mercoledì 8 marzo 2017

La giornata internazionale delle donne*- Aleksandra Kollontaj** 

*Tradotto da www.marxists.org. Prima pubblicazione: Mezhdunarodnyi den' rabotnitz (International Women's Day), Moscow 1920.      http://www.antiper.org/  
**(San Pietroburgo, 31 marzo 1872 – Mosca, 9 marzo 1952), è stata una rivoluzionaria russa, la prima donna nella storia che abbia avuto l'incarico di ministro e di ambasciatrice. 



 Una celebrazione militante 

La Giornata delle Donne (o Giornata delle donne lavoratrici) é una giornata di solidarietà internazionale e un giorno per ricordare la resistenza e l’organizzazione delle donne proletarie.
Ma questa non è una giornata speciale solo per le donne. L’8 marzo è una data storica e memorabile per gli operai e i contadini, russi e di tutto il mondo. Nel 1917, in questo giorno prese avvio la grande Rivoluzione di Febbraio [1]. Furono le operaie di Pietrogrado ad iniziare questa Rivoluzione; furono esse che decisero di innalzare la bandiera dell’opposizione allo zar e ai suoi sostenitori. E così questo giorno, per noi, è una doppia celebrazione.
Ma se questa è una festa per tutto il proletariato perché la chiamano Giornata della donna? Perché teniamo incontri e celebrazioni dedicate in modo particolare alle operaie e alle contadine? Non può questo, forse, offuscare l’unità e la solidarietà della classe lavoratrice?
Per rispondere a queste domande dobbiamo fare un passo indietro. A come e perché fu organizzata la Giornata della donna.

 Come e perché è stata organizzata la giornata della donna?

Non molto tempo fa, in effetti circa dieci anni fa, la questione dell’uguaglianza della donna e la questione della sua partecipazione al governo accanto agli uomini erano fortemente dibattute. La classe operaia in tutte le nazioni capitalistiche lottava per i diritti delle lavoratrici: la borghesia non voleva accettare queste rivendicazioni. Non era nel suo interesse rafforzare il voto della classe operaia nel parlamento; e in tutti i paesi i borghesi ostacolarono il passaggio di leggi che davano più diritti alle lavoratrici.
I socialisti del Nord America premevano sulla propria rivendicazione del voto con particolare insistenza.
Il 28 febbraio 1909 le donne socialiste degli Stati Uniti organizzarono grandi manifestazioni e incontri in tutto il paese, rivendicando i diritti politici per le donne lavoratrici. Questa fu la prima “Giornata della donna”. L’iniziativa per l’organizzazione di questa giornata spetta quindi alle operaie d’America.
Nel 1910 alla Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Operaie, Clara Zetkin portò avanti la proposta di organizzare una Giornata internazionale delle donne lavoratrici. La conferenza decise che ogni anno, in ogni paese, si sarebbe celebrata nello stesso giorno, una “Giornata della Donna” sotto lo slogan “Il voto alle donne unirà la nostra forza nella lotta per il socialismo”.
In quegli anni la richiesta di rendere il parlamento più democratico allargando appunto il suffragio ed estendendolo alle donne era una questione vitale. Precedentemente alla prima guerra mondiale gli operai avevano il diritto di voto in tutte le nazioni borghesi ad eccezione della Russia. Solo le donne, come i malati di mente, rimanevano senza questo diritto. Allo stesso tempo però, la dura realtà del capitalismo esigeva che la donna partecipasse all’economia della nazione. Ogni anno c’era un incremento nel numero di donne che lavoravano nelle fabbriche e nei negozi, o come domestiche o donne a ore. Queste donne lavoravano accanto agli uomini e producevano con le loro mani la ricchezza del paese. Ma restavano senza diritto di voto.
Ma negli ultimi anni prima della guerra l’aumento dei prezzi spinse anche le casalinghe più pacifiche ad interessarsi delle questioni politiche ed a protestare ad voce alta contro la politica di saccheggio della borghesia. Le “rivolte delle casalinghe” divennero sempre più frequenti, infiammandosi in momenti diversi in Austria, Inghilterra, Francia e Germania.
Le lavoratrici compresero che non era sufficiente fracassare i banchetti al mercato o minacciare qualche commerciante: capirono che queste azioni non abbassavano il costo della vita. Bisognava cambiare la politica del governo. E per realizzare questo, la classe lavoratrice doveva ottenere che fosse esteso il diritto di voto.
Fu deciso di istituire una Giornata delle donne in ogni nazione come forma di lotta per il diritto di voto. Questa giornata doveva essere una giornata di solidarietà internazionale nella lotta per obiettivi comuni e per misurare la forza delle donne lavoratrici organizzate sotto la bandiera del socialismo.

L'evoluzione della donna - Maria Turchetto

domenica 5 marzo 2017

Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista*- Enzo Pellegrin


Si sente spesso parlare della "proletarizzazione del ceto medio" come fenomeno sociale dell'attuale epoca economica. Recentemente, sull'Espresso, discorrendo dei recenti tumulti romani di tassisti e ambulanti, l'editorialista Gilioli aveva modo di notare come "con un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.[…] i conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. […] Poi però accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo per portare a casa un reddito. Ci saranno soluzioni più soddisfacenti per i consumatori di quanto siamo noi, a un costo minore. Nessuno, fuori, ci rimpiangerà."

Viene spontanea una riflessione: il progresso tecnologico non ha un effetto neutro: dipende dalle mani e dai cervelli che lo possiedono.

Personalmente non vedo affatto negativamente un mondo in cui un certo tipo di lavoro divenga obsoleto e vi siano dei mezzi tecnici per evitarlo. Se la produzione di ricchezza fosse collettivamente determinata, distribuita a ciascuno in base ai propri bisogni ed alle proprie aspirazioni e finalizzata alle necessità reali della collettività e dell'ambiente, non avrei nulla in contrario verso i mezzi che rendono obsoleta la fatica per produrla. In queste condizioni 
tutti ne avremmo un equo vantaggio. Lavoreremmo di meno per produrre un valore a vantaggio di tutti.


Perché ci si dovrebbe opporre al fatto che l'ente collettivo trasporti i passeggeri con una navetta ad intelligenza artificiale a tutte le ore anziché utilizzando la fatica di un'autista? Se quell'autista, per questo, non perde un lavoro, ma ci guadagna un vantaggio, potendo impiegare diversamente il proprio tempo ed il proprio lavoro altrove a vantaggio proprio e del collettivo, perché essere contrari?

Nel mondo nostro, all'interno del capitalismo globalizzato, 
non è però così.

Ogni innovazione tecnologica è - nel nostro sistema economico - finalizzata a produrre il maggior profitto per il capitalista privato che la promuove e ne sfrutta i vantaggi.

I vantaggi delle innovazioni tecnologiche consistono spesso nella possibilità di diminuire la quantità di lavoro umano necessaria per produrre una data quantità di ricchezza.

