lunedì 31 ottobre 2016

Tempesta perfetta. Nove interviste per capire la crisi*- Tommaso Gabellini


 
Tempesta Perfetta nasce con l’intento di mostrare l’urgente bisogno di un dibattito sulle cause della crisi e sulle possibili soluzioni che tengano conto di un punto di vista autonomo, del lavoro. Occorre partire da un’analisi seria e disincatata per permettere alla generazione cresciuta nella crisi di capire che le alternative esistono e che un rovesciamento degli attuali rapporti di forza sia possibile solo dopo aver elaborato un’attenta critica nei confronti del paradigma culturale dominante. Il libro offre molti spunti di riflessione in tal senso, e costituisce un’ottima lettura sia per chi sia a digiuno di nozioni economiche, sia per chi si interessi già di alcune tematiche ma voglia avere un quadro d’insieme più ampio.

Si chiama Tempesta Perfetta, è la prima prova editoriale della Campagna Noi Restiamo, pubblicata da Odradek, raccoglie le interviste di dieci economisti – Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi, Simon Mohun, Marco Veronese Passarella, Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo, Leonidas  Vatikiotis, Giovanna Vertova – sulla crisi; 

domenica 30 ottobre 2016

(U.S.)America nell'epoca Tecnetronica*- Zbigniew Brzezinski (1968)

*Versione originale:    http://www.unz.org/Pub/Encounter-1968jan-00016  (Traduzione a cura del collettivo) 
Leggi come premessa e commento:     https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/brzezinski-e-la-futurologia-america-in.html 



"L’intenso coinvolgimento nella conoscenza applicata potrebbe gradualmente provocare l’indebolimento della tradizione di imparare solo per imparare. La comunità intellettuale, comprese le Università, potrebbe diventare un’altra ‘industria’, che recepisce i bisogni sociali come i diktat del mercato, con gli intellettuali che ricercano le ricompense materiali e politiche più consistenti. L’ansia per il potere, il prestigio e la bella vita potrebbe significare la fine dell’ideale aristocratico del distanziamento intellettuale e della ricerca disinteressata della verità."


La nostra non è più la convenzionale era rivoluzionaria; stiamo entrando in una nuova fase di trasformazione nella storia umana. Il mondo è nell’era di una trasformazione più drammatica nelle sue conseguenze storiche e umane di quelle provocate sia dalla rivoluzione francese che da quella bolscevica. Viste da una prospettiva a lungo termine, queste famose rivoluzioni hanno semplicemente scalfito la superficie della condizione umana. I cambiamenti da esse innescati hanno implicato trasformazioni nella distribuzione del potere e della proprietà all’interno della società; essi non hanno toccato l’essenza dell’esistenza individuale e sociale. La vita – personale e organizzata- è continuata quasi come prima, anche se alcune forme esterne (soprattutto politiche) furono trasformate in maniera sostanziale. Per quanto ciò possa apparire sconvolgente ai loro seguaci dovremmo convenire che Robespierre e Lenin sono stati soltanto dei riformatori morbidi, considerando i cambiamenti che si produrranno a partire dal 2000.

A differenza delle rivoluzioni del passato la metamorfosi avanzante non avrà leader carismatici con dottrine contrastanti, ma il suo impatto sarà molto più profondo. La maggior parte del cambiamento che ha così tanto preso posto nella storia umana è stato graduale, essendo le grandi ‘rivoluzioni’ meri segni di punteggiatura in un lento, ineludibile processo. Invece, la trasformazione che si avvicina giungerà molto più rapidamente e avrà più profonde conseguenze nel modo e anche forse nel significato della vita umana, che qualsiasi precedente esperienza fatta dalle generazioni che ci hanno preceduto.

L’America sta già cominciando a sperimentare questi cambiamenti e in questa fase sta diventando una società tecnetronica: una società che è plasmata culturalmente, psicologicamente, socialmente ed economicamente dall’impatto della tecnologia e dell’elettronica, in particolare dall’uso dei computer e dallo sviluppo delle telecomunicazioni. Il processo industriale non è più la causa principale dei cambiamenti sociali, attraverso la modificazione dei costumi, della struttura e dei valori sociali. 

Questo cambiamento sta dividendo gli Stati Uniti dal resto del mondo, promuovendo un’ulteriore frammentazione in una umanità sempre più differenziata, e imponendo agli americani  l’obbligo speciale di alleviare i dolori del confronto che ne scaturisce.

La società technetronica

sabato 29 ottobre 2016

"Ottobre" di Ejzenstejn

 Il Film fu girato quasi interamente a Leningrado e qui proiettato il 20 gennaio 1928: 7 rulli, 2220 metri; ma il metraggio originale era di 3800. La critica legata al regime accusò il regista di eccessivo sperimentalismo ed estetismo, inoltre il regista fu costretto ad eliminare dalla versione definitiva dell'opera i protagonisti della cosiddetta opposizione di sinistra, Trotsky e Zinov'ev, in quei mesi caduti in disgrazia per essersi opposti a Stalin 

Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2012/10/i-dieci-giorni-che-sconvolsero-il-mondo.html 

giovedì 27 ottobre 2016

La migrazione come rivolta contro il capitale*- Prabhat Patnaik**

*Da:   https://traduzionimarxiste.wordpress.com/       Link all’articolo originale in inglese MRZine, originariamente pubblicato in People’s Democracy
**Prabhat Patnaik è un economista marxista indiano.

