Da: https://www.indiscreto.org - CHRISTIAN FRIGERIO È DOTTORANDO IN FILOSOFIA PRESSO LA STATALE DI MILANO. I SUOI INTERESSI DI RICERCA VERTONO INTORNO ALLA FILOSOFIA SPECULATIVA CONTEMPORANEA E AI RAPPORTI TRA FILOSOFIA ED ECOLOGIA
“Il debito infinito che l’Europa aveva nei confronti degli ebrei non ha nemmeno iniziato a pagarlo, in compenso l’ha fatto pagare a un popolo innocente, i palestinesi”. Così Gilles Deleuze si esprimeva nel 1984 sulla questione palestinese, il tema d’attualità cui si dedicò con maggior ardore. L’impegno del filosofo francese è rappresentato principalmente da quattro brevi interventi, tutti raccolti in Due regimi di folli (Einaudi 2010; quando non specificato, le note faranno riferimento a questo volume): I seccatori (1978), l’intervista Gli indiani di Palestina (1982), Grandezza di Yasser Arafat (1983), Le pietre (1984). Deleuze morì il 4 novembre 1995 (curiosamente, lo stesso giorno dell’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di fanatici sionisti), appena dopo gli accordi di Oslo, prima della seconda Intifada, prima dello sgretolarsi dell’Olp, dell’involuzione terroristica di Hamas, dei fatti del 2007 e, ovviamente, di quella che viene presentata come la reazione israeliana al 7 ottobre ma che in realtà non è che la logica conclusione del colonialismo sionista. La sua posizione offre però tutt’oggi l’esempio di un pensiero equilibrato ma netto su quello che, da oltre settantacinque anni a questa parte, costituisce il maggior esempio della cattiva coscienza occidentale nei confronti del resto del mondo.
L’opposizione Israele-Palestina incarna molti dei dualismi attorno ai quali Deleuze impernia il suo pensiero: quello, ad esempio, tra “apparato di stato” e “macchina da guerra”, o quello tra “spazio striato” e “spazio liscio”. Lo stato è uno spazio striato perché risulta da un processo di territorializzazione, definito da forme di compartimentazione spaziale rigide e spesso coatte che bloccano i “flussi” e i “divenire” attuabili su quel territorio. La macchina da guerra è per contro ciò che, interno allo stato stesso, incarna nondimeno il suo fuori: la macchina da guerra – che, nonostante il nome, non è necessariamente legata a operazioni militari – dinamizza lo stato, lo deterritorializza, ne mette in discussione le compartimentazioni spaziali facendone uno spazio liscio da striato che era. Non a caso, il maggior esempio di spazio liscio è per Deleuze il deserto, l’ambiente, insieme al mare, più recalcitrante al tracciamento di strade e confini.
Abitante ideale del deserto è il nomade: “Mentre il migrante abbandona un ambiente divenuto amorfo o ingrato, il nomade è colui che non se ne va, che non vuole andarsene, che si attacca a quello spazio liscio in cui la foresta si ritrae, in cui la steppa o il deserto crescono e inventa il nomadismo come risposta a questa sfida” (Mille piani, Orthotes 2017, p. 524). Questo è ciò che gli arabi avevano già fatto almeno una volta, ribellandosi al dominio ottomano, ma riterritorializzandosi come marionette degli inglesi (si veda La vergogna e la gloria, il bel testo che Deleuze dedica a Lawrence d’Arabia, in Critica e clinica). Ed è ciò che i palestinesi fanno ancora meglio. I palestinesi sono, come i baschi o i corsi, una macchina da guerra che mina dall’interno la staticità dell’apparato di cattura israeliano, tutto teso a fare della terra palestinese un “deserto controllato” (p. 127), uno spazio striato.