Ma non sempre.

sabato 4 marzo 2017

L'ultimo contadino (The Last Farmer) - Giuliano Girelli

L'agricoltura contadina produce cibo per oltre il 70% della popolazione del pianeta, mentre l'agricoltura industriale non provvede che al 30%; ciò nonostante 2.8 miliardi di persone nel mondo vivono con meno di 2 dollari al giorno, la maggioranza di queste persone sono contadini o ex contadini che ora vivono nelle baraccopoli di qualche grande città. 
Questo documentario parla di loro, della globalizzazione e dunque anche di noi. 

 Documentario sui danni della finanza al "3° mondo"...

venerdì 3 marzo 2017

ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO*- Stefano Garroni

 *Brevi passaggi dall’intervento nell’Incontro-Convegno tenutosi alla Sapienza di Roma il 18/03/99 su LE ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO di T. EAGLETON – A.Ciattini, A.Simonicca, A.Colajanni, N.Gasbarro, S.Garroni.   https://www.facebook.com/groups/276130642477707/?fref=ts  
        
 [...]C'è una sola illusione: quella di esistere. Il post-modernismo non esiste.

 [...]Immaginate un grande pittore che faccia un quadro, dopo un po' di anni questo quadro viene stampato, riprodotto e venduto al supermercato. Questo momento è il post-modernismo.

 [...]Colajanni descrive certe vicende delle università. Ma collega Colajanni questo è proprio l'emarginazione, la marginalità! Ha ragione Eagleton, non è che io non sono marginale perché manovro i dollari, è che la cultura è stata resa marginale da un sistema di potere che è sempre di più concentrato in poche mani che sono volgarmente le multinazionali che hanno i soldi da dare ai professori universitari, e questi fanno i giochetti tra di loro, ma non hanno più nessun peso effettivo.  

 Questo è il punto reale. Si scopre una certa marginalità nel post-modernismo? ma certo, ma si tratta di quegli strati piccolo o medio borghesi che hanno creduto alla possibilità di un nuovo grande New Deal, di un nuovo grande momento del capitalismo che assicurasse a tutti, cioè a loro, ricchezza, benessere, libertà, potere: non è successo. Non è successo. Recentemente è uscito un articolo di una studiosa americana, negli Stati Uniti, in cui giustamente si sottolinea che al di là dell'asprezza degli scontri nel ‘68, negli Stati Uniti in particolare, gli obiettivi di lotta erano quelli di un capitalismo democratico. Un largo strato di intellettuali ha creduto di poter accedere finalmente al potere. Non ce l’ha fatta. Il grande crollo è questo, la grande disillusione di non potere avere spazio nella società dei padroni. E non ce l'hanno infatti.

 [...]Noi abbiamo, con una profondità notevolissima, con una ricchezza di temi enorme, con un'attualità formidabile - questa si attuale, penso a Kierkegaard, penso Nietzsche, per esempio, altro che Vattimo questa roba qua -, abbiamo una tematizzazione profondissima, ricca, densa, di tutti i problemi che noi stiamo vivendo. Però noi li stiamo vivendo a livello del supermercato, della riproduzione di supermercato. Lì venivano vissuti in maniera molto seria, molto profonda.

 [...]Nel ‘68, i colleghi lo ricorderanno, era un luogo comune la critica al soggetto cartesiano, perché è un soggetto autoritario, unilaterale, e implica la dittatura della ragione. Questo significa non aver letto minimamente, per esempio, il discorso sul metodo. Dove la dimensione è completamente un'altra. Non aver riflettuto su che cosa vuol dire l'arbitrarismo teologico di Cartesio. Cartesio in definitiva dice: “A noi è sicuramente evidente che uno più uno fa due, non c'è dubbio. Perché è evidente? Perché così Dio ha voluto. Ma avrebbe potuto volere altrimenti”. Il che vuol dire costruire il mondo su una situazione di arbitrio. Con buona pace della dittatura della ragione, dell'unilaterale ragione che tutto soffoca. Non è vero! 

 Tutto il pensiero moderno nasce con il senso fortissimo del dramma, dell'ambiguità. Giustamente Colajanni ricordava quel libro che mette in questione non la post-modernità, ma la modernità. Ha ragione. In che senso? ovviamente, nel senso che la post-modernità, le fesserie che l'industria culturale ci ammannisce, sulla base di Vattimo e di tanti altri imbroglioni del genere (non esiste). Per esempio se noi andiamo effettivamente a studiare le cose, ma dove sta questa cattiva ragione che tutto imprigiona? Sta in Diderot? In Hume? In Locke? Dove sta? Tutta la cultura moderna è piena del senso del dramma, dell'ambiguità, della complessità. Pensate a Kant. Là dove la ragione è un progetto, è un qualcosa da costruire, è un impegno morale. Se la ragione è un impegno morale vuol dire che non è nei fatti. È un impresa in cui io mi butto e devo rischiare: vinco, perdo, non so.

 [...] Alt! il post-modernismo è una falsificazione totale. Certo se noi andiamo alle cose serie, per esempio andiamo a Nietzsche, per esempio andiamo a Kierkegaard, per esempio andiamo a Schopenhauer, cogliamo qualche cosa di molto importante, che sono quelle ambiguità, quelle contraddizioni grandi che si nascondono nella società moderna. Anche i suoi momenti più grandi di conquista di libertà: la democrazia, il parlamentarismo. Beh, le analisi di Nietzsche, di Schopenhauer, sono formidabili. C'è un anticipo netto del dramma del totalitarismo della società democratica, dell'appiattimento della personalità che la società democratica comporta. Uno dei cui effetti è il post-modernismo. Solo in un uomo diventato misero, piatto, il post-modernismo può valere come atteggiamento culturale. Badate, voglio dire esattamente questo: ha senso leggere Kierkegaard, ha senso leggere Nietzsche, ha senso leggere Schopenhauer. Io non condivido le loro posizioni, ma qui imparo. Non ha senso leggere Derrida, Vattimo e quest'altra roba qua. Non ha nessun senso, non imparo, non capisco meglio il mondo, non acquisto una nuova problematicità. Qui ha ragione Eagleton ed è molto bella la descrizione che faceva Colajanni, perché ha perfettamente ragione. 