 
Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione,  ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.

L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera. Nei tempi moderni si possono distinguere tre grandi ondate migratorie, ognuna delle quali dettata dalle necessità del capitale. La prima è stata il trasporto di milioni di persone ridotte in schiavitù dall’Africa alle Americhe, per lavorare nelle miniere e nelle piantagioni al fine di produrre le materie prime da esportare così da far fronte alle richieste del capitale metropolitano. Dal momento che le vicende riguardanti la tratta degli schiavi sono presumibilmente ben note, non discuterò ulteriormente questa particolare ondata migratoria.

Una volta terminato il periodo di fioritura del commercio degli schiavi, ci fu un nuovo tipo di migrazione. Nel corso di tutto il XIX secolo e dell’inizio del XX, il capitale metropolitano aveva imposto un processo di “deindustrializzazione” al terzo mondo, non solo alle colonie tropicali come l’India ma anche alle semi-colonie e dipendenze come la Cina. Allo stesso tempo aveva “drenato” una parte del surplus economico di queste società attraverso svariati mezzi, dalla pura e semplice appropriazione di merci  senza alcun quid pro quo, ricorrendo alle entrate fiscali delle colonie amministrate direttamente, all’imposizione dello scambio ineguale nella valutazione dei prodotti del terzo mondo, sino all’estrazione di profitti monopolistici nel commercio. Le popolazioni delle economie del terzo mondo impoverite tramite tali meccanismi erano state forzate, viceversa, a restare dove si trovavano, intrappolate all’interno dei propri universi.

Lavoratori vincolati indiani al loro arrivo a Trinidad 

mercoledì 26 ottobre 2016

Studio su Hegel: Estetica - Stefano Garroni


[8] - Lo Hegel giovane “approfondisce il progetto schilleriano dell’educazione estetica attribuendo all’arte ed alla poesia intesa come <maestra dell’umanità> la funzione storica di trasmissione attraverso la bella apparenza di una razionalità divenuta sentire comune di un popolo libero. L’azione etica è in tal senso un’azione bella, colui che la compie è una <bella figura> ed al tempo stesso la sua esistenza è un ideale, cioè un’idea concretamente calata nella realtà storica.” (AAVV, 7376: 201s).

Interessante Cassirer, 6508: 156-8 - «In seguito i filosofi hanno cercato di evitare questa conclusione [la condanna platonica dell’ arte]  assegnando all’ arte una meta più elevata. Ci hanno spiegato che l’ arte riproduce non già il mondo fenomenico, ma il mondo sovrasensibile. Questa idea prevale in tutti i sistemi dell’ estetica idealistica: da Plotino giù giù fino a Schelling e Hegel. La bellezza, si afferma, non è una mera qualità empirica o fisica delle cose; è un predicato intelligibile, sovrasensibile. Nella letteratura inglese troviamo questa concezione, per es., nelle opere di Coleridge e di Carlyle. In ogni opera d’ arte, afferma Carlyle, noi discerniamo l’ etermità che traspare nel tempo, il divino reso visibile» (Cassirer, 6508: 158).

«... Baumgarten, sappiamo,  propose con notevole successo postumo il nome intenzionalmente filosofico di “estetica”, per molti decenni accettato però solo in area tedesca. Kant non lo adoperò mai come nome disciplinare, non sentendo affatto il bisogno di dare un nome quale che sia a una riflessione che non era un sapere. Schelling tenne poi lezioni non di “estetica”, ma di “filosofia dell’ arte”, e anche Hegel avrebbe preferito questo nome a quello, impostosi in sostanza per ragioni di routine accademica.» (Garroni, 6631: 37). Platonismo estico di Hegel versus Kant. (AAVV, 7376: 203).

martedì 25 ottobre 2016

Brzezinski e la futurologia. (America in the Technetronic Age)* - Alessandra Ciattini


L’anziano ex consigliere alla sicurezza di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, è sempre sulla cresta dell’onda e continua ad elaborare analisi politiche, che da un lato riflettono le intenzioni dei vertici statunitensi, dall’altro indicano i percorsi da seguire per difendere il ruolo egemonico della superpotenza. In particolare, in un articolo di qualche mese fa, egli riconosce che il dominio globale degli Stati Uniti è in crisi a causa del riemergere della Russia quale attore politico nella scena mondiale e dell’espansione economica e commerciale della Cina. A suo parere, pertanto, bisogna prendere misure adeguate a contrastare tale declino e a impedire un avvicinamento dell’Europa alle potenze emergenti (leggi).

