domenica 15 ottobre 2017

Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento*- Carla Maria Fabiani**

*Riccardo Bellofiore (a cura di): Da Marx a Marx? Manifestolibri, Roma 2007.  Da:  http://www.recensionifilosofiche.it  **Maria_Fabiani (Università del Salento)
Leggi anche: Bellofiore  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/da-marx-marx-un-bilancio-dei-marxismi.html
                      Corradi  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/panzieri-tronti-negri-le-diverse.html
                      Rieser  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/05/riflessioni-senili-ruota-libera-su.html
Vedi anche:   Finelli  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/i-marxismi-in-italia-roberto-finelli.html
                      Fineschi  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/marx-hegel-ed-il-metodo-note.html

     Il volume nasce come raccolta degli atti di un convegno organizzato da Riccardo Bellofiore presso l’Università di Bergamo (Facoltà di Economia) in occasione dell’uscita, sempre per la Manifestolibri, del volume di Cristina Corradi dal titolo Storia dei marxismi in Italia. Allora, è bene innanzitutto riportare le tesi sintetiche che Corradi espone in questa raccolta alle pagine 9-31. 

  1. Rapporto teoria e prassi. I protagonisti italiani di questo intricato rapporto sono innanzitutto Antonio Labriola e poi Antonio Gramsci. Se il primo incentra la sua lettura di Marx sulla nozione di “materialismo storico”, il secondo restituisce una originale lettura delle Tesi su Feuerbach “da cui ha ricavato una filosofia della prassi intesa come produzione di soggettività politica”. Subentrano nel secondo dopoguerra, lo storicismo marxista e lo scientismo dellavolpiano. L’operaismo degli anni ’60 sgancia il marxismo dall’idealismo tedesco, dal socialismo francese e dall’economia politica inglese, proponendo “la tesi politica della potenza antagonistica della classe operaia”. La crisi del marxismo degli anni ’70 si manifesta nell’abbandono del paradigma della critica dell’economia politica, relegando la lettura marxiana del capitalismo all’Ottocento.
  2. L’emblematica vicenda di Luporini. Negli anni ’60, Cesare Luporini rilegge Marx alla luce di Althusser, sganciandolo da Hegel e da Feuerbach. Nei successivi anni ’70, propone una lettura più attenta della prima sezione del Capitale, sottolineando poi la rilevanza del contesto mondiale in cui si inserisce il rapporto di produzione capitalistico, da tenere costantemente assieme con il problema dell’egemonia.
  3. Fallimento teorico del marxismo degli anni ’70 ovvero l’eclettismo filosofico marxista. Alla fine degli anni ’60, Lucio Colletti, critico di Della Volpe, sembra ispirare la ricerca, in campo marxista, di un’alternativa allo storicismo e al dellavolpismo. Nella seconda metà degli anni Settanta, tale linea viene però abbandonata da Colletti, a favore di una riscoperta di Gramsci, atta a legittimare le vicende politiche del compromesso storico. Con l’operaismo di Tronti e l’autonomia operaia di un Negri, si tenta un rovesciamento della critica dell’economia politica in critica dello Stato. Con Massimo Cacciari si propone la cosiddetta autonomia del politico, sostanzialmente liberata da lacci e lacciuoli della critica economico-politica. Marx, Nietzsche e Heidegger vengono tenuti insieme per criticare storicismo e umanismo, considerando definitivo l’approdo del capitalismo nella tecnica, senza più alcun richiamo al valore. Viene altresì dipinta con toni tragico-melanconici la politica di sinistra, che spazia dal “pensiero della differenza” fino al “pensiero del negativo” che ripiega, negli anni ’80, “su un concetto di politica limitata e infondata, che rinuncia alla rappresentazione di soggettività sociali e a qualsiasi idea di bene comune per affidare un debole messaggio messianico a figure angeliche.” Contestualmente, il binomio Keynes-Sraffa non perviene a una critica compiuta nei confronti dell’economia neoclassica, dove salario e profitto sono semplicemente considerati prezzi di fattori produttivi relativamente scarsi.

sabato 14 ottobre 2017

Per la rinascita del marxismo in Occidente. L’analisi di Domenico Losurdo*- Aldo Trotta

*Da:  http://www.marx21.it 

Manca ormai da tempo un dibattito teorico-politico sullo stato di salute e sulle prospettive del marxismo in Italia e non solo. Un dibattito tanto più necessario e urgente a fronte di una sinistra residuale che, dopo più di un quarto di secolo di abiure e di congedi dalla propria storia, continua ad annaspare nelle sabbie mobili di un “nuovismo” esasperato ed esasperante, alla ricerca affannosa e inconcludente di “nuovi” orizzonti teorici, di “nuovi” linguaggi, di “nuove” forme e pratiche politiche, di “nuove” identità, e via declinando. L’ultimo volume di Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì e come può rinascere, può senza dubbio fornire un contributo prezioso per provare a rianimare una discussione che vada oltre le pur importanti contingenze politiche. Pubblicato da poco per i tipi della Laterza, il testo si presenta nel panorama editoriale nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, in una fase storica in cui sullo scenario internazionale piovono bombe come fossero coriandoli, i focolai di crisi aumentano e i rischi di una conflagrazione bellica su ampia scala si addensano sempre più pericolosamente all’orizzonte, nella preoccupante assenza di un movimento pacifista in grado di far sentire preventivamente la sua voce prima che l’incendio divampi.

Agosto 1914 e ottobre 1917: marxismo occidentale e marxismo orientale

Dalla prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione d’Ottobre, atti di nascita rispettivamente del marxismo occidentale e di quello orientale, prende le mosse la ricostruzione storico-filosofica che l’autore compie analizzando ragioni oggettive, aspetti culturali e questioni di natura teorica che fin dagli inizi hanno portato i due marxismi a intraprendere strade diverse. La denuncia della guerra e la lotta contro l’utilizzo delle masse popolari come carne da macello da inviare nelle trincee sono i temi prioritari che spiegano l’origine e lo sviluppo del marxismo ad Ovest. Più che lodevoli, questi motivi si intrecciavano però con una diffusa incomprensione della questione coloniale, con toni di carattere anarcoide – dalla demonizzazione dello Stato ad una generale sfiducia nei confronti della scienza e della tecnica – e ancor più con aspettative di redenzione del mondo, le cui radici Losurdo colloca nel messianismo della tradizione ebraico-cristiana. Comprensibili dinanzi alle devastazioni della guerra, le attese di palingenesi sociale e l’impronta messianica erano purtroppo destinate ad avere una lunga durata nell’ambito del marxismo occidentale.