 Quante cose sono accennate, per esempio in questo libro è nettamente presente Wittgenstein. È nettamente presente un certo modo di leggere Hegel, Kant, mediato dalla tradizione empiristica che è di grandissimo interesse. Proprio contro quella compresenza della falsa sinistra, o della sinistra chiusa nel dogma. È presente Wittgenstein in Eagleton. Io non sono antropologo quindi non so fare il paragone che faceva Colajanni, ma certo che questa enfasi sull’ “immaginiamo”, io la leggo come un diretto chiamare in causa Wittgenstein appunto, ed è - mi soffermo su questo per un motivo, non sto facendo arena accademica -, wittegensteiniano il fatto anche che questo sottolineare i momenti immaginativi “immaginiamo che …”, non ha nulla a che fare con il post-moderno. Questo “immaginiamo che …”, serve poi a tornare nella realtà per capirla meglio, e Wittgenstein lo sottolinea molte volte. I giochi linguistici che io immagino, invento, hanno la funzione di farmi capire meglio il gioco linguistico reale, della lingua che effettivamente parliamo. Questo non è post-moderno. Questo è un uso dell'immaginazione per allargare gli strumenti di cui posso disporre per capire ciò che c'è. [...] 

giovedì 2 marzo 2017

L'etica degli Stoici*






Ogni essere vivente fin dalla nascita tende spontaneamente alla propria conservazione, scegliendo le cose consone alla propria natura: questo è il punto di partenza dell'etica stoica, che riconosce però all'uomo la capacità di approfondire questo livello istintivo grazie all'opera del logos. Questo è in grado di riconoscere l'ordine dell'universo e di perseguire quindi il bene supremo nel volontario adeguamento al fato. Vivere secondo natura significa in conclusione per l'uomo vivere secondo il logos, sopprimendo tutte le passioni (piacere e dolore, desiderio e paura) che turbano l'esercizio della ragione. Tutto ciò che non tocca questa razionalità è «indifferente»: vita e morte, salute e malattia, ricchezza e povertà; laddove possibile tuttavia le cose consone alla propria natura vengono preferite, e sono anzi il presupposto di quelle azioni «convenienti» che costituiscono la normale vita sociale degli uomini. 


  

Il primo impulso

L'etica stoica condivide con molte tendenze dell'etica antica sia uno stretto legame con il problema della felicità, sia una fondazione (per lo meno nella formulazione datale da Crisippo) nell'osservazione della realtà naturale. Il punto di partenza consiste infatti nell'osservare quale sia il «primo impulso» (próte hormé) nella natura dell'uomo e dei viventi in generale. Già le testimonianze evidenziano come questo punto di partenza sia determinato in polemica con Epicuro:
Affermano che il primo impulso per l'animale è tendere a conservare sé stesso, perché la natura fa sì che l'animale si appropri di sé fin dal principio (oikeióuses autó tes phýseos ap'archés), come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, dove dice che il «primo proprio» (próton oikéion) per ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di essa. Infatti non sarebbe verosimile né che la natura facesse alienare un animale da sé, né che dopo averlo fatto non lo facesse né alienare né appropriare. Resta dunque da dire che dopo averlo costituito lo faccia appropriare a sé stesso: così infatti respinge le cose dannose e cerca quelle appropriate.
Ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo impulso degli animali vada verso il piacere, mostrano che è falso. Affermano infatti che il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.
In nulla, affermano, la natura differisce riguardo alle piante e riguardo agli animali, perché pur senza impulso e sensazione amministra anche le prime, e d'altra parte in noi alcune cose avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali in più si aggiunge l'impulso, servendosi di esso vanno verso le cose proprie. Dunque per questi vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall'impulso, mentre, dato che il logos è dato agli esseri razionali per una più perfetta costituzione, vivere secondo natura diventa per essi esattamente vivere secondo logos. Infatti questo si aggiunge come artefice dell'impulso (SVF III.178).

martedì 28 febbraio 2017

Trotzky, il profeta ricordato* - Stefano Paterna

*Isaac Deutscher, Il Profeta esiliato,Milano, PGreco Edizioni, 2011, p. 436.  https://www.lacittafutura.it/ 



Ci fu un tempo nel quale alle labbra del proletariato internazionale perveniva il medesimo grido: “Viva Lenin! Viva Trotzky!”. Negli anni che vanno dall’Ottobre rosso fino alla fine degli anni ’20, ma anche dopo, fino al suo assassinio in Messico, il nome di Lev Davidovic Bronstein detto Trotzky è rimasto il sinonimo della Rivoluzione in Russia e nel mondo.

La riedizione nel 2011 della bellissima trilogia biografica di Isaac Deutscher sul grande rivoluzionario (“Il profeta armato”, “Il profeta disarmato” e “Il profeta esiliato”), da parte della casa editrice PGreco, dà modo di apprezzare a pieno lo spessore del personaggio, la sua dimensione umana, la vastità della tragedia che non è solo personale, ma di un’intera epoca e ha segnato in modo profondo il movimento comunista e il pensiero marxista.

Il comunismo post 1991, più che mai in occasione del centenario della Rivoluzione del 1917, non può permettersi ancora abiure e dimenticanze: se vuole ridestarsi al ventunesimo secolo ha bisogno dell’intera sua storia e di tutta la ricchezza e varietà del marxismo (o più correttamente dei marxismi), come già ribadito in altra occasione su questo stesso giornale (a proposito di Bordiga). Di questa ricchezza e varietà è parte importantissima l’esperienza politica e teorica di Lev Trotzky, fondatore dell’Armata Rossa, presidente del Soviet di Pietrogrado nel corso della prima Rivoluzione del 1905 e poi di nuovo nel 1917, commissario agli Affari Esteri della Repubblica Sovietica e firmatario del Trattato di Brest-Litovsk che, per quanto riguarda la Russia, pose fine alla Prima Guerra Mondiale. Di fatto, al di là delle opinioni e delle preferenze ideologiche, l’esponente bolscevico più importante e maggiormente coinvolto nella Rivoluzione di Ottobre, dopo Lenin.

Certo, a partire dalla metà degli anni ’20 la marea montante dello stalinismo lo sommergerà di calunnie e di accuse le più fantasiose e aberranti fino a dipingerlo prima come un agente di Hitler e del Giappone imperiale e poi dell’imperialismo Usa. Tuttavia della sua proposta politica (industrializzazione accelerata e collettivizzazione dell’agricoltura) prenderà nota lo stesso Stalin che parzialmente e brutalmente la applicherà a partire dal 1929. Il medesimo Stalin che rimarrà ossessionato dalla figura dell’esule (pure ormai privo di qualsiasi potere rilevante) fino al 1940, quando lo farà uccidere da un sicario del NKVD, Ramon Mercader.