I migranti appaiono spesso come scocciatori agli occhi dei paesi che si trovano ad accoglierli. Ma l’operazione dei nomadi è più radicale: anziché passare da uno stato all’altro, essi mettono in discussione lo stesso meccanismo statale. “I palestinesi, gente senza terra né stato, sono dei seccatori per tutto il mondo. Per quanto ricevano armi e denaro da alcuni paesi, sanno quel che dicono quando dichiarano di essere assolutamente soli” (p. 126). In un Occidente fatto di stati, una potenza non-statale non può che essere percepita come una minaccia. Per questo, nonostante i tanti propositi verbali, è difficile anche solo pensare a prese di posizione pratiche in suo favore. Quel che è peggio, quei propositi verbali sono spesso sfruttati per fini opposti rispetto a quelli programmati, proprio perché il loro inquadramento in una logica statale ne rende facile il riassorbimento da parte dell’apparato israeliano: “Israele ha sempre ritenuto che le risoluzioni dell’ONU che lo condannavano verbalmente, di fatto gli dessero ragione. L’invito ad abbandonare i territori occupati l’ha trasformato nell’obbligo di installarvi delle colonie” (p. 127), così come l’invio di una forza internazionale nel Sud del Libano nel 1978, dopo anni di attacchi israeliani, venne percepito come un provvedimento eccellente, purché questa forza trasformasse in vece israeliana il Libano in una zona di polizia.
“È un curioso ricatto, da cui il mondo intero uscirà solo se ci sarà una pressione sufficiente affinché i palestinesi vengano infine riconosciuti per quel che sono, dei ‘validi interlocutori’” (p. 127). Il passaggio da seccatori a interlocutori è la prima soluzione proposta da Deleuze nel 1978. Deleuze è il primo a mancare di ottimismo riguardo la viabilità di questo percorso: già nelle sue prime riflessioni, egli vide come, lungi dal rappresentare una situazione conchiusa, la questione palestinese costituisse un autentico “laboratorio” in cui, facendo leva sul problema del terrorismo, si delineavano le nuove forme di governamentalità che sarebbero esplose nel giro di pochi anni: “L’intesa mondiale tra gli stati, l’organizzazione di una polizia e di una giurisdizione mondiali, che si stanno preparando, portano necessariamente a un’estensione in base a cui la gente sarà sempre più assimilata a ‘terroristi’ virtuali” (p.127). Sono righe profetiche: l’attacco del 2001 alle torri gemelle sarà solo il pretesto per premere l’acceleratore su una serie di svolte già in atto, che permetteranno il definitivo passaggio dalla “società disciplinare” – come la definiva Foucault – alla “società di controllo” (si veda il Poscritto sulle società di controllo del 1990, in Pourparler).
Israele “fissa un modello di repressione che sarà adattato e fatto fruttare in altri paesi” (p. 127). Si passa impercettibilmente dallo stato di polizia a un autentico stato di spionaggio, al punto che sfuma la distanza tra l’ammirazione degli occidentali per Israele in quanto unico stato democratico del Medio Oriente e il fascino per l’efficacia del Mossad: ma “che democrazia è quella la cui politica si confonde così bene con l’azione dei suoi servizi segreti?” (p. 275). Nel momento in cui poi il controterrorismo di questi ultimi non si distingue più dal terrorismo stesso (in questo senso, Munich di Steven Spielberg fa emergere una realtà neanche troppo nascosta), la presunta democrazia israeliana diventa poco più che la maschera ideologica del terrorismo coloniale.
Deleuze va preso alla lettera quando parla di “ricatto”. Questo è forse il più grande paradosso dell’intera questione: la situazione dovrebbe essere rovesciata, visto che gli Stati Uniti versano a Israele ingenti finanziamenti annuali dai quali dipende gran parte delle sue possibilità di difendersi. In realtà, la presa occidentale in Medio Oriente dipende a tal punto da Israele che il rapporto di sudditanza si è invertito ed è ormai Israele a dettare le condizioni. Questo ricatto geopolitico va di pari passo con l’altro e forse più importante ricatto: la posizione occidentale nei confronti di Israele è un modo di mondare la sua cattiva coscienza, di sdebitarsi per aver permesso e persino tollerato lo sterminio degli ebrei. Ma il risarcimento è stato interamente appaltato dall’Occidente a un popolo incolpevole: “Gli Stati Uniti e l’Europa dovevano risarcire gli ebrei. E questo risarcimento l’hanno fatto pagare a un popolo, di cui il minimo che si possa dire è che non c’entrava affatto, che era particolarmente innocente rispetto a ogni olocausto” (p. 195).
