sabato 22 giugno 2024

La parte del deserto: Deleuze e la questione palestinese - Christian Frigerio

 Da: https://www.indiscreto.org - CHRISTIAN FRIGERIO È DOTTORANDO IN FILOSOFIA PRESSO LA STATALE DI MILANO. I SUOI INTERESSI DI RICERCA VERTONO INTORNO ALLA FILOSOFIA SPECULATIVA CONTEMPORANEA E AI RAPPORTI TRA FILOSOFIA ED ECOLOGIA 


La riflessione di Deleuze sulla questione palestinese, basata su una serie di scritti incisivi, evidenzia come il filosofo francese abbia anticipato molti dei dilemmi contemporanei, esplorando le tensioni tra stati e popoli senza terra.


“Il debito infinito che l’Europa aveva nei confronti degli ebrei non ha nemmeno iniziato a pagarlo, in compenso l’ha fatto pagare a un popolo innocente, i palestinesi”. Così Gilles Deleuze si esprimeva nel 1984 sulla questione palestinese, il tema d’attualità cui si dedicò con maggior ardore. L’impegno del filosofo francese è rappresentato principalmente da quattro brevi interventi, tutti raccolti in Due regimi di folli (Einaudi 2010; quando non specificato, le note faranno riferimento a questo volume): I seccatori (1978), l’intervista Gli indiani di Palestina (1982), Grandezza di Yasser Arafat (1983), Le pietre (1984). Deleuze morì il 4 novembre 1995 (curiosamente, lo stesso giorno dell’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di fanatici sionisti), appena dopo gli accordi di Oslo, prima della seconda Intifada, prima dello sgretolarsi dell’Olp, dell’involuzione terroristica di Hamas, dei fatti del 2007 e, ovviamente, di quella che viene presentata come la reazione israeliana al 7 ottobre ma che in realtà non è che la logica conclusione del colonialismo sionista. La sua posizione offre però tutt’oggi l’esempio di un pensiero equilibrato ma netto su quello che, da oltre settantacinque anni a questa parte, costituisce il maggior esempio della cattiva coscienza occidentale nei confronti del resto del mondo.

giovedì 20 giugno 2024

"Dalla storia alla teoria? Vivere nel latifondo tra tardoantico e alto medioevo" - Paolo Tedesco

Da: Laboratorio Criticohttps://www.laboratoriocritico.org - Paolo Tedesco, University of Tübingen, Department of Medieval History, Faculty Member Austrian Academy of Sciences, Institute for Medieval Research, Post-Doc Eberhard Karls Universität Tübingen, Seminar für Alte Geschichte, Excellent Junior Researcher ...

A proposito di: Living at the margins: African peasants in an age of extreme, 300-900 CE, Stuttgart: Hiersemann, 2025 
Living at the margins ricostruisce le vicende dei contadini africani dal quarto al nono secolo della nostra era incrociando due differenti ma complementari metodi di indagine: l’analisi microstorica e quella macroeconomica di lungo periodo. 
Lo studio dimostra come le comunità rurali dell’epoca non solo si adattarono ai grandi cambiamenti di sistema che si verificarono nel passaggio dal tardo antico all’alto medioevo, ma furono esse stesse agenti delle trasformazioni grazie allo loro straordinaria abilità di sopravvivere e superare le difficoltà quotidiane. 
Al centro del racconto è una piccola comunità rurale del pre-deserto subsahariano. Le vicissitudini di questa comunità sono tramandate tra il quinto e il sesto secolo dalle tavolette di Djebel Mrata, una raccolta di atti giuridici privati identificati a partire dalla località del loro ritrovamento, al confine tra l’Algeria e la Tunisia meridionale. 
Questa fonte mostra in concreto come i contadini vivevano sul latifondo di un proprietario assenteista: il fundus Tuletianos di Geminius Catullinus. I documenti descrivono la vita quotidiana di circa 400 contadini: la nascita e la crescita di un figlio, il matrimonio e la dote della figlia, la morte di un congiunto, ma anche i rapporti con i contadini confinanti, soprattutto quelli potenti – o meglio, prepotenti. La comunità era formata da un gruppo eterogeno di piccoli possidenti, affittuari, e lavoratori agricoli, i quali dovevano decidere di anno in anno quanta terra coltivare, se rimanere nella comunità, oppure lasciare il latifondo per trovare di che vivere altrove. 
I documenti di Djebel Mrata mostrano che nel corso di un secolo i contadini del latifondo Tuletianos affrontarono varie avversità, inclusi eventi drammatici come la scomparsa di un familiare, senza tuttavia segnalare alcuna crisi di sistema nell’economia locale. La famiglia contadina rimase per tutto il periodo documentato dalle fonti la struttura portante dell’economia del latifondo. 
Sulla scorta del modello offerto dal fundus Tuletianos, il libro mostra come l’economia contadina reagisce ai cambiamenti nel lungo periodo. Mutamenti politici considerati ‘epocali’ come la fine dell’impero romano nel quinto secolo o la conquista islamica nel settimo secolo determinarono trasformazioni negli assetti fondiari, favorendo il consolidamento di nuove élites (vandale, bizantine, arabe oppure locali), comportando anche variazioni nella natura e scala del surplus agrario sottratto ai contadini e mutamenti nelle traiettorie di scambio, come anche nelle opportunità di consumo locale. Uno stato più o meno centralizzato ed élites fondiarie più o meno ricche influirono sulle modalità di ripartizione della terra e sull’organizzazione della manodopera rurale, soprattutto in termini di mobilità e precarietà dei lavoratori senza terra o con terra insufficiente per sopravvivere.  
Pur considerata l’importanza di queste trasformazioni, esse non sembrano tuttavia avere intaccato la centralità della famiglia contadina come principale protagonista nelle campagne africane: i contadini continuarono a decidere quanti figli avere, quanta terra coltivare, quanto produrre e quanto consumare, pur prendendo queste decisioni condizionati dalle richieste dei proprietari della terra – fossero essi lo stato, le istituzioni religiosi, oppure i possidenti privati. 