Di tutto ciò e di moltissimo altro scrive diffusamente Isaac Deutscher nella sua imponente trilogia pubblicata tra il 1954 e il 1963. Deutscher (1907-1967) è stato sì un militante del Partito Comunista Polacco e della sua corrente antistalinista, ma da storico ha dato vita nella biografia di Trotzky a un’opera assolutamente equilibrata che non nasconde le sue simpatie e le sue avversioni, ma le fonda sulla robustezza dei fatti. Così, non viene occultata la funzione progressiva dello stalinismo a partire appunto dalla scelta di recidere il cordone ombelicale con la Russia arcaica e contadina, anche se quel taglio suggerito dalla Opposizione unificata di Trotzky, Zinovev e Kamenev, fu applicato con una tale violenza e con i conseguenti gravi squilibri che i tre oppositori di certo non auspicavano; e non vengono dimenticati gli errori tattici che Trotzky commise a partire dalla morte di Lenin in poi non ponendo immediatamente e sino in fondo la questione dell’esautorazione del georgiano dal ruolo di segretario generale del partito come gli chiese di fare lo stesso Lenin poco prima di morire oppure con la stessa fondazione della Quarta Internazionale, creatura nata morta e di fatto sterile, così come gran parte delle sette trotzkiste avvicendatesi negli anni seguenti alla morte del fondatore. Di tutt’altra pasta erano invece i trotzkisti sterminati alla fine degli anni ’30 in Urss e che andavano alla morte cantando l’Internazionale.

lunedì 27 febbraio 2017

Uscire dall’Euro?*- Gennaro Zezza**

*Questa è la prima bozza di un documento divulgativo che mi è stato richiesto.      http://gennaro.zezza.it/  
**Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale

  
Wynne Godley, nel 1992, scriveva a proposito del progetto dell’Euro:
la creazione di una moneta unica porterà alla fine delle sovranità nazionali e alla capacità di agire in modo indipendente su questioni di rilievo…. La capacità di stampare moneta, e per il governo di finanziarsi presso la propria Banca centrale, è l’aspetto più importante dell’indipendenza nazionale. … Se vi si rinuncia, ci si trasforma in una autorità locale, o una colonia. … e quando arriva una crisi, se il Paese ha perso la capacità di svalutare e non può beneficiare di trasferimenti fiscali a compensazione, non c’è nulla che possa fermarne il declino, fino all’emigrazione come unica alternativa alla povertà”(1)

Abbiamo voluto l’euro, abbiamo avuto il declino, e ora l’emigrazione e l’aumento della povertà. E il sottoporre le nostre leggi di bilancio alla Commissione Europea è solo una delle dimostrazioni del fatto che il Governo è diventato una “autorità locale”.

Ma allora perché abbiamo adottato l’Euro?
Per lo stesso motivo per cui molti vogliono rimanerci! Era già chiaro, nei dibattiti parlamentari che hanno preceduto la firma dei Trattati, che rinunciare alla politica dei cambi e alla politica monetaria comportava una compressione dei salari. La decisione di entrare nell’Euro è stata politica, motivata dal desiderio di conribuire a scrivere le regole della “casa comune europea”. Questo desiderio si è rivelato una pia illusione, perché nonostante il peso economico dell’Italia, l’evoluzione delle regole dell’Unione europea e della gestione dell’Euro hanno tutelato principalmente i gruppi industriali e finanziari del Nord, con scarsi interventi di bilanciamento. 

domenica 26 febbraio 2017

Perché distruggere la scuola pubblica?*- Paolo Di Remigio

*Da:     http://www.badiale-tringali.it/
Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sono-utili-le-prove-invalsi-giorgio.html


La vicenda della scuola pubblica italiana va inserita nella vicenda della repubblica: l'Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, dunque a sovranità più o meno strettamente limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Negli anni '90 la sua classe dirigente, abituata a un'ampiezza di movimento non più compatibile con i progetti neoconservatori statunitensi di impero globale, è stata liquidata e sostituita da avventizi alle dirette dipendenze dei poteri globali, che hanno occupato tutti i posti di gestione, dallo Stato alle banche, dai partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti. Compito di questi proconsoli era la rinuncia a ogni sovranità dello Stato e l'attuazione di politiche economiche neoliberali; di qui l'adesione cieca alle più folli geopolitiche anglo-americane e la partecipazione autolesionistica al progetto europeo. Nel nome delle regole europee è stata smantellata l'economia mista; le imprese pubbliche che avevano portato l'Italia a diventare una delle maggiore potenze industriali sono state privatizzate; è stata ridotta la spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono diventati sempre più inefficienti e costosi per i cittadini; le pensioni così ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza privata, le file d'attesa agli ospedali così lunghe da costringere a ricorrere alla sanità privata oppure a rinunciare a curarsi, la scuola pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva di un'offerta di istruzione privata.

Lo Stato minimo implica la scuola minima. La scuola minima è quella che include, diverte, nonistruisce. Se istruisse non ci sarebbe spazio per la scuola privata e questo offende il primo articolo di fede dell'ideologia neoliberale: la superiore efficienza dell'impresa privata rispetto all'impresa pubblica. Modello delle politiche scolastiche europee è diventato così il sistema educativo anglosassone che combina una scuola pubblica gratuita, ma degradata al punto da dover disporre i 'metal detector' per arginare le violenze, con una scuola privata, che promette facile accesso al mondo del lavoro, ma costosa, per frequentare la quale ci si può indebitare per tutta la vita – un sistema fallimentare a parere unanime, denunciato ultimamente dal primo ministro May e dal presidente Trump; un sistema che non può funzionare perché la scuola privata su cui poggia trasforma in cliente l'alunno, gli dà dunque una prevalenza sull'insegnante che rende improponibile la severità e la fatica dell'imparare; un sistema che però consente un imponente giro d'affari: solo se la scuola pubblica diventa un ospizio, può nascere una domanda solvente di istruzione qualificata, cioè genitori disposti a pagarla per i loro figli; solo questa domanda può sostenere un'offerta di istruzione qualificata, cioè una scuola privata che non sia più soltanto confessionale o parassitaria della scuola pubblica, ma che costituisca il centro nevralgico del sistema di istruzione.

sabato 25 febbraio 2017

Su: Europa e Globalizzazione*- Cristina Re**

*Intervento di Cristina Re, studentessa all'Università di Economia di Bologna, in un incontro avvenuto nella stessa con relatori Romano Prodi e il professor Emiliano Brancaccio.   https://www.facebook.com/rethinkingeconomicsbologna/videos/1587848531231318/ 

"Salve professore,

Sono Cristina di rethink economics_bologna/ e la ringrazio per aver accettato il nostro invito. Detto ciò, però, questo è l'unico ringraziamento che mi sento di farle. Mi permetta di rubarle due minuti.

Le parlo come componente di quella che viene definita "Generazione Erasmus". Eccola qui, la generazione Erasmus: una generazione nata e cresciuta all'interno dell'Unione Europea ed educata con la favola di un'Europa di cooperazione e obiettivi comuni, di uno spazio in cui viaggiare liberamente ed educarsi alla diversità. Un luogo di pace, prosperità e libertà.

La favola della nuova generazione Europea di studenti colti, aperti e con alta mobilità si scontra però con la realtà, ossia con la generazione dei disoccupati e dei lavoratori poveri. Infatti, solo l'1% degli studenti italiani partecipa a progetti di mobilità, mentre gli altri si trovano in situazioni di precarietà o disoccupazione. La disoccupazione giovanile nel 2017 è arrivata a superare il 40% e coloro che trovano lavoro sono costretti ad accettare orari e salari da fame con contratti a termine o retribuiti tramite voucher. In tantissimi sono costretti ad emigrare; alcuni svolgono attività di ricerca qui sotto finanziata altri sono costretti a lavori non qualificati e sottopagati, nonostante l'alto livello d'istruzione.