Se i palestinesi vanno elevati al rango di “validi interlocutori” è proprio perché si trovano “dentro uno stato di guerra di cui non sono certo responsabili” (p. 127). I palestinesi vengono presentati quasi come discendenti di Hitler perché non accettano di pagare un debito che non spetta loro. Qui inizia il confronto con uno dei punti più spinosi del dibattito: il rapporto tra Shoah e Nakba, termine oramai impiegato per indicare la continuità tra l’esodo palestinese del 1948 e i fatti più recenti quali effetto della dominazione israeliana. Come dovremmo vedere il rapporto tra ciò che il nazismo ha fatto subire agli ebrei e ciò che Israele sta facendo subire ai palestinesi? Tra i due c’è analogia o giustificazione – vale a dire: il diritto di rivendicare una terra propria come risarcimento per il genocidio nazista e in ottica preventiva contro il ripresentarsi di qualcosa di simile giustifica l’istituzione dello stato ebraico ai danni dei palestinesi, o bisogna sostenere che Israele stia compiendo un genocidio non dissimile da quello che subì una volta?
Il paragone più immediato, più che con la Shoah, resta quello con gli indiani d’America: Israele ripete il processo di fondazione degli Stati Uniti, che pure ebbe luogo con uno sterminio effettuato in maniera solo obliqua. I palestinesi sono “gli indiani d’Israele” (p. 196). Eppure, Deleuze non ha dubbi: malgrado le evidenti differenze strutturali tra i due eventi, non è scorretto parlare di genocidio anche ai danni dei palestinesi. L’obiettivo israeliano sarebbe stato da subito “un genocidio, ma in cui lo sterminio fisico resta subordinato all’evacuazione geografica” (p. 195). Lo sterminio fisico è presente come un mezzo tra gli altri e non come fine principale, ma non per questo è meno scorretto parlare di genocidio. L’analogia viene individuata forse più nell’atteggiamento della parte forte che nella struttura stessa dell’evento: “Si chiamano tutti Abu, dichiara un ufficiale israeliano dopo l’assassinio di Abu Jihad. Chissà se si ricorda quanto fosse spaventosa la voce di coloro che dicevano: tutti quelli che si chiamano Levi…?” (p. 275).
Dal punto di vista ideologico, all’analogia tra Nakba e Shoah ci si sottrae con l’elevazione della Shoah a “male assoluto”, come un che di trascendente rispetto alla storia e dotato di un significato eterno, al fine di renderla un dispositivo legittimante per l’operato di quelle che una volta erano delle vittime. Come scrive Deleuze (in uno dei pochi momenti in cui si degna di considerare la storia come una degna fonte di attenzione filosofica): “trasformare il più grande genocidio della storia in male assoluto è una visione religiosa e mistica, non una visione storica. Non ferma il male; semmai lo propaga, lo fa ricadere su altri innocenti, esige un risarcimento che fa subire a questi altri una parte di ciò che hanno subito gli ebrei” (p. 194). Nella sua intervista a un rappresentante della resistenza palestinese, Elias Sanbar, tra gli elementi a emergere con maggior forza è proprio l’opposizione tra Israele quale un popolo che esige di essere trattato diversamente dagli altri, come l’eterno “Altro” che gode di un’eccezionalità trascendente a prescindere dalla situazione, e la volontà dei palestinesi di porsi come “un popolo come gli altri” (p. 158). Contro l’eccezionalismo israeliano, un popolo (così come, alla vita personale che si richiude nella forma della coscienza, nel suo ultimo testo Deleuze opporrà l’impersonalità virtuale di una vita, una vita che, per quanto assolutamente singolare, resta una vita come tutte le altre – solo nel senso in cui, però, nessuna vita è come tutte le altre). All’eccezionalismo israeliano, i palestinesi oppongono la semplice richiesta del riconoscimento della propria esistenza, la richiesta di confrontarsi su un piano di uguaglianza politica, impugnando modestia e discrezione quali fonti di una potenza etica superiore. L’insistenza di Deleuze sull’“immanenza” come matrice di ogni filosofia funziona qui per sottrarre a Israele un privilegio che ha smesso di appartenergli nel momento in cui ha trasformato quanto subito dagli ebrei in una tragedia personale e incommensurabile con qualunque altro evento storico, anziché coglierne il significato cosmico e storico, che nulla ha di irripetibile e nulla ha a che fare con l’“elezione” di un popolo sopra gli altri.