Motivi e speranze utopiche si avvertivano anche in Russia e nel gruppo dirigente bolscevico, prima, durante e dopo la Rivoluzione d’Ottobre: diffusa era la convinzione della imminente sconfitta del capitalismo e del trionfo dell’internazionalismo proletario, da cui sarebbe scaturito un mondo liberato per sempre dal flagello della guerra e della miseria. E tuttavia, le incalzanti esigenze di gestione amministrativa del potere e forse anche il ricordo della tragica fine cui erano andati incontro pochi decenni prima i comunardi di Parigi, comportavano tempestivamente il dissolversi delle illusioni. Si innescava così un «processo di apprendimento» che consentiva a quasi tutto il gruppo dirigente bolscevico di acquisire la consapevolezza che la rivoluzione mondiale non era lì dietro l’angolo, che il progetto di costruzione di un nuovo ordine economico-sociale era questione complessa e di lunga durata. E che di tale progetto era parte essenziale la lotta per la liberazione dei popoli colonizzati. Ciò spiega l’appello di Lenin agli schiavi delle colonie a spezzare le catene della loro plurisecolare oppressione, appello da cui traevano linfa vitale le speranze di libertà dei popoli soggiogati dal colonialismo/imperialismo e lo sviluppo del marxismo orientale. Quest’ultimo, consapevole che da parte del movimento comunista occidentale c’era una sostanziale sottovalutazione delle terribili condizioni in cui versavano paesi e popoli oppressi, fin dalla sua prima formazione assumeva un carattere più realistico, rimanendo con il trascorrere del tempo pressoché immune agli slanci astrattamente utopistici propri del marxismo occidentale.

giovedì 12 ottobre 2017

Goodbye Lenin?*- Susanna Bhome-Kuby

*da Ossietzky 15/2017, scritto da SUSANNA BÖHME-KUBYtrauzione dal tedesco di Giuliana Mandara  



 "Economia della rivoluzione" di Vladimiro Giacché raccoglie gli scritti economici dal 1917 al 1923 del leader della Rivoluzione d'Ottobre. Una lettura che apre interessanti visuali sul nostro mondo di oggi. 


Quasi niente è sembrato essere meno attuale in questa infuocata estate italiana dei testi di Lenin sulla rivoluzione, ormai centenari. Eppure, credo, dal saggio di ben 520 pagine che Vladimiro Giacché ha recentemente pubblicato (“Economia della rivoluzione”, Il Saggiatore), raccogliendo gli scritti economici di Lenin dal 1917 al 1923, si aprono interessanti visuali sul nostro mondo di oggi. Ciò potrebbe sorprendere alcuni, poiché, con la fine dell`Unione Sovietica, il suo fondatore e i suoi pensieri sono in gran parte scomparsi nell’oblio. L’implosione dell’ex-economia sovietica e la selvaggia degenerazione far west che la seguì immediatamente sono considerati dai più come fase già prevista nel contesto della vittoria globale del capitalismo – una semplificazione che manca di qualsiasi complessità storica.

Dopo quasi tre decenni la demonizzazione anti-sovietica continua e anche nelle prossime settimane potremo leggere qualcosa di simile al riguardo in più di un commento, a meno ché non si preferisca sottacere del tutto l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. E perché mai, quando di “cambio di sistema” non si parla più da tempo? O la storia non è ancora giunta alla sua “fine”?

Nell’intensificarsi della lotta globale delle potenze in campo per la spartizione delle risorse ancora restanti, il benessere della maggioranza dell`umanità è definitivamente scomparso dall`orizzonte. La minoranza che ancora possiede qualcosa si tiene stretti i suoi beni – con tutte le conseguenze sgradevoli che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi, almeno se vogliamo percepirli.

Dieci anni dopo l’esplosione della crisi economica mondiale nel 2007/8 persiste ancora la fase di depressione e le maggiori potenze non possiedono strumenti efficaci per superarla. Il mercato è stato in grado di recuperare parte dei profitti a scapito dei paesi più deboli (nell’UE, per esempio, la Germania a spese dell’Europa meridionale) soltanto con l`utilizzo massiccio di fondi pubblici per salvare le banche e l’intero sistema finanziario. Sul capitale finanziario vero e proprio tuttavia non è stata imposta restrizione alcuna.

mercoledì 11 ottobre 2017

Democrazia e momento populista: dall'America Latina all'Europa*- Carlo Formenti**


In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel novembre del 2016 il direttore del “Wall Street Journal”, Gerard Baker ha detto che, in futuro, lo scontro politico non sarà più fra progressisti e conservatori, ma fra globalisti e populisti. Riletta oggi, l’affermazione suona come una dichiarazione di guerra. Eventi come la Brexit, l’elezione di Trump, la disfatta di Renzi nel referendum sulle riforme costituzionali, e le preoccupazioni suscitate dall’ascesa di leader politici come Tsipras (prima della resa ai diktat della Troika), Bernie Sanders, James Corbyn, Pablo Iglesias, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen , hanno fatto sì che si costituisse un poderoso fronte mondiale antipopulista. I media hanno orchestrato una massiccia campagna propagandistica in sostegno dei governi guidati dalle forze politiche tradizionali (conservatori, liberali e socialdemocratici), invitandole a coalizzarsi contro la minaccia di forze genericamente definite populiste – senza distinguere fra le radicali differenze reciproche - in quanto sovraniste, protezioniste, stataliste e antiglobaliste, contrarie cioè alla libera circolazione di merci e capitali e dunque nemiche del sistema democratico, identificato tout court con il mercato. La sostanziale adesione delle sinistre europee – non di rado anche le radicali – a questo appello antipopulista delle élite politiche ed economiche liberiste e dei media mainstream, introduce uno dei temi di fondo che intendo affrontare: l’appello ha funzionato perché le sinistre considerano il sovranismo come un’ideologia ancora più pericolosa del neoliberismo. Prima di esaminare questo atteggiamento, occorre però decostruire il senso del termine populismo.
La narrazione mainstream presenta il populismo come una visione del mondo unitaria, che si contrappone a quella liberista allo stesso modo in cui vi si contrapponeva il comunismo. Questa tesi è insostenibile ove si consideri il fatto che non esiste un corpus di testi fondativi che definiscano principi, valori e obiettivi di questa presunta “ideologia”. Se passiamo poi alla descrizione “scientifica” del fenomeno, vediamo come essa si basi su un elenco di caratteristiche - iperpersonalizzazione della figura del leader, legame diretto fra leader e masse, nazionalismo, linguaggio semplificato, statalismo, interclassismo, polarizzazione fra popolo ed élite, polemica anticasta (contro politici di professione, accademici, finanzieri ecc.), atteggiamento anti istituzionale - compilato negli anni Sessanta del secolo scorso sulla base dell’osservazione dei regimi latinoamericani della metà del Novecento. Si tratta di un elenco di scarso valore euristico ove si consideri che alcune di tali caratteristiche sono tipiche di tutti i movimenti allo stato nascente mentre svaniscono quando essi raggiungono la maturità, e che esse possono essere ricombinate in modi diversi dando origine a regimi altrettanto diversi. Se poi ci si riferisce allo stile populista [1] come tecnica di comunicazione politica, è evidente che si tratta di una modalità adottata da tutti i partiti in quest’epoca caratterizzata dalla mediatizzazione, spettacolarizzazione e personalizzazione della politica. E dunque? La mia risposta è che, per comprendere il fenomeno populista, occorre comprenderne la natura di rivolta (spesso prepolitica) delle masse popolari nei confronti della “guerra di classe dall’alto” [2] iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso. Dietro al termine populismo si cela un insieme articolato e complesso di fenomeni che potremmo definire la forma che la lotta di classe assume nell’era neoliberista.