Il futuro dei giovani italiani è un futuro grigio e di cui lo Stato ha deciso di non farsi carico. Siamo una generazione abbandonata dalle istituzioni e, certo, non sarà tutta colpa dell'Unione europea, ma sicuramente per capire come migliorare bisogna prima individuare le colpe ed i colpevoli. L'italia ha scelto di condividere e mettere in atto lo smantellamento dello stato sociale: ha tagliato educazione, istruzione, protezioni sociali, investimenti industriali, ecc. Una situazione di cui nessuno vuole farsi responsabile ma che è strettamente collegata con l'adesione dell'Italia alle politiche neoliberiste.

Professore, lei, il 18 gennaio ha rilasciato un'intervista al quotidiano.net/ in cui dice "la mia Europa è morta. Ma spero che la crisi la svegli. Ora possiamo solo aggiungere: preghiamo"

Beh, troppo semplice così.

Mi dispiace ma mi rifiuto di vivere in un paese che soffre di deficit di memoria. Che trasforma i carnefici in vittime e i colpevoli in eroi.
Non possiamo non dimenticare che lei, come presidente dell'IRI ha svenduto il patrimonio economico italiano a società private.
Lei partecipò in prima persona alla nascita dell'euro, prima come Presidente del Consiglio e poi come Presidente della commissione europea.

Lei non si è battuto per cambiare i criteri scellerati del trattato di Maastricht, nei quali l'Italia non rientrava, ma promise riforme future. Da quel peccato originale è succeduto un vortice di privatizzazione, tagli al welfare, sottomissione ai diktat franco- tedeschi, attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori con l'unico obiettivo di ridurre il nostro debito pubblico, rientrare nei parametri di Maastricht e renderci "competitivi". Fu proprio durante il suo governo che venne approvato il pacchetto Treu che diede inizio al fenomeno della precarietà in Italia.

Durante il suo secondo mandato da Presidente del consiglio, poi, fu lei a firmare il trattato di Lisbona che di fatto era uguale alla Costituzione europea bocciata nel 2005 da francesi e olandesi.

Mi dispiace ma non può dire che questa non è la sua Europa. Questa è proprio la sua Europa.
Lei ha svenduto il nostro futuro e in cambio di cosa? Ecco cosa abbiamo ottenuto: la libertà di andare all'estero a fare i camerieri o di vivere una vita di precarietà e misera. Una vita che ha condotto molte persone alla disperazione ed alcuni anche al suicidio.

Adesso, non le chiedo, come fa qualcuno, di formare un nuovo partito o ricandidarsi per riparare alla situazione. No, quello spetta a noi.
Però le chiedo, come minimo, che riconosca le sue responsabilità e i suoi errori; e che magari ci chieda anche scusa."


Genitori in difficoltà nel tempo della crisi - Silvia Vegetti Finzi*

*Silvia_Vegetti_Finzi è una psicologa italiana.



Al termine dell’adolescenza, quando si tratta di scegliere la facoltà universitaria o il lavoro, di restare o andare altrove, viene il momento in cui i ragazzi si fanno carico della loro vita: puntano lo sguardo sul futuro, calcolano le risorse e rischiano il domani. Spesso i genitori spaventati, incapaci di attendere, li subissano di consigli, previsioni, ammonizioni, sino a prendere il loro posto, sino a sostituirli. Agiscono indubbiamente per il loro bene ma in tal modo li rendono dipendenti e passivi e telecomandandoli tarpano le loro ali. Apparentemente può far comodo ma vivere nel futuro degli altri, nel loro orizzonte di aspettative, depaupera le motivazioni e impedisce ai giovani di scorgere quanto hanno in comune tra loro, come il loro destino sia condiviso dai coetanei e come il vero soggetto di una generazione sia il “Noi” non l’”Io”. Non sanno che da una crisi epocale ci si salva tutti o nessuno e procedono pertanto in ordine sparso, senza elaborare una narrazione collettiva, un romanzo corale al quale riconoscersi. In una lettera aperta scritta da un gruppo di ventenni al presidente del consiglio e pubblicata sul Corriere della sera si legge: “Siamo colposamente sospesi tra il vuoto di aspettative e il miraggio di sicurezze. Senza la possibilità di metterci in gioco con le stesse garanzie dei nostri padri e dei nostri nonni. La nostra voce è stata marginalizzata e resa afona anche per via di nostre comprovate responsabilità. Abbiamo subito le decisioni e consentito che la nostra indifferenza lasciasse ampi spazi di manovra a chi non ha avuto a cuore le nostre sorti...” 

venerdì 24 febbraio 2017

A che serve il muro?*- Adriano Voltolin**

**Società di Psicoanalisi Critica   http://www.societadipsicoanalisicritica.it/ 


Come ha messo bene in rilievo Aldo Giannuli (http://www.aldogiannuli.it/psicoanalisi-del-muro/) le strategie politiche, militari e ideologiche dei muri costruiti a difesa di ciò che sta all’interno sono sempre fallite: il loro fondamento psicologico ed ideologico è da ricercare in una rassicurazione di chi lo erige e non alla sua difesa reale.

Le dighe costruite per creare dei bacini idrici servono per evitare che piene ed alluvioni travolgano i frutti del lavoro di ciò che sta a valle e, se non vengono costruite in modo criminale, si pensi al Vajont, nome sintomatico del monte che stava sopra la diga e che significa in dialetto friulano “viene giù”, proteggono le case, le coltivazioni e la vita stessa delle persone ed addirittura servono, regolando l’afflusso delle acque, a far fiorire ulteriormente il lavoro dell’uomo. Si pensi, più modestamente, alle risaie ed ai prati marcitori lombardi: l’acqua, non più trattenuta, allagando i campi produce il risultato straordinario di fornire un cibo come il riso che costituisce buona parte dell’alimentazione mondiale e in Lombardia forniva foraggio fresco quando la neve ed il gelo coprivano la pianura padana. L’isolamento dall’acqua è una strategia che non ha affatto per mira quello di chi la ferma, ma il suo utilizzo più proficuo per rendere la comunità più ricca e benestante.

Il muro inteso come fortezza che protegge dall’invasione dei barbari è invece concettualmente l’opposto: il benessere maggiore non è dato dallo sfruttamento intelligente di ciò che viene dall’esterno in modo da creare nuove opportunità, ma è fantasticato come l’isolamento da esso. I colonizzatori inglesi e belgi non avevano bisogno di costruire muri di cemento, ma il loro isolamento dai neri del Kenya e del Congo era garantito dalla ricchezza, dalle armi e da una ideologia grossolanamente illuministica che ricreava il modo di vita europeo (delle classi agiate) in Africa.