Dal punto di vista operativo, invece, la metodologia israeliana ha sempre consistito nel “fare il vuoto nel territorio palestinese. O meglio, fare come se il territorio palestinese fosse vuoto, destinato da sempre ai sionisti” (p. 195). L’inesistenza di un vero popolo palestinese anche prima del mandato inglese è uno dei cavalli di battaglia del sionismo: “Si intimava [ai palestinesi] di riconoscere lo stato d’Israele di diritto, ma gli israeliani continuavano a negare il fatto concreto di un popolo palestinese” (p. 274). Fatto che invece sussiste eccome. I palestinesi sarebbero stati un popolo tanto specifico che hanno sempre dovuto guardarsi anche dal malcontento degli altri stati arabi: “I palestinesi hanno percorso tutti i gironi infernali della storia: il fallimento delle soluzioni ogni volta che erano possibili, i peggiori rovesciamenti di alleanze di cui pagavano il prezzo, le più solenni promesse non mantenute” (p. 196). Un popolo come gli altri, ma solo nella misura in cui nessun popolo è come gli altri.
Per Deleuze, comunque, la questione della preesistenza dei palestinesi è rilevante solo fino a un certo punto. Un popolo, nel senso più pregnante della parola, non è qualcosa le cui radici vadano rintracciate nel passato, in una memoria condivisa; piuttosto, è qualcosa che emerge da un atto performativo di “fabulazione” (quello che oggi viene spesso chiamato iperstizione), un atto opposto al mito che costituisce un popolo che non esisteva in precedenza. Il popolo è sempre qualcosa di minoritario, che deve sempre scavare gli interstizi per la propria esistenza sullo sfondo di un apparato statale. Nessun popolo rappresenta questo essere minoritario meglio di quello palestinese. Dice Deleuze nel 1985: “I popoli non preesistono. Il popolo, in un certo senso, è ciò che manca, come diceva Paul Klee. C’era forse un popolo Palestinese? Israele dice di no. Magari ce n’è stato uno, ma questo non è essenziale; invece, dal momento in cui i palestinesi sono stati espulsi dal loro territorio, nella misura in cui resistono, entrano nel processo di costituzione di un popolo” (Pourparler, Quodlibet 2019, p. 144). Israele ha creato il popolo palestinese cacciandolo a forza dalla sua terra e obbligandolo a una presa di coscienza della propria identità, e questo popolo che viene così posto in essere merita tutti i diritti che si riconoscono a quelli che pensiamo essere lì sin dall’alba dei tempi. L’espulsione dalla terra scatena la presa di coscienza fabulatrice; la colonizzazione fa il popolo prima ancora di disperderlo, e la questione della sua preesistenza si riduce a un caso di problema mal posto, esempio di un privilegio eccessivo che si tende a dare al passato.