lunedì 9 ottobre 2017

La colonizzazione globale: le false unità e le false identità nelle ideologie dell’impero*- Edoarda Masi**



*Da:  http://www.ospiteingrato.unisi.it 

 **Edoarda_Masi è stata una saggista italiana, specializzata nella cultura della Cina e nella lingua cinese.


Il significato dei nomi cambia perché nel dipanarsi della storia cambiano i concetti che essi designano. Nello stesso tempo, le costruzioni mentali collettive durano in sostrati profondi, al di sotto delle mutazioni, e nella coscienza comune i nuovi significati contengono in qualche misura quelli apparentemente cancellati, anche i più antichi. Da questo derivano anche mistificazioni ideologiche, dove appare uniforme quello che è differente, e viceversa. Allora l’esistenza dei sostrati profondi da ricchezza può trasformarsi in contributo alla confusione delle menti. Perfino chi combatte le attuali forme di dominio è a volte in qualche misura partecipe inconscio delle ideologie che le sostengono, qualora (per usare l’immagine di Salman Rushdie) si trovi dentro il ventre della balena. 

Come rimedio (di forte valore teorico se pure di scarso risultato pratico) agli equivoci che emergono col mutare dei concetti e delle definizioni, fin dalla remota antichità si è fatto appello alla “verifica dei nomi” – per dirla in termini confuciani. 

Nomi antichi, che più volte hanno mutato significato nel corso del tempo, sono quelli di colonia, colonizzazione, impero; più recente (ma attribuito anche a vicende antiche) quello di imperialismo. 

Ogni civiltà (al limite, ogni individuo) pone se stessa al centro del mondo, e di sé fa misura di ogni cosa. Quando il cerchio ristretto si allarga in un grande spazio unitario che include luoghi e popoli lontani – in impero, nell’accezione generica del termine – i nuovi soggetti dominati appaiono dapprima alieni, diversi; giacché dal luogo centrale si riesce ad assoggettarli, in qualche modo inferiori. La dimensione che si vuole universale si nutre del localismo che ignora altrui. Da Atene a Roma alla Cina a Venezia. Chi non parla greco è barbaro, non conosce la lingua. (Alcuni montanari spagnoli emarginati isolati dal resto del mondo, di cui racconta Costancia de la Mora, incontrati certi turisti di lingua inglese li accolsero come gente incapace di parlare.) 

domenica 8 ottobre 2017

FASCISMO* - Errico Malatesta**

*Da:  http://bentornatabandierarossa.blogspot.it  **Errico_Malatesta è stato tra i principali teorici del movimento anarchico.



L’anarchico campano (1853-1932) fu uno dei pochi, sia in campo rivoluzionario che in campo riformista, a comprendere la vera essenza del fenomeno autoritario in atto. 


A coronamento di una lunga serie di delitti, il fascismo si è infine insediato al governo.
E Mussolini, il duce, tanto per distinguersi, ha cominciato col trattare i deputati al parlamento come un padrone insolente tratterebbe dei servi stupidi e pigri.
Il parlamento, quello che doveva essere “il palladio della libertà”, ha dato la sua misura.

Questo ci lascia perfettamente indifferenti. Tra un gradasso che vitupera e minaccia, perché si sente al sicuro, ed una accolita di vili che pare si delizi nella sua abiezione, noi non abbiamo da scegliere. Constatiamo soltanto – e non senza vergogna – quale specie di gente è quella che ci domina ed al cui giogo non riusciamo a sottrarci.

Ma qual è il significato, quale la portata, quale il risultato probabile di questo nuovo modo di arrivare al potere in nome ed in servizio del re, violando la costituzione che il re aveva giurato di rispettare e di difendere?

A parte le pose che vorrebbero parere napoleoniche e non sono invece che pose da operetta, quando non sono atti da capobrigante, noi crediamo che in fondo non vi sarà nulla di cambiato, salvo per un certo tempo una maggiore pressione poliziesca contro i sovversivi e contro i lavoratori. Una nuova edizione di Crispi e di Pelloux è sempre la vecchia storia del brigante che diventa gendarme!

sabato 7 ottobre 2017

"Democrazia" e Dittatura*- Vladimir Lenin (1918)

*Da:   https://www.marxists.org   Scritto a Mosca il 23 dicembre 1918. Pubblicato sulla Pravda n°2 del 3 gennaio 1919
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/03/democrazia-borghese-e-democrazia.html



I pochi numeri della berlinese Die Rote Fahne e del viennese Der Veckruf, organo del Partito comunista dell'Austria tedesca, pervenuti a Mosca, ci mostrano che i veri rappresentanti dei proletari rivoluzionari di Germania e d'Austria dànno la risposta che si meritano ai traditori del socialismo, che hanno sostenuto la guerra dei predoni imperialisti, a tutti questi Scheidemann, Ebert, Austerlitz e Renner. Salutiamo calorosamente questi due organi di stampa. 