Sul piano individuale, l’isolamento attraverso un muro difensivo, è più facilmente avvertito come patologico mentre, per il fenomeno della deresponsabilizzazione gruppale, non appare tale quando diviene ideologia di massa. Nella richiusura paranoide il pericolo dell’irruzione di un agente esterno viene avvertito come catastrofico e, tanto meno tale agente è oggettivamente pericoloso, tanto più esso appare infido e subdolo. Si pensi, è un esempio magnifico, alla fortezza Bastiani ne Il deserto dei tartari di Dino Buzzati: l’assoluta mancanza di pericolo del deserto viene avvertita come tanto più minacciosa quanto più assente è ogni individuo che provenga da esso: il giovane tenente Drogo invecchierà, insieme a tutta la guarnigione, nella perenne attesa di un nemico che non c’è e la sua vita sarà consumata per intero in una difesa spasmodica da ciò che, all’esterno, non esiste.

giovedì 23 febbraio 2017

Su “UBER”, “SHARING” E “GIG ECONOMY”*- Carlo Formenti

*Da: http://contropiano.org/     intervento di Carlo Formenti all’iniziativa organizzata da Noi Restiamo al Politecnico di Torino il 10 maggio 2016. L’intervento non è stato rivisto dal relatore ed eventuali errori sono quindi da considerarsi a carico nostro. Il titolo è redazionale.  
Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nozione-di-progresso-renato-curcio.html


SHARING E GIG ECONOMY: DINAMICHE TAYLORISTICHE E SFRUTTAMENTO

Prima parte dell’intervento:

Il lavoro che ho fatto negli ultimi 10-15 anni all'Università del Salento è stato in larga misura dedicato alla sociologia della rete che oggi, da quando sono felicemente approdato alla pensione, continuo a proseguitare; il giorno dopo che ho smesso di insegnare Teoria e tecnica dei nuovi media sono felicemente tornato a quelli che sono sempre stati i miei interessi fondamentali, che riguardano il socialismo economico e la sociologia politica. E ogni volta che mi tocca sentire qualcuno che mi telefona e mi dice "Professore, perché non viene a questo incontro su Internet e la società", subito mi si rizzano i capelli sulla testa; nel senso che in qualche modo dà per scontato che esista una sfera autonoma della dimensione della tecnologia e della rete come articolazione attuale della dimensione della tecnologia non sovradeterminata dai processi economici, politici, sociali, culturali e quant'altro. E che, viceversa, oggi sia possibile ragionare dei processi economici, politici, sociali e culturali prescindendo dal fatto che ormai le tecnologie di rete sono parte della nostra vita quotidiana, del nostro lavoro e delle relazioni sociali, del nostro viaggiare, sentire, stringere amicizie, ecc. Quindi, tendo sempre a riportare il tema a degli aspetti molto più determinati e specifici; in particolare, per quanto riguarda la questione del rapporto tra nuove tecnologie e lavoro, metterò a fuoco un aspetto molto particolare, che è quello di Uber, più altre esperienze che vengono variamente denominate di "sharing economy" o, negli Stati Uniti, di "gig economy", con una apertura più ampia rispetto al discorso e secondo me più interessante per il ventaglio di fenomeni che viene preso in considerazione.

Per affrontare questo problema, partirò da una piccola apologia del luddismo e dei movimenti luddisti nella prima metà dell'Ottocento in Inghilterra; perché, come sapete, negli ultimi giorni qui in Italia in particolare a Milano c'è stata una nuova ondata di agitazioni dei tassisti contro Uber, che erano stati preceduti da movimenti e fenomeni analoghi in tutto il mondo, ma particolarmente duri sono stati quelli avvenuti a Parigi l'anno scorso. In quell'occasione il mio "amico" Dario Di Vico (Corriere della Sera) si è come al solito precipitato a scrivere una serie di articoli in cui ha fatto una critica radicale di questa arretratezza e di questa assoluta stupidità nell'opporsi a un processo tecnologico che risulta irreversibile e non può essere contrastato in nessun modo, ma che è di per sé assolutamente benefico e porta una serie di vantaggi incredibili per i consumatori, per Uber ovviamente, che fa un sacco di quattrini, ma in prospettiva anche per gli stessi tassisti. Allora questo discorso richiama esattamente il tipo di argomenti che venivano usati contro il movimento luddista nel primo Ottocento inglese; tenete conto che il movimento dei luddisti, di cui si sa molto poco in realtà perché è stato studiato relativamente poco (non da storici specialisti), è stato un movimento di dimensioni enormi; per diversi anni l'Inghilterra ha visto mobilitazioni di massa, di distruzione e di incendi di fabbriche, di telai di nuova generazione, di scontri armati, cioè i luddisti andavano in bande di 200-300 a distruggere queste fabbriche e si scontravano con l'esercito inglese, con le milizie dei padroni dell'industria tessile, ci sono state centinaia di morti, molti dei quali impiccati, perché quando li prendevano li impiccavano anche perché era ancora illegale lo sciopero, figurarsi queste forme di mobilitazione violenta.

mercoledì 22 febbraio 2017

Sulla “Nuova lettura di Marx”*- Riccardo Bellofiore

*conferenza tenuta da Riccardo Bellofiore: 'Socializzazione e lavoro astratto in Marx'. L'intervento si è svolto nell'ambito del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società dell'Università degli studi di Milano-Bicocca.    https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova- 


"La nuova letteratura su Hegel, negli ultimi decenni - e io nutro sempre più il sospetto che non abbiano torto - ritiene che questa rappresentazione di Hegel, che si ritrova in Marx e che in qualche modo ritroviamo in Adorno, Horckeimer, Schmidt e sarà uguale in Reichelt e Backhaus, questa lettura di Hegel come idealista un po' pazzo, che pensa che il concetto sia in qualche modo la realtà stessa, questa cosa non abbia a che vedere con lo Hegel vero e proprio. 

Io non lo so, perché non sono un esperto, ma le cose che ho letto mi convincono che questa posizione abbia molte frecce al suo arco. 

Al tempo stesso, voglio chiarire subito, che io sto dal lato di Marx e di questi autori per una ragione molto semplice: perché la mia tesi è che  questo Hegel, fosse anche un Hegel pazzo, è quello che per Marx è il mezzo per comprendere qual è la logica del capitale come modo di produzione. 

Quindi non conta tanto se veramente Hegel fosse un idealista, la tesi è che la realtà sociale capitalistica è una realtà idealistica. In questo senso una totalità negativa..." 

Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte I):



Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte II): https://www.youtube.com/watch?v=Gmup_ASBeLw


Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte III): https://www.youtube.com/watch?v=PCFAUDcJjMw 

lunedì 20 febbraio 2017

Le vicende storiche dell’Unione Sovietica e il loro impatto sull’America Latina*- Alessandra Ciattini

*Da:    https://www.lacittafutura.it/ 


Nel 2012 la casa editrice Ocean Sur ha pubblicato un’interessante antologia intitolata La izquierda latinoamericana a 20 años del derrumbe de la Unión Soviética, la cui recensione reperibile in Cubadebate mi permette di riflettere in maniera concisa e rapida su tre temi distinti, ma tra loro intrecciati: l’impatto della Rivoluzione d’Ottobre sull’America Latina, le ripercussioni del derrumbe (crollo) dell’Unione Sovietica, i caratteri del marxismo latinoamericano. Tema quest’ultimo a cui la Storia del marxismo, progettata da Eric J. Hobsbawm, Georges Haupt, Franz Marek, Ernesto Ragionieri, Vittorio Strada, Corrado Vivanti (1981), dedica un articolo contenuto nel terzo volume scritto da José Aricó.