                                                                            

sabato 15 giugno 2024

Toccherà agli europei fare la guerra alla Russia mentre la Nato rimarrà a guardare? - Alessandra Ciattini

Da: https://futurasocieta.com - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. E' docente presso l'Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it). 



Autorevoli esperti statunitensi scrivono che gli Usa scaricheranno il peso della guerra in Ucraina all’Europa. Allora cosa succederà? Eseguiranno gli ordini, avviandoci sempre più all’autodistruzione?


Il dottor Ezequiel Bistoletti, specialista in geopolitica e attivo analista politico, direttore dell’interessantissimo canale «Demoliendo mitos de la politica» (https://www.youtube.com/watch?v=bJFaVGQ9fhM&ab_channel=Demoliendomitosdelapolitica), ha reso noto e documentato un’importante notizia che intendiamo contribuire a diffondere. 

Il 22 aprile la prestigiosa rivista statunitense «Foreigner Affairs»fondata nel 1922che rivela e allo stesso tempo condiziona la politica estera della grande potenza, ha pubblicato un rilevantissimo articolo firmato da ben tre autori, i quali sono tutti statunitensi, accademici, esperti in questioni militari, legati a corporazioni e istituzioni potentissime (A. Crouther, J. Matisek e P. P. O’ Brian). Insomma, non sono gli ultimi arrivati. Il titolo dell’articolo è assai preoccupante per tutti noi, che ci ritroviamo a vivere della vecchia ed esausta Europa: “L’Europa, non la Nato, dovrebbe mandare le sue truppe in Ucraina”. Analizziamo brevemente le argomentazioni su cui poggia questa autorevole opinione.

giovedì 13 giugno 2024

Astensione di massa e vincolo esterno - Geminello Preterossi

Da: https://www.lafionda.org - Geminello Preterossi è un filosofo italiano del diritto e della politica. Studioso di Hobbes, Hegel, Carl Schmitt e altri classici della filosofia politica e giuridica dell'età moderna, è stato il curatore del Festival del diritto di Piacenza ed è il direttore scientifico dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