Oggi la questione principale della rivoluzione, sia in Germania che in Austria, è senza dubbio la seguente: Assemblea costituente o potere dei Soviet? Tutti i rappresentanti della fallita II Internazionale, da Scheidemann a Kautsky, sono favorevoli all'Assemblea costituente e affermano che il loro punto di vista è una difesa della "democrazia" (Kautsky è persino arrivato a parlare di "democrazia pura"), in opposizione alla dittatura. Ho analizzato ampiamente le posizioni di Kautsky in un opuscolo apparso recentemente a Mosca e a Pietrogrado: La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Tenterò qui di esporre concisamente la sostanza della questione controversa, che si pone oggi praticamente all'ordine del giorno in tutti i paesi capitalistici progrediti. 

venerdì 6 ottobre 2017

"Riflessioni" 2.0 - Stefano Garroni (2001)

Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/riflessioni-stefano-garroni.html



[...] Ma c’è un’altra mistificazione, io credo: noi siamo francamente bloccati dal fallimento del campo socialista. È crollata l’URSS, è questo che ci rende profondamente incerti: dentro di noi non sappiamo più che vuol dire esattamente esser comunista. Siamo per la dittatura del proletariato? Siamo per l’economia pianificata? Ma tutte queste cose sono fallite! Ma non è questa la realtà: quello che è fallito realmente è il movimento comunista in occidente. 
È fallito realmente il movimento comunista, nei momenti di capitalismo alto. L’Unione Sovietica ha fatto passi enormi, noi dobbiamo essere grati fino in fondo all’Unione Sovietica, perché – pur operando in situazioni assolutamente contraddittorie con il progetto rivoluzionario – ha dimostrato la fattibilità di certe cose, come per esempio l’economia pianificata ecc. ecc., ma si è mossa in condizioni assolutamente contraddittorie con la realizzabilità effettiva di questi obiettivi. Siamo noi in occidente che non ci siamo mossi, dove avevamo le condizioni più adeguate per poterle fare le cose. 
E voi ricordate che nel ’19 -’20 Lenin dice: “In Italia nessun membro del gruppo dirigente socialista si è dimostrato marxista”. Nessuno. Capite bene che vuol dire quel ‘nessuno’? Voi sapete bene che i compagni che dettero luogo al Partito Comunista d’Italia, quello serio, non quello ML, ma quello vero, che cosa volevano fare? Volevano battere quella merdosa – come loro dicevano – tradizione socialista, del sottogoverno, del compromesso, del prender le cose alla cattolica, cioè non sul serio, dire una cosa e farne un’altra: volevano rompere con questo e creare realmente un partito comunista. Io credo che nella nostra storia, anche il Partito Comunista Italiano è andato a finire con la vecchia merda socialista. 
E credo che noi oggi stiamo ripercorrendo quella vecchia merda, nello stesso momento in cui dimentichiamo un piccolo particolare: se facessimo il nome di qualche grande dirigente comunista, noi avremmo sempre a che fare con persone dalla grande e formidabile preparazione culturale, dalla grande e formidabile dirittura morale, e capacità di sacrificio pratico. Grande e formidabile preparazione culturale. Compagni, ci rendiamo conto … noi conosciamo la realtà – diciamo così – dell’attuale movimento comunista: è coniugabile con cultura? 
Voi capite … i compagni di Rifondazione mi consentano, ma è chiaro che il giornale di un’organizzazione è una sorta di biglietto da visita. Ma l’abbiamo letto qualche volta Liberazione? Come è possibile che un compagno tolleri che quel giornale esista? A quell’infimo livello come è possibile? È possibile solo perché non si comprende più l’importanza centrale della robustezza culturale del movimento comunista, perché non ricordiamo più che Lenin diceva: “Il socialismo non lo fanno i partiti, lo fanno i proletari”. È una cosa enorme, perché vuol dire appunto che quella nuova fase della storia universale che si chiama comunismo, ha da essere fatto dai lavoratori. Questo vuol dire la necessità di un vasto, enorme, processo di elevamento culturale, e ovviamente, prima di tutto, della così detta avanguardia è evidente. 
Ma se dimentichiamo questo, se dimentichiamo il nesso profondo tra lotta per il socialismo ed elevamento della cultura e lotta per l’affermazione dei principi morali contro la degenerazione capitalistica ... compagna Carla è un’altra cosa combattere contro, per esempio, con articoli che difendono i diritti sindacali o combattere contro la droga. 
Io non credo che noi comunisti siamo coniugabili con i drogati: noi non ci battiamo in difesa della droga. Noi ci battiamo per ben altre cose, e contro, fino in fondo, alla droga, e tutte le forme di droga che il sistema capitalistico ci dà, in tutti i modi. E non cadiamo nel trabocchetto di confondere noi con il postmoderno, cioè con la corruzione del capitalismo. 
Avevano ragione i compagni sovietici, ma noi non ci credevamo, quando dicevano: “Attenti, quel tipo di cultura che in occidente viene dato ai giovani, quel tipo di musica, sono forme di corruzione”. È vero, perché la lotta per il comunismo è lotta per una nuova dignità dell’uomo. Allora significa avere una sensibilità morale più evoluta, più sviluppata. Certo non è data né dalla droga, né dall’omosessualità e né da quest’altra robaccia chiamata musica, ma è data da altre faccende. 
Allora, per esempio, è una cosa interessante se non fosse drammaticissima, basta accendere internet per prendere notizie dalla Jugoslavia: voi sapete che non c’è nessuna ricostruzione. Cioè non solo li hanno bombardati, ma la ricostruzione che fanno è impedire che rinascano le fabbriche. Perché è chiaro, come fanno in una crisi economica internazionale? Possono aprire nuovi luoghi di produzione, quando non riescono a vendere neanche quello che già producono? Allora di fatto, non c’è neanche la ricostruzione. [...]

giovedì 5 ottobre 2017

L'ASSASSINIO DELLA STORIA*- John Pilger**

*(Da “https://www.counterpunch.org/”, 22 settembre 2017 l'articolo di Pilger anche sul sito www.luciomanisco.eu)
**John_Pilger è un giornalista australiano.

Uno degli “eventi” più pubblicizzati della televisione americana “La Guerra del Vietnam” ha preso il via sulla “Public Broadcasting System”, registi e conduttori Ken Burns e Lynn Novick. Acclamato per i suoi documentari sulla Guerra Civile, la Grande Depressione e la Storia del Jazz, Burns dice di questi suoi filmati sul Vietnam:”Ispireranno il nostro paese a discutere e pensare sulla guerra del Vietnam da una prospettiva del tutto nuova”.

In una società spesso privata di memoria storica e schiava della propaganda sul suo “eccezionalismo”, la “prospettiva del tutto nuova sulla guerra del Vietnam” viene presentata come “un'opera epica, storica”. L'imponente campagna pubblicitaria elogia la sua principale finanziatrice, la Banca d'America, la cui sede nel 1971 venne incendiata dagli studenti di Santa Barbara in California come simbolo emblematico della detestata guerra del Vietnam. Burns professa la sua gratitudine “all'intera famiglia della Banca d'America” che “da molto tempo sostiene la causa dei reduci di guerra nel nostro paese”. La Banca d'America ha in realtà fornito un sostegno corporativo ad un'invasione che ha provocato la morte di qualcosa come quattro milioni di vietnamiti e devastato ed avvelenato una terra una volta bella. Più di 58.000 i caduti tra i soldati americani e si stima che un numero pressocché uguale                                                                                               di essi si siano suicidati.