Naturalmente sono del tutto consapevole della complessità dei temi su indicati, ma mi sembra utile fare dei brevi cenni ad essi per fornire qualche elemento di riflessione, da cui partire per comprendere anche la difficile partita che si sta giocando in America Latina.

In primo luogo, comincio col dire che, al tempo della Rivoluzione russa, la Russia era un paese pressoché sconosciuto, misterioso, enigmatico di cui si sapeva assai poco. In particolare, in Perù, il 30 dicembre 1917 José Carlos Mariátegui, considerato il primo marxista latinoamericano, scriveva che la Russia continuava a essere considerata una leggenda. A Lima si diffuse la notizia che il potere autocratico dello zar era collassato e che il governo era finito nelle mani dei massimalisti o bolscevichi capeggiati da Lenin. E ciò benché in Europa autorevoli giornali tranquillizzassero i loro lettori, scrivendo che si trattava di un evento effimero destinato ad esser spazzato via rapidamente senza tanti complimenti.

In quel momento storico operavano attivisti sindacali di ispirazione anarchica, che si agitavano per ottenere la giornata lavorativa di otto ore, la costituzione di organizzazioni sindacali, e attizzavano il fuoco dei primi scioperi operai, delle prime manifestazioni di piazza. È proprio in questo contesto che Mariátegui si dichiara nauseato della politica creola [1] e decisamente orientato verso il socialismo. -http://www.cubadebate.cu/noticias/2012/07/21/el-derrumbe-de-la-urss-tuvo-una-repercusion-enorme-en-america-latina/#.WJtP9zvhDIU-

E successivamente, insieme ad altri intellettuali, darà vita alla rivista Amauta [2], nella quale come scrive lui stesso “Studieremo tutti i grandi movimenti di rinnovamento, politici, artistici, letterari, scientifici.

Tutto ciò che è umano ci appartiene” -https://www.marxists.org/espanol/mariateg/1926/sep/amauta.htm-. La rivista, fondata nel 1926, cui collaborarono autori come Andrè Breton, Miguel de Unamuno, Jorge Luis Borges, esprimeva la volontà di modificare radicalmente la società – nella prospettiva aperta dall’Ottobre –, dischiudendosi a tutte le sollecitazioni innovatrici sia europee, come la psicoanalisi, il cubismo, che latinoamericane come l’indigenismo [3].

domenica 19 febbraio 2017

Comunismo*- Franco Fortini**

*Da: ( Da F. Fortini, «Extrema ratio» pag 99- 101, Garzanti, Milano 1990 )   https://www.facebook.com/maurizio.bosco.18/posts/10212679597138467
**Franco_Fortini è stato un poeta, critico letterario, saggista e intellettuale italiano.


"Termine con cui si designano dottrine che propugnano e descrivono una società basata su forme comunitarie di produzione ovvero di produzione e consumo, in alternativa a società basate su forme di proprietà privata ovvero di distribuzione e di consumo diseguali. Possesso comune della terra e dei mezzi di produzione, lavoro per tutti, regolazione pianificatrice dei bisogni e delle funzioni (...) parte integrante di tali dottrine è l'educazione comune, pubblica, di tutti gli individui" (Enciclopedia Garzanti).



Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. è la possibilità (quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani - e, in prospettiva, la loro totalità - pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.

Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l'illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro "libertà" non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.

La Repubblica di Platone - Francesco Fronterotta

Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/platone-la-repubblica-luciano-canfora.html
                          https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/filosofi-al-potere-mario-vegetti.html
                            https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/platone-antonio-gargano-1-2-di-2.html
                               http://177ermanno.blogspot.it/2014/02/blog-post.html?spref=fb



Il testo:  http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/PlatoneRepubblica.pdf

sabato 18 febbraio 2017

Sulla Costituzione - Luciano Canfora

Leggi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/legge-elettorale-costituzione.html
                        https://www.marxists.org/italiano/archive/storico/cost-urss.htm



("Chi non lavora non mangia")
Al fine di distruggere gli elementi parassitàri della società e di organizzare l'economia nazionale, viene istituito per tutti il servizio obbligatorio del lavoro.   
[ I° Costituzione sovietica (1918) ]

venerdì 17 febbraio 2017

La scienza e la tecnologia secondo Fidel Castro*- Massimo Zucchetti

*Da:    http://www.marx21.it/



La scomparsa del Comandante Fidel Castro Ruz, avvenuta in questi giorni, mi ha portato a scrivere un breve ricordo di quelli che sono stati – avendoli verificati di persona - il suo pensiero sulla Scienza e la Tecnologia, la sua influenza sullo sviluppo di queste discipline a Cuba e nel mondo, e di come questo suo pensiero abbia contributo a conservare a Cuba la sua indipendenza.

Partiamo dalla mia esperienza personale, e non certo per mettere me stesso in mostra, ma per cercare di far capire a quale titolo vengano scritte queste righe: in questi giorni abbondano infatti sedicenti neo-esperti di Cuba, che nell’isola caraibica non hanno mai messo piede, se non al massimo per una settimana all-inclusive in un albergo a Varadero. Ho partecipato – dagli anni 90 fino all’anno scorso - a molte Conferenze internazionali a Cuba, in particolare relative a materie vicine alla mia disciplina, cioè la fisica nucleare e lo studio dell’ambiente. Nella serie di convegni internazionali WONP (Workshop On Nuclear Physics) e NURT (Nuclear and Related Techniques) ho potuto presentare molti miei lavori scientifici, trovando sempre ottima accoglienza, pubblico ampio, colleghi interessati con i quali ho anche intessuto rapporti di collaborazione.