Alcune pagine di Deleuze suonano quasi come una profezia macabra. Nel 1983, egli esprimeva la convinzione che una soluzione pacifica fosse possibile solo con una Olp che fosse rimasta indipendente, né assorbita in uno stato già esistente, né dissolta nella spirale dei movimenti islamici. L’Olp doveva insomma mantenere il suo statuto di macchina da guerra, senza ridurre la propria potenza a quella di un apparato statale né dissolversi nel “buco nero” di un mero terrorismo. Proprio questa doppia tenaglia sembra aver stritolato il movimento di resistenza palestinese a partire almeno dal 2007, con la divisione tra una Cisgiordania che è ormai poco più che una propaggine israeliana, e una striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas. Mentre il primo polo ha esaurito le sue potenzialità di macchina da guerra, sembrano fatte per la seconda le parole di Deleuze: “Una scomparsa dell’Olp sarebbe solo la vittoria delle cieche forze della guerra, indifferenti alla sopravvivenza del popolo palestinese” (p. 197). Deleuze mette in guardia dalla tentazione di romanticizzare il terrorismo o il fondamentalismo. Che il terrorismo vada ai danni di Israele non significa che operi necessariamente per il bene dei palestinesi. Al contempo, però, mette in guardia dal considerare il terrorismo sotto una lente morale, astratta dai meccanismi storici concreti che l’hanno posto in essere. Quello palestinese sarà un terrorismo forzato, Israele se lo troverà dinanzi come “l’immagine rovesciata della propria intolleranza” (p. 197). È proprio perché si tratta di un’immagine rovesciata che Israele non dovrebbe trovarsi in posizione di usare Hamas per giustificare la distruzione della Palestina e lo sterminio dei suoi abitanti. Non c’è niente in Hamas che non ci sia stato messo da Israele. Riscoprire l’interstizio tra apparato statale e mero terrorismo, riattivare una “macchina da guerra” che si sottragga alla distruzione senza venir assorbita dallo stato, richiederebbe anzitutto un cambio di posizione da parte israeliana, che nel momento in cui queste parole vengono scritte appare purtroppo impensabile.
Apeirogon è il nome che Colum McCann ha dato al bellissimo romanzo del 2020 dedicato alle tragedie vissute da ambo le parti nella precaria e difficilissima convivenza, se così si può chiamare, in territorio palestinese. Apeirogon è il nome del poligono dal numero infinito di lati, a indicare le innumerevoli sfaccettature della questione palestinese. È impossibile trattare la questione in un modo che non sia riduttivo a fronte di tale complessità. La filosofia della prassi di Deleuze è stata spesso accusata d’essere astratta e inadatta a una politica che si ponga all’insegna della progettualità concreta e non di una generica e solo negativa emancipazione, ed è probabilmente vero che uno dei motivi per cui egli vide nella questione palestinese un’incarnazione perfetta della sua visione politica è proprio l’assenza di un inquadramento statale da parte dei palestinesi. Tuttavia, la macchina da guerra non deve distruggere lo stato quanto attivamente trascinarlo nel suo divenire. Il proliferare, anche all’interno di Israele e ben prima dell’involuzione autoritaria del governo e della disastrosa gestione della questione degli ostaggi, di movimenti ebraici antisionisti che riconoscono la legittimità delle richieste palestinesi e puntano il dito contro i soprusi operati dal paese che doveva rappresentare il loro sogno di pace e di patria e si è trasformato nell’incubo di un altro popolo, è già un’istanza di questo divenire-minoritario, di questo trascinarsi dello stato verso il deserto. Normalmente, i nomadi “non fanno parte della storia; ne sono esclusi, ma attraverso una metamorfosi, ricompaiono in modo diverso, sotto forme inattese nelle linee di fuga di un campo sociale” (Pourparler, p. 174). I nomadi hanno la funzione di ri-possibilizzare, di virtualizzare una storia che rifiuta di presentarsi come svolgimento automatico di una promessa o come attuazione di un’escatologia data a priori: “Contro la storia apocalittica, c’è un senso della storia che fa tutt’uno con il possibile, la molteplicità del possibile, il moltiplicarsi dei possibili in ogni momento” (p. 159). È questo che i palestinesi e la loro resistenza possono rappresentare per un pensiero della prassi: come Deleuze dice nelle Conversazioni con Claire Parnet (Ombre Corte 2019, p. 16), “il deserto, la sperimentazione su noi stessi, è la nostra unica identità, la nostra unica possibilità per tutte le combinazioni che ci abitano”. Il debito infinito che abbiamo già contratto coi palestinesi dovremmo trasformarlo in una simile sperimentazione su noi stessi e sui nostri apparati statali, perché questa proliferazione infinita di debiti possa finalmente estinguersi e la logica che la sottende possa lasciare spazio a iniziative concrete che, senza romanticizzarne l’estraneità ai meccanismi politici consueti, rendano alla Palestina il posto che le spetta nella storia e nel mondo.
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