Vedi anche: Diritto e lavoro - Alisa Del Re, Geminello Preterossi 

Il vero dato politico delle elezioni europee, per quello che riguarda l’Italia, è la vastissima astensione: non era mai successo in queste proporzioni. È il segno di una crisi radicale di legittimazione, le cui cause profonde andrebbero indagate, invece di fermarsi alla superficie (come avviene nei talk show televisivi, ma anche in quello che resta dei giornali, tranne rarissime eccezioni). Il minimo che si può dire è che il popolo italiano nella sua maggioranza non ha raccolto l’appello di Mattarella a “consacrare” la “sovranità europea” nel rito elettorale. Un invito retorico, emotivo, perciò forzato e precario in quanto non fondato sul piano concettuale e dottrinale: l’UE non è uno Stato (né nazionale né federale), quindi non può possedere alcuna sovranità. L’UE è una strana costruzione tecnocratica, finanziaria e giurisdizionale, vocata prevalentemente ai dogmi mercatisti neo- e ordoliberali, frutto di accordi internazionali i cui “signori” continuano a essere, logicamente, gli Stati (i quali infatti possono recedere da quegli accordi, come si è visto con la Brexit). Un’istituzione a bassa intensità politica, dominata dai particolarismi, senza una visione unitaria (ma subalterna alla NATO); un costrutto “hayekiano”, funzionale a presidiare il vincolo esterno mercatista (e atlantista), a disciplinare i più deboli ma in generale i riottosi, che si ostinino eventualmente a credere nell’autonomia della politica, nella legittimità del conflitto sociale, nella sua proiezione democratica. L’UE ha nel Consiglio dei Capi di Stato e di governo (statali) la propria camera di compensazione politica degli interessi nazionali, e nella BCE il proprio custode dell’ortodossia monetaria ordoliberale, simboleggiata dall’euro (una moneta senza Stato: cioè un paradosso che non può funzionare, perché alla lunga ha costi sociali e democratici insostenibili). In tale contesto, il Parlamento europeo, non casualmente, non è un vero Parlamento legislatore, quindi non garantisce un’autentica legittimazione democratica. Il Trattato di Lisbona, benché strumentalmente definito “costituzionale”, non è affatto una “costituzione”, ed è subentrato al fallimento di quella che fu presentata come una costituzione (non lo era), bocciata da alcuni popoli europei (francesi e olandesi): per tutta risposta, l’eurocrazia ha fatto finta di niente cambiando di nome alla costituzione, riconoscendo di fatto che si trattava di un trattato (quindi soggetto a ratifica internazionale, non al vaglio di un potere costituente), appiccicandoci addosso la qualifica di “costituzionale” a fini propagandistici, tanto per ingenerare ancora più opacità e confusione. Parlare di “Europa sovrana” (come fanno Padoan e Guerrieri in un recente volume Laterza) è una contraddizione in termini: segno o di ignoranza (giuridica, politica e storica), o di un atteggiamento “wishful thinking” senza costrutto né fondamenta reali; insomma, l’ennesima commedia degli inganni.

martedì 11 giugno 2024

I rischi inaccettabili di una guerra nucleare - Massimo Zucchetti

Da: Massimo Zucchetti - Massimo Zucchetti è professore ordinario dal 2000 presso il Politecnico di Torino (www.polito.it, zucchetti@polito.it), Dipartimento di Energia. Attualmente è docente di Radiation Protection, Tecnologie Nucleari, Storia dell’energia, Centrali nucleari).


Sono un prof. di Impianti Nucleari al Politecnico di Torino. La mia materia principale è la Protezione dalle Radiazioni. Dato che trovo irresponsabile e atroce che - recentemente - più di un governante parli di una guerra nucleare come un'opzione sì estrema, ma possibile e praticabile, ho ritenuto necessario trasmettere e mettere in pubblico le mie conoscenze di (purtroppo) esperto nel settore.

Provo a raccontarvela io, per ribadire come l'uso di bombe atomiche, piccole, grandi, russe, cinesi, americane, francesi, inglesi non è MAI concepibile, per NESSUN motivo. Non c'è bisogno di essere studenti universitari, per seguirmi: basta avere un po' di basi di chimica e fisica, oltre che una grande pazienza.

                                                                           

mercoledì 5 giugno 2024

La Crisi della Politica. Alessandro Di Battista dialoga con Luciano Canfora

Da: Alessandro Di Battista - Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia, Dedalo Edizioni. (Luciano Canfora Podcast) - Alessandro Di Battista è un opinionista e scrittore italiano. Deputato M5S alla Camera (2013–2018).
Leggi anche: La storia è conflitto e il “politicamente corretto” è da fessi - LUCIANO CANFORA 

Guerra, sovranità, crisi della politica, democrazia, capitalismo, questione palestinese. 
Ne parliamo con il Prof. Luciano Canfora, autore del libro Dizionario politico minimo.

                                                                         

domenica 2 giugno 2024

"La società dell'emergenza" di Francesco Fantuzzi - Recensione di Paolo Massucci

Da: https://www.sinistrainrete.info - Paolo Massucci, Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni. 

Il saggio, edito nel 2024 da Sensibili alle foglie, fornisce una ricca analisi della crisi in corso della democrazia. Le soluzioni proposte stimolano riflessioni utili alla comprensione della nostra condizione storica e alla speranza di un cambiamento.


Segnalo il saggio di Francesco Fantuzzi "La società dell'emergenza. Pandemia, guerra, insicurezza, caos: quale futuro ci attende?" edito nel 2024 da Sensibili alle foglie.

Il libro offre una chiara, dettagliata e spietata descrizione dello spirito del nostro tempo e della grave crisi politica, economica, sociale, culturale ed ecologica in corso, di cui non riusciamo più a intravedere alcuna soluzione. L'annunciata epoca della globalizzazione, della pace mondiale, del progresso e della libertà, una volta crollata l'URSS si è presto conclusa in conseguenza dei sussulti per la contesa sul nuovo ordine mondiale.