Un solo esempio per tutti: nel 2001 presentai un lavoro scientifico sull’impatto ambientale e sulla salute dell’utilizzo militare dell’Uranio Impoverito [1], uno dei primi lavori presentati a livello internazionale da un italiano dopo la guerra contro la Jugoslavia nel 1999. Attenzione alla data: nel 2001 era molto difficile parlare scientificamente di quel problema, dato che nel democratico occidente vigeva una vulgata de facto che relegava l’allarme sull’uso di quel materiale radioattivo ad una protesta complottista. Ora, nel 2016, sappiamo che la NATO fece un uso criminale di quegli ordigni nei Balcani (come prima in Iraq e poi in altre guerre), mentre il governo “di sinistra” italiano, prima partecipò con le proprie basi ai bombardamenti, e poi inviò i soldati italiani in Kosovo, senza alcuna protezione contro l’inquinamento da polveri radioattive e composti chimici cancerogeni: l’odissea delle malattie e delle morti dei nostri militari si protrae tuttora. A Cuba, così come quando parlai di fusione termonucleare controllata a deuterio-elio-3, di monitoraggio e previsione dei sismi mediante il gas radon, ed altri argomenti scientifici di avanguardia, trovai spazio, accoglienza, attenzione, critica costruttiva, e dignità scientifica.


lunedì 13 febbraio 2017

La via maestra*- Antonio Gramsci

*(editoriale del num. 1 del quotidiano «L’Unità» 12 febbraio 1924).  Da:   http://www.senzatregua.it/ 


Cade oggi l’anniversario dei 90 anni (ora 93) di pubblicazione de «l’Unità» il quotidiano fondato dal Partito Comunista d’Italia nel 1923 e che ebbe il suo primo numero proprio il 12 febbraio. Questo articolo scritto da Gramsci, che suggerì il nome «l’Unità» spiega le ragioni della nascita del giornale e le proposte del Partito Comunista. Un articolo di straordinaria attualità che fino ad ora non era mai stato riportato integralmente sul web. Una mancanza che non riteniamo casuale e a cui abbiamo voluto rimediare, coscienti che nella storia del movimento operaio italiano ed internazionale, siano racchiusi spunti indispensabili per l’analisi della situazione attuale e l’azione politica conseguente per cambiare lo stato di cose presente. «La via maestra» è uno spunto essenziale per le nuove generazioni di comunisti.


La tragica esperienza compiuta dagli operai e dai contadini d’Italia in questi ultimi anni non deve essere perduta, essa può costituire anzi la taglia che essi hanno pagato e pagano per raggiungere la capacità politica necessaria a portare a termine lo sviluppo della loro rivoluzione. Il martirio subito può passare all’attivo della classe proletaria, se rimarrà a debellare definitivamente le illusioni che le hanno fatto segnare il passo negli anni 1919-1920. Occorre per ciò impedire che il fascismo, come già la guerra mondiale, passi senza aver trasformato radicalmente lo spirito delle masse, occorre che sotto l’assillo delle sofferenze e per l’anelito alla riscossa, non siano realizzate formule, stati d’animo e pregiudizi atti a sabotare ogni possibilità di ripresa proletaria, a precludere ogni seria prospettiva di rivincita. 

Il nostro giornale si propone a tale scopo di sondare metodicamente le cause che hanno piegato i lavoratori sotto il peso di una gravissima sconfitta e di farne pesare gli insegnamenti nella loro coscienza militante. L’unità a cui noi facciamo appello non è quindi un richiamo di ordine sentimentale e decorativo; non è il fiotto fangoso e torbido dei consensi stagnanti e senza sbocco; essa tende a forgiare lo strumento idoneo per la lotta del proletariato, ed ha alla sua base una concezione politica ben definita e coerente, che vi circola come sangue vivo, che la genera e la rinsalda. 

sabato 11 febbraio 2017

«Sono utili le prove Invalsi?» - Giorgio Israel*

*Giorgio Israel (Roma6 marzo 1945 – Roma25 settembre 2015) è stato uno storico della scienza ed epistemologo italiano. Membro della Académie Internationale d'Histoire des Sciences e professore dell'Università di Roma La Sapienza, è stato autore di più di 200 articoli scientifici e 30 volumi, nei quali ha esplorato il ruolo della scienza nella storia della cultura europea e ha condotto una critica dell'idea di razionalità matematica e del meccanicismo.

venerdì 10 febbraio 2017

Il comunismo nella storia cinese: riflessioni su passato e futuro della Repubblica popolare cinese*- Maurice Meisner**

**Meisner, Maurice (1931-2012)storico della Cina contemporanea. “The Place of Communism in Chinese History: Reflections on the Past and Future of the People’s Republic of China,” Macalester International: Vol. 18, Article 8. (2007) 


[…] Questo non è il luogo adatto per discutere seriamente gli sviluppi del capitalismo seguiti rapidamente alle riforme degli anni ottanta, probabilmente il più massiccio processo di sviluppo capitalistico della storia mondiale. Vorrei occuparmi esclusivamente di alcuni aspetti strettamente correlati di tale esito: innanzitutto, il ruolo dello stato nello sviluppo del capitalismo; secondo, il fenomeno del “capitalismo burocratico” nella storia cinese; infine, alcuni brevi commenti circa le conseguenze politiche e culturali del capitalismo cinese contemporaneo, in particolare riguardo al posto del comunismo nella storia cinese.

III. Capitalismo e stato

Una delle grandi ironie della storia moderna cinese è il fatto che la dinamica capitalistica che ha trasformato la Cina nell’ultimo quarto di secolo è il risultato di decisioni prese da un partito e da un potente stato comunisti. Per quanto incongruo in termini di classica ideologia liberale, nella fattualità storica un ruolo cruciale dello stato nello sviluppo del capitalismo non è inusuale. Lo stato bismarkiano, ad esempio, diede gran parte dell’impeto e dell’orientamento per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella Germania del tardo XIX secolo, mentre l’industrializzazione promossa dallo stato rappresentò la forza dominante nella storia del Giappone nell’epoca Meiji (1868-1912). Nelle cosiddette “nazioni di recente industrializzazione” del secondo dopoguerra, la modernizzazione patrocinata dallo stato costituì un fatto universale. Corea del sud, Taiwan e Singapore sono alcuni degli esempi di maggior successo.

Di fatto, non è solo nel caso della tarda modernizzazione (o di quella che Barrington Moore ha definito “modernizzazione conservatrice”) che si è assistito al coinvolgimento dello stato nella promozione dello sviluppo capitalistico. Il potere statale ha giocato un ruolo essenziale nel precedente sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali, ruolo oscurato dalla necessità ideologica di dipingerlo come espressione naturale di una presunta natura umana essenziale. Una necessità che ha trovato esternazione nell’ideologia del “libero mercato”, secondo la quale il capitalismo opera meglio laddove libero da qualsiasi ingerenza governativa esterna. Eppure, anche in Inghilterra, la classica patria del capitalismo e dell’ideologia liberale, fu l’intervento dello stato a creare il mercato del lavoro, precondizione allo sviluppo di un moderno capitalismo industriale. Le enclosure, che promossero il capitalismo rurale espellendo dalla terra milioni di contadini trasformandoli in proletari urbani, nono furono semplicemente frutto di leggi naturali dell’economia, bensì di provvedimenti del parlamento applicati da tribunali e polizia. E fu la riforma della Poor Law del 1834 a porre fine ai tradizionali diritti di sussistenza in favore di un mercato del lavoro “libero”, la funzione del quale venne rafforzata dalla minaccia della Workhouse. Lo stato britannico era pesantemente coinvolto nella creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella sua patria nonché classica incarnazione (11).