Ho visto a New York la prima puntata. Sin dall'inizio non vi lascia alcun dubbio sui suoi intenti. La narrativa esplicita che “la guerra venne varata in buona fede da personaggi onesti sulla base di fatali malintesi, un'esagerata sicumera americana, una generica incomprensione della guerra fredda. La disonestà di queste asserzioni non deve suscitare sorpresa. La cinica fabbricazione di falsi vessilli che portà all'invasione è ormai basata su inoppugnabili documenti. L'”incidente” del Golfo del Tonkino del 1964 – che Burns sostiene sia realmente accaduto - è un esempio indicativo. Le menzogne pullulano in un enorme numero di documenti ufficiali, prime tra tutte le Carte del Pentagono che il grande denunziatore dei misfatti governativi Daniel Ellesberg rese di pubblica ragione nel 1971.

Non c'è mai stata buona fede. La fede è stata sempre marcia e cancerogena. Per me – come dovrebbe essere per molti americani – è molto difficile seguire nel filmato il cumolo di mappe sul “pericolo rosso”, incomprensibili intervistatori, inetti tagli ai materiali di archivio e le disconnesse sequenze dei combattimenti.

lunedì 2 ottobre 2017

La truffa: si vive meno ma aumenta l'età per andare in pensione*- Paolo Massucci**

*Da:  https://www.lacittafutura.it/      **Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni"


Non dobbiamo accettare un’organizzazione della società in cui il futuro per la maggior parte degli individui costituisce inesorabilmente una minaccia. 

Come riportato nell’articolo sul Corriere della Sera del 22 agosto 2017, che riprende L’Avvenire, ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale: è iniziata, già rilevata dall’ISTAT, una brusca inversione di tendenza della prospettiva di sopravvivenza della popolazione italiana. Ciò è drammatico non solo in sé, ma anche in quanto è il risultato, come ipotizzato dallo stesso Avvenire, giornale cattolico, della riduzione delle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale e dell’assistenza agli anziani.
E’ da rilevare che una riduzione della prospettiva di vita di una popolazione è un evento doloroso che storicamente ricorre in coincidenza di guerre o crisi sociali, politiche ed economiche di proporzioni e durata gigantesca. Un esempio per tutti, in tempi recenti: il crollo di quasi venti anni della prospettiva di vita della popolazione russa maschile nel periodo compreso, all’incirca, tra il 1980 e il 2000 -in seguito parzialmente recuperato- conseguente ai processi di disfacimento dell’URSS.
La cosa più paradossale è che, pur di fronte a questa drammatica ed avvilente riduzione della prospettiva di vita della nostra popolazione (ma dove è il progresso?), prosegue sfacciatamente l’aumento dell’età pensionabile. A tal proposito è opportuno evidenziare che la legge di “riforma” delle pensioni Monti-Fornero ha previsto che l’età pensionabile segua sempre l’andamento della prospettiva di vita solo se questo è positivo, ma non lo segua nel caso divenisse negativo: l’età pensionabile può solo aumentare e in nessun caso ridursi (ciò è stato sottaciuto). Si può pertanto facilmente intuire che i legislatori -su mandato della BCE e dei creditori europei, banchieri e capitalisti internazionali- sin da allora preconizzassero che la curva di incremento della prospettiva di vita della popolazione italiana avrebbe subito un’inversione negli anni successivi. Come chiamare tutto ciò se non una truffa premeditata? La questione più grave dell’aumento dell’età pensionabile -oltre al fatto di togliere il diritto al meritato riposo agli anziani, sottraendo anche alle famiglie il loro aiuto, ad esempio, nella cura dei nipoti- è il rischio catastrofico di essere espulsi dal lavoro ancor prima del raggiungimento dell’età della pensione. Molti posti di lavoro infatti oggi sono in bilico e le aziende fanno e faranno di tutto per liberarsi proprio dei lavoratori anziani, in quanto meno in salute e meno forti fisicamente, tecnicamente obsolescenti e in genere meglio pagati.

sabato 30 settembre 2017

L'Università popolare*- Antonio Gramsci

*Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 29 dicembre 1916.   https://albertosoave.files.wordpress.com
Vita di Gramsci:  https://quadernidelcarcere.wordpress.com/info/

   Abbiamo qui davanti il programma dell'Università popolare per il primo periodo 1916-17. Cinque corsi: tre dedicati alle scienze naturali, uno di letteratura italiana, uno di filosofia. Sei conferenze su argomenti vari: due sole di esse dànno, per il titolo, una tal quale assicurazione di serietà. Ci domandiamo, qualche volta, il perché a Torino non sia stato possibile il solidificarsi di un organismo per la divulgazione della cultura, il perché l'Università popolare sia rimasta quella misera cosa che è, e non sia riuscita ad imporsi all'attenzione, al rispetto, all'amore del pubblico, il perché essa non sia riuscita a formarsi un pubblico. La risposta non è facile, o è troppo facile. Problema di organizzazione, senza dubbio, e di criteri informativi. La miglior risposta dovrebbe consistere nel far qualcosa di meglio, nella dimostrazione concreta che si può far meglio e che è possibile radunare intorno ad un focolaio di cultura un pubblico, purché questo focolaio sia vivo e riscaldi davvero. A Torino, l'Università popolare è una fiamma fredda. Non è né università, né popolare. I suoi dirigenti sono dei dilettanti in fatto di organizzazione di cultura. Ciò che li fa operare è un blando e scialbo spirito di beneficienza, non un desiderio vivo e fecondo di contribuire all'elevamento spirituale della moltitudine attraverso l'insegnamento. Come negli istituti di volgare beneficenza, essi nella scuola distribuiscono delle sporte di viveri che riempiono lo stomaco, producono magari delle indigestioni allo stomaco, ma non lasciano una traccia, ma non hanno un seguito di nuova vita, di vita diversa. I dirigenti dell'Università popolare sanno che l'istituzione che essi guidano deve servire per una determinata categoria di persone, la quale non ha potuto seguire gli studi regolari nelle scuole. E basta. Non si preoccupano del come questa categoria di persone possa nel modo piú efficace essere accostata al mondo della conoscenza. Trovano negli istituti di cultura già esistenti un modello: lo ricalcano, lo peggiorano. Fanno presso a poco questo ragionamento: chi frequenta i corsi dell'Università popolare ha l'età e la formazione generale di chi frequenta le università pubbliche: dunque diamogli un surrogato di queste. E trascurano tutto il resto. Non pensano che l'università è la foce naturale di tutto un lavorio precedente: non pensano che lo studente quando arriva all'università è passato attraverso le esperienze delle scuole medie ed in queste ha disciplinato il suo spirito di ricerca, ha arginato col metodo le sue impulsività da dilettante, è divenuto, insomma, e si è scaltrito lentamente, tranquillamente, cadendo in errori e rialzandosene, ondeggiando e rimettendosi sulla via diritta. Non capiscono questi dirigenti che le nozioni, avulse da tutto questo lavorio individuale di ricerca, sono né piú né meno che dogmi, che verità assolute. Non capiscono che l'Università popolare, cosí come essi la guidano, si riduce ad un insegnamento teologico, a una rinnovazione della scuola gesuitica, in cui la conoscenza viene presentata come qualcosa di definitivo, di apoditticamente indiscutibile. 