Viene esposta la grave situazione politica, ovvero il progressivo arretramento della democrazia per cui è stato anche coniato il termine “postdemocrazia”: le istituzioni nazionali e sovranazionali che detengono il potere rispondono sempre più alle richieste delle lobby industriali e finanziarie, anziché ai popoli. Mentre i governi, a prescindere dai partiti che li sostengono, non si discostano più dalle politiche economiche neoliberiste e di austerità, sfavorevoli ai lavoratori e alle fasce deboli e impiegano modelli di gestione costantemente emergenziali e metodi autoritari.

L'Autore, la cui visione etica appare a mio avviso influenzata dal filone del pensiero occidentale della Scuola di Francoforte, intravede il rischio di una deriva "dis-umanistica", caratterizzata dallo sgretolarsi dei rapporti tra persone e dalla spettacolarizzazione dell'esistenza (viene citato il saggio del 1967 di Guy Debord), in un ambiente relazionale segnato dal solipsismo narcisistico, in cui tutti si mostrano, nessuno ascolta e gli istinti inconsci non sublimati dominano sulla ragione. Tutto ciò, secondo l'Autore, e a ragione, sarebbe favorito anche dalla diffusione degli strumenti della tecnologia informatica, finalizzati, in ultima analisi, esclusivamente alla massimizzazione del profitto privato, anziché a progetti lungimiranti, razionali, etici e responsabili verso la collettività. Viene quindi richiamato il pericolo del "postumanesimo", una progetto a oggi ancora elitario che auspica l'impiego della tecnica per estendere le possibilità del corpo e della mente umana: una pericolosa riproposizione -quella del postumanesimo-, secondo la tesi di Paolo Ercolani nel saggio "Nietzsche l'iperboreo", di cui pure consiglio la lettura, della inquietante teoria del superuomo.

Nella parte finale l’Autore -che afferma che il capitalismo è il problema e pertanto esso non può offrire soluzioni- presenta alcune proposte per invertire la rotta, collocabili, a mio avviso, nell'ambito della cultura postmoderna, quali la teoria della “decrescita felice” di Serge Latouche: una prospettiva lodevole e razionale, nonostante alcuni limiti, indispensabile per poter superare la crisi ecologica e il super-individualismo odierno. Chiaramente occorre anche considerare le possibili contromisure che il capitalismo prenderebbe, come le guerre, per far fronte a un ipotetico calo dei consumi, prima di implodere, se mai dovesse avvenire. D’altra parte, considerate le attuali disparità del livello di consumo nel mondo, si può ipotizzare che la rinuncia a un dato stile di vita consumistico, il cosiddetto benessere, possa coinvolgere per lo più solo quella parte più consapevole e sensibile della classe media più acculturata, mentre il mondo nel complesso continuerebbe presumibilmente a funzionare senza particolari inceppi o trasformazioni.

D’altra parte ci si può chiedere -ma siamo forse nel campo della teoria politica- se l'attuale crisi, con particolare riferimento al restringimento degli spazi di democrazia e al neoliberismo, caratterizzata dall'arretramento dei diritti sociali conquistati nella seconda metà del secolo scorso, cui deriva la vertiginosa polarizzazione di redditi e patrimoni, non sia altro che la naturale conseguenza dell’incontrastato processo capitalistico, una volta privato degli ostacoli dati dalla presenza dell'Unione Sovietica e dei partiti comunisti di massa.

E’ comunque certo, e su questo il saggio fornisce un pregevole contributo di riflessione, che un eventuale movimento anticapitalista internazionale, ancorché non certamente all’ordine del giorno, abbia l’indispensabile compito, oltre all’abbattimento del capitalismo e dello sfruttamento di classe, di mostrare la possibilità e persino il guadagno in termini di civiltà e di relazioni intersoggettive di uno stile di vita più sobrio, meno consumistico, meno competitivo e in definitiva più umano. Anzi, si può affermare, ciò costituirebbe un immenso vantaggio per la nostra esistenza materiale e spirituale: non sarebbe un tornare al passato, bensì un percorso di rinnovamento dei rapporti umani e sociali anche a livello etico: come affermava Che Guevara, la rivoluzione necessita anche della costruzione di un homo novus. Naturalmente, a nostro avviso, qualsiasi cambiamento non può prescindere da una profonda trasformazione della struttura sociale, dei rapporti tra classi, del modo di produzione, altrimenti si collocherebbe su un mero piano idealista, moralista, dei “buoni propositi”.

Non vi è dubbio, in definitiva, che questo libro possa offrire stimoli utili a una riflessione critica sul mondo attuale e spunti per un dibattito per la ricerca di possibili percorsi concreti che possano impedire quella che, a oggi, appare ai più una catastrofe inevitabile di tutto il genere umano.