazione, una limitazione costante delle lotte, una definizione sindacale del malcontento come rivendicazioni salariali. Questa lotta reale e importante ma identitaria trabocca continuamente in espressioni di lotta che mettono in discussione o rifiutano il lavoro astratto stesso. Queste rivolte contro il lavoro astratto possono anche essere viste come lotte di classe, ma non di un gruppo contro l’altro, ma come lotte dei classificati contro la classificazione. Sono lotte per un’altra determinazione dell’attività umana, per un altro tempo, per la vita contro la catastrofe capitalista. Qui non è la lotta del lavoro contro il capitale (la formulazione classica della lotta di classe), piuttosto è la lotta (dell’umanità, della vita?) contro il lavoro astratto e il capitale.

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