   Ciò non si fa neppure nelle università pubbliche. Si è ormai persuasi che una verità è feconda solo quando si è fatto uno sforzo per conquistarla. Che essa non esiste in sé e per sé, ma è stata una conquista dello spirito, che in ogni singolo bisogna che si riproduca quello stato di ansia che ha attraversato lo studioso prima di raggiungerla. E pertanto gli insegnanti che sono maestri, dànno nell'insegnamento una grande importanza alla storia della loro materia. Questo ripresentare in atto agli ascoltatori la serie di sforzi, gli errori e le vittorie attraverso i quali sono passati gli uomini per raggiungere l'attuale conoscenza, è molto piú educativo che l'esposizione schematica di questa stessa conoscenza. Forma lo studioso, dà al suo spirito la elasticità del dubbio metodico che fa del dilettante l'uomo serio, che purifica la curiosità, volgarmente intesa, e la fa diventare stimolo sano e fecondo di sempre maggiore e perfetta conoscenza. Chi scrive queste note parla un po' anche per esperienza personale. Del suo garzonato universitario ricorda con piú intensità quei corsi, nei quali l'insegnante gli fece sentire il lavorío di ricerca attraverso i secoli per condurre a perfezione il metodo di ricerca. Per le scienze naturali, per esempio, tutto lo sforzo che è costato il liberare lo spirito degli uomini dai pregiudizi e dagli apriorismi divini,o filosofici per arrivare alla conclusione che le sorgenti d'acqua hanno la loro origine dalla precipitazione atmosferica e non dal mare. Per la filologia, come si sia arrivati al metodo storico attraverso i tentativi e gli sbagli dell'empirismo tradizionale, e come, per esempio, i criteri e le convinzioni che guidavano Francesco De Sanctis nello scrivere la sua storia della letteratura italiana, non fossero che delle verità venutesi affermando attraverso faticose esperienze e ricerche, che liberarono gli spiriti dalle scorie sentimentali e retoriche che avevano inquinato nel passato gli studi di letteratura. E cosí per le altre materie. Era questa la parte piú vitale dello studio: questo spirito ricreativo, che faceva assimilare i dati enciclopedici, che li fondeva in una fiamma ardente di nuova vita individuale. 

   L'insegnamento, svolto in tal modo, diventa un atto di liberazione. Esso ha il fascino di tutte le cose vitali. Esso deve specialmente affermare la sua efficacia nelle Università popolari, gli uditori delle quali mancano precisamente di quella formazione intellettuale che è necessaria per poter inquadrare in un tutto organizzato i singoli dati della ricerca. Per essi, specialmente, ciò che è piú efficace ed interessante è la storia della ricerca, la storia di questa enorme epopea dello spirito umano, che lentamente, pazientemente, tenacemente prende possesso della verità, conquista la verità. Come dall'errore si arrivi alla certezza scientifica. È il cammino che tutti devono percorrere. Mostrare come è stato percorso dagli altri è l'insegnamento piú fecondo di risultati. È, tra l'altro, una lezione di modestia, che evita il formarsi della noiosissima caterva di saputelli, di quelli che credono aver dato fondo all'universo quando la loro memoria felice è riuscita a incasellare nelle sue rubriche un certo numero di date e nozioni particolari. 

   Ma le Università popolari, come quella di Torino, amano meglio far tenere dei corsi inutili e ingombranti su «L'anima italiana nell'arte letteraria delle ultime generazioni», o delle lezioni su «La conflagrazione europea giudicata dal Vico», nei quali si bada piú alla lustra che all'efficacia, e la personcina pretenziosa del conferenziere soverchia l'opera modesta del maestro, che pure sa di parlare a degli incolti. 


giovedì 28 settembre 2017

La donna, la nuova morale sessuale e la prostituzione*- Joseph Roth**

* Viaggio in Russia, «JOSEPH ROTH WERKE».  
**Joseph_Roth è stato uno scrittore e giornalista austriaco.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/10/la-rivoluzione-delle-donne.html

«Frankfurter Zeitung», 1° dicembre 1926

Chi parla di turpe disordine dei costumi nella Russia sovietica è un calunniatore; chi nella Russia sovietica vede l’alba di una nuova morale sessuale è un gaio ottimista; e chi in questo paese combatte contro vecchie convenzioni con gli argomenti del buon Bebel, come per esempio la signora Kollontaj, è l’opposto del rivoluzionario – è una persona banale.

La presunta «scostumatezza» e la «nuova morale sessuale» si accontentano di ridurre l’amore all’unione igienicamente irreprensibile di due individui di sesso diverso, sessualmente istruiti attraverso lezioni scolastiche, filmati e opuscoli. Nella maggior parte dei casi l’unione sessuale non è preceduta da alcun «corteggiamento», da alcuna «seduzione», da alcun rapimento dell’anima. Perciò in Russia il peccato è noioso, come da noi la virtù. La natura, spogliata di ogni foglia di fico, prende direttamente possesso dei suoi diritti, perché l’uomo, orgoglioso com’è della recentissima scoperta di discendere dalla scimmia, adotta gli usi e i costumi dei mammiferi. Questo lo preserva sia dagli eccessi sia dalla bellezza, mantenendolo onesto e naturalmente virtuoso; così egli conserva la doppia pudicizia del barbaro che è anche assistito dalla consulenza medica, ha dalla sua la morale delle misure sanitarie e il decoro della prudenza, nonché la soddisfazione di aver adempiuto, con il proprio godimento, a un dovere igienico e sociale. Dal punto di vista del mondo ‘borghese’ tutto ciò è altamente morale. In Russia non esiste né la corruzione né l’abuso dei minorenni, perché tutti gli uomini obbediscono alla voce della natura, e quei minorenni che hanno la sensazione di non essere più tali, in tutta serietà, compresi come sono dei propri doveri sociali, si concedono spontaneamente. Le donne, non più corteggiate, perdono il loro fascino – non per la completa eguaglianza di fronte alla legge, ma per la loro accondiscendenza fondata su convinzioni politiche, per il poco tempo che dedicano al piacere e per tutti quei loro doveri sociali, per il lavoro incessante negli uffici, nelle fabbriche, nei laboratori artigiani, per l’instancabile attività pubblica in club, associazioni, assemblee e convegni. In un mondo nel quale la donna è diventata a tal segno «fattore pubblico» e nel quale sembra così felice di esserlo, non esiste, naturalmente, una cultura erotica. (E inoltre l’erotismo in Russia ha sempre avuto fra le masse un sapore un po’ grossolano, un che di utilitaristico-campagnolo). In Russia si comincia nel punto in cui da noi si sono fermati Bebel, la Grete Meisel-Hess e tutti gli scrittori di quel periodo che avevano le loro stesse idee riguardo alla letteratura amena.

mercoledì 27 settembre 2017

L'annullamento del debito nell'antichità*- Eric Toussaint**

*Da:  Rebelión  -  http://archivio.senzasoste.it  -  http://www.controappuntoblog.org       **Eric Toussaint (1) 
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/luomo-e-il-denaro-carlo-sini.html 


È fondamentale attraversare la cortina fumogena della storia raccontata dai creditori e ristabilire la verità storica. 

Annullamenti generalizzati del debito hanno avuto luogo ripetutamente nella storia.

Hammurabi, re di Babilonia, e gli annullamenti del debito

Il Codice di Hammurabi [nella foto un particolare] si trova nel Museo del Louvre di Parigi. In realtà il termine “codice” è inappropriato, perché Hammurabi ci ha tramandato piuttosto un insieme di regole e di giudizi sulle relazioni tra i poteri pubblici e i cittadini. Il regno di Hammurabi, “re” di Babilonia (situata nell’attuale Iraq), iniziò nel 1792 avanti Cristo e durò 42 anni. Quello che la maggior parte dei manuali di storia non dice è che Hammurabi, come altri governanti delle città-Stato della Mesopotamia, proclamò in varie occasioni un annullamento generale dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici, i loro alti funzionari e dignitari. Quello che  stato chiamato il Codice di Hammurabi fu                                                                                                    scritto probabilmente nel 1762 avanti Cristo. Il suo epilogo proclamava che 
                                          “il potente non può opprimere il debole, la giustizia deve proteggere la vedova e l’orfano (…) al fine di rendere giustizia agli oppressi”. 
Grazie alla decifrazione dei numerosi documenti scritti in caratteri cuneiformi, gli storici hanno trovato la traccia incontestabile di quattro annullamenti generali del debito durante il regno di Hammurabi (nel 1792, 1780, 1771 e 1762 A. C.).
All’epoca di Hammurabi, la vita economica, sociale e politica si organizzava intorno al tempio e al palazzo. Queste due istituzioni, molto legate, costituivano l’apparato dello Stato, l’equivalente dei nostri poteri pubblici di oggi, nei quali lavoravano numerosi artigiani e operai, senza dimenticare gli scriba. Tutti erano  alloggiati e nutriti dal tempio e dal palazzo. Ricevevano razioni di cibo che gli garantivano due pasti completi al giorno. I lavoratori e i dignitari del palazzo erano nutriti grazie all’attività di una classe contadina a cui i poteri pubblici fornivano (affittavano) le terre, gli strumenti di lavoro, gli animali da tiro, il bestiame, acqua per l’irrigazione. I contadini producevano in particolare orzo (il cereale di base), olio, frutta e legumi. Dopo il raccolto, i contadini dovevano consegnare una parte di questo allo Stato come quota per l’affitto. In caso di cattivi raccolti, accumulavano debiti. Oltre al lavoro nelle terre del tempio e del palazzo, i contadini  erano proprietari delle loro terre, della loro casa, delle loro greggi e degli strumenti da lavoro. Un’altra fonte di debiti dei contadini era costituita dai prestiti concessi a titolo privato da alti funzionari e dignitari al fine di arricchirsi e di appropriarsi dei beni dei contadini in caso di mancato pagamento di questi debiti. L’impossibilità nella quale si trovavano i contadini di pagare il debito poteva portare anche alla loro riduzione in schiavitù (anche membri della loro famiglia potevano essere ridotti in schiavitù per debiti). Al fine di garantire la pace sociale, in particolare evitando un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini, il potere annullava periodicamente tutti i debiti [2] e ripristinava i diritti dei contadini.

martedì 26 settembre 2017

domenica 24 settembre 2017

Dialettica*- Eric Weil**

*Da: E. Weil: Hegel (1956) in Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani  (https://www.facebook.com/maurizio.bosco.18)  **Eric_Weil è stato un filosofo tedesco.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/riflessioni-stefano-garroni.html



« Gli uomini di solito non dispongono della ragione e del linguaggio ragionevole, ma devono disporne per essere del tutto uomini. L'uomo naturale è un animale; l'uomo come vuole essere, come vuole che sia l'altro perché egli stesso lo riconosca come suo eguale, deve essere ragionevole. Quel che descrive la scienza è solo la materia alla quale bisogna ancora imporre una forma, e la definizione umana non è data perché si possa riconoscere l'uomo, ma affinché lo si possa realizzare »
(Eric Weil, Logica della filosofia)


"Questa è la cosiddetta dialettica. Dialettica è unicamente la realtà che comprende se stessa.

Misticismo? Lo si è detto spesso e lo si ripeterà sempre. La tentazione infatti è grande: basta considerare questa dialettica come un metodo, come un'astuzia del filosofo, un'invenzione, e subito si scopre il suo limitato valore rispetto ai metodi della scienza, della logica formale, dell'analisi attenta e prudente. Ma la dialettica non è un metodo, il mondo non è il suo oggetto: essa è il mondo nel presentarsi del discorso.

In rapporto al mondo l'uomo non è l'altro, uno straniero in cerca di un accesso impossibile; non è un fotografo che riprende ciò che gli sta sotto gli occhi. L'uomo è al centro della realtà, nella realtà, e parte della realtà stessa; e il filosofo, che vuole comprendere, sa che la visione della totalità non è altro che la totalità degli aspetti della realtà: egli sviluppa prendendoli sul serio, letteralmente, nel loro presentarsi - la contraddizione generata dai diversi aspetti della realtà esiste sino a quando si accettano al loro livello. Ma l'opposizione non è assoluta. Né la filosofia la annienta. Per la filosofia essa appare come opposizione di ciò che da ultimo è uno. C'è un presupposto comune, infatti, comune a tutte le posizioni: l'uomo può parlare della realtà e la realtà si manifesta nel discorso degli uomini.

Discorsi ragionevoli, almeno nel senso che non sono in contraddizione assoluta con la realtà: se non fosse così l'uomo non avrebbe più possibilità di inserirsi nella realtà - ne morirebbe e con la sua morte finirebbe l'umanità. Anche la realtà, dunque, è razionale. Non come l'uomo che, ragionevole (parzialmente), ne è inoltre cosciente, ma perché accessibile al pensiero e al discorso, perché genera il discorso, che è quel discorso dell'uomo reale.

La realtà ha una struttura: il reale è ragionevole, il ragionevole è reale. La dichiarazione hegeliana ha sorpreso: ma questa meraviglia è ancor più sorprendente, poiché nessuno ha mai dubitato della natura come insieme di leggi, della regolarità naturale, della descrizione ragionevole e razionale che può ordinare i fenomeni. L'uomo può parlare di ciò che è perché ne fa parte: ne rappresenta il linguaggio.

Ma la manifestazione non si manifesta in un discorso unico. L'uomo non è puro spirito, sopra o fuori della natura. Parla perché agisce e agisce perché parla. Agisce e pensa insomma perché dispone di una piccola parola: no.

L'uomo è nella natura. Ma non è natura come il minerale e l'animale: è scontento, insoddisfatto di ciò che è, e nel suo discorso parla di ciò che non è, di ciò che egli vuole introdurre nell'essere. In principio è la contraddizione.

La dialettica non è dunque altro che il movimento incessante tra il discorso che è azione e la rivelazione della realtà in questo discorso e in questa azione. La dialettica è questo movimento, non una costruzione dello spirito. Proprio perciò la dialettica finisce per sapere che essa è totalità non contraddittoria delle contraddizioni. Finisce per saperlo, e il suo sapere è il suo prodotto, il prodotto della storia reale dove l'uomo ha agito, parlato, trasformato il mondo e se stesso con la parola e con la sua opera. Il discorso nella sua storia, nel suo farsi reale, è pervenuto al punto in cui non soltanto comprende ogni cosa, ma comprende anche se stesso. L'uomo può svolgersi al passato, al cammino percorso, riconoscersi in ciò che nel mondo fu compiuto. La storia ha un senso. Non perché una Ragione, con la lettera maiuscola anteriore al tempo e alla storia ne avrebbe predeterminato senso e significato: è l'uomo invece che pensando e agendo col suo lavoro, ha dato un senso al mondo, sua attuale dimora. Solo l'uomo ha dato un senso a ciò che è stato prima di pervenire a quel punto di vista, dove il senso è divenuto comprensibile, ed è compreso infatti, e da dove tutto appare, com'è giusto e necessario, preparazione del risultato.
Questo è la storia: negatività e discorso, e realizzazione del senso del no della parola e dell'azione.

Comprendere significa comprendere ciò che è divenuto a partire dalla storia o meglio nella storia. La filosofia è innanzitutto comprensione del suo stesso divenire, del suo essere-divenuto".

sabato 23 settembre 2017

Antigone di Sofocle - Vittorio Cottafavi*

*Vittorio_Cottafavi è stato un regista e sceneggiatore italiano.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/08/tragedia-come-paideia-eva-cantarella.html



Le parole sono armi - Luciano Canfora (Da: http://salvatoreloleggio.blogspot.it)

Diceva Aristofane, e forse ci credeva, che molte signore ateniesi si erano dapprima coperte di vergogna, quindi suicidate, per il coinvolgente influsso esercitato sulla loro mente delle figure femminili messe in scena da Euripide. Queste figure, per esempio Fedra innamorata del figliastro, o Stenebea, moglie di Preto, ma presa d’amore per Bellerofonte, vengono designate da Aristofane, nello stesso contesto delle Rane, con la cruda e iniqua parola cara ad ogni Tartufo: “sgualdrine”. L’idea che Aristofane esprime, e i suoi spettatori condividono, è che il teatro sia il veicolo di una ideologia: “Il poeta deve nascondere il male, non metterlo in mostra né insegnarlo. Ai bambini fa lezione il maestro, agli adulti i poeti”.

Questa è l’idea che gli ateniesi hanno del teatro e della sua implicazione politica ed esistenziale. Politica, anche: non a caso dalla più antica erudizione è stato usuale cercare di cogliere e spiegare i riferimenti molteplici, le allusioni, contenuti nelle tragedie e nelle commedie, in quanto appunto suprema forma di pedagogia collettiva. Non a caso su questo teatro veniva esercitata una censura, e talvolta una esplicita repressione politica. “Non daremo il coro a chiunque”, ammonisce l’interlocutore ateniese nelle Leggi di Platone.

Victor Ehrenberg in un saggio assai noto, Sofocle e Pericle, apparso nel 1954, sostenne che l’Antigone di Sofocle rappresenta la rivendicazione dei valori umani in antitesi con le leggi positive dello Stato (di ogni Stato, parrebbe di capire). Ehremberg si poneva criticamente di fronte a un grandissimo interprete ottocentesco dell’Antigone, Hegel, il quale nelle Lezioni di estetica aveva visto nello scontro tra Antigone e il tiranno Creonte l’espressione della polarità tra la famiglia e lo Stato.

Per chi lo ignori non è male ricordare che Antigone pullula di dibattiti politici: ad esempio quello tra Emone e Creonte, tutti centrati sui temi vitali della comunità (il potere personale, il controllo popolare, il consenso conformistico e coatto e così via). I cercatori della poesia “pura” hanno sempre arricciato il naso dinanzi a questo genere di interpretazioni. Ignari per lo più della natura intimamente e strutturalmente politica del teatro ateniese, fraintendono un teatro il cui strumento erano appunto le maschere prototipiche della tradizione mitologica.

Una messinscena dell’Antigone promossa da un gruppo femminista tedesco fu vietata subito dopo Stammhein (1977) [il riferimento è alla RAF e alla morte in carcere dei componenti del gruppo Baader Meinhof ]. Il divieto della sepoltura che è al centro della tragedia sofoclea si offriva spontaneamente come parallelo della più oscura e tragica vicenda degli “anni di piombo”. Il censore governativo ragionò alla stessa maniera del gruppo femminista, ma con intendimento opposto.

Non riesco perciò davvero a capire il chiasso ostile che si è voluto fare intorno all’Antigone di Rossana Rossanda. Forse è tutto dovuto a una scarsa cultura storico-letteraria. Ogni volta che questa moderna studiosa del moderno fenomeno eversivo ricorre alla figura di Antigone – anni fa con l’omonima rivista, ora con l’introduzione alla tragedia – si levano proteste a misurare il misfatto di lesa Antigone. Non sanno, come sapevano invece gli ateniesi, che le parole dette dalle scena erano “armi”.