Come è noto, Brzezinski si è sempre dilettato di analisi politiche volte a delineare gli scenari internazionali futuri. In questo breve intervento, mi limiterò ad analizzare brevemente un articolo dell’ex-consigliere, pubblicato nel 1968, dal significativo titolo America in the Technetronic Age(leggi), nel quale egli indica i caratteri della società cosiddetta postindustriale o, se volete, postmoderna. E ciò perché in effetti egli coglie nel segno, anche perché                                                                                                              descrive le linee politiche adottate dalla classe dirigente mondiale, a cui era ed è strettamente vincolato.

Questo aspetto è ben colto da un autore sovietico, Edward Arab-Ogly, il cui libro intitolato Nel labirinto dei vaticini è stato pubblicato in italiano dalle Edizioni Progress (Mosca) nel 1977 e che ho avuto già modo di menzionare in un precedente articolo per La Città futura. Egli sottolinea, in questo d’accordo con Brzezinski [1], che la rivoluzione tecnico-scientifica del Novecento ha determinato “mutamenti profondi e irreversibili con una conseguente accelerazione dell’evoluzione sociale”. A suo parere “tali trasformazioni sociali, politiche, economiche che in passato si sarebbero dipanate per decenni e forse per secoli”, si stanno realizzando vorticosamente nello spazio di una generazione. Egli aggiunge che nell’epoca contemporanea il potere che l’uomo ha sulla natura e sul proprio destino è straordinario e che noi e i nostri posteri potremo godere i frutti di questo avanzamento, ma ci troveremo anche a “pagare il fio delle nostre attività” (op. cit. 1977: 3).

lunedì 24 ottobre 2016

Il lavoro tra operai digitali e cottimisti del voucher*- Bruno Casati



Solo negli ultimi 5 anni l’Italia ha perso un milione di occupati, di cui 300mila nel settore metalmeccanico. La piccola risalita fatta registrare l’anno scorso, pur così enfatizzata (l’Italia della retorica Renziana che riparte), è stata del tutto assorbita in quanto drogata dagli sgravi che il Governo regalava agli imprenditori che assumevano. Finita la droga si è tornati a licenziare in scioltezza e si sono gettati al vento chi dice 10 chi dice 20 miliardi di Euro. Va così in tutta Europa? Solo in Spagna si sono verificate perdite di occupati pari a quelle intervenute in Italia. In Germania invece si è tornati al livello degli anni precedenti la crisi e, quindi, mentre l’Italia ha perso, come si è detto, 1 milione di occupati, la Germania ha aumentato i suoi di 1 milione e mezzo. 

Pare proprio si sia configurata un’Europa del Lavoro e dell’Economia a due velocità. Ed allora la Gran Bretagna ha pensato bene di salutare questa Europa con il referendum di giugno. E la Gran Bretagna non è la Grecia, che è stata calpestata un anno fa, e va ascoltata. Perché la Brexit ci costringe per davvero a ragionare sull’esistenza o meno di un’alternativa “allo stato di cose presenti” che l’assetto economico assunto dall’UE ci impone, a partire dal lontano trattato di Maastrich. E quel trattato, impedendo la compressione della disoccupazione, da allora considerata “elemento funzionale al mantenimento degli equilibri interni al sistema economico capitalistico”, negava anche l’intervento pubblico in Economia (bloccati gli aiuti di Stato, eccezion fatta per le Banche ben s’intende) e imponeva le privatizzazioni. E un furia privatizzatrice spazzò l’Italia che, con Bersani in testa, enfatizzava privatizzazioni a “lenzuolate”. Se oggi noi ci apprestiamo a dire no nel referendum costituzionale, è bene rammentare che fu proprio la UE, imponendo la “coesistenza pacifica” con la disoccupazione e la cancellazione della mano pubblica in Economia, ad assestare il primo doloroso colpo di piccone alla nostra Carta Costituzionale che sostiene esattamente l’opposto. Il secondo, mortale, fu l’imposizione più recente del vincolo di Bilancio (il pareggio dell’art.81). Da tutto ciò ne discende che il concetto di “piena occupazione” in Italia è stato riposto nello scantinato del Novecento, a fianco della Programmazione Economica, l’IRI e le Partecipazioni Statali. In quello scantinato sono quindi finite le lezioni di John Keynes che, all’interno dell’Economia di Mercato, sollecitava interventi di Stato, attraverso i quali il sistema capitalistico avrebbe retto alla sfida, si era nel trentennio 1945-1975, portata dall’economia di piano dell’Unione Sovietica. Oggi, che non esiste più l’Unione Sovietica e la sfida se si vuole è con il “Socialismo di Mercato” della Cina, quelle antiche lezioni tornerebbero comunque utili perché la crisi economica mondiale, iniziata negli USA nel 2007, ha, tra le sue cause, lo ricorda l’economista Thomas Piketty, proprio il fallimento delle politiche neoliberiste spinte dell’ultimo quarto di secolo, da quando ossia l’Unione Sovietica è uscita di scena e il capitale non aveva più il nemico. 

domenica 23 ottobre 2016

La questione curda, ieri ed oggi*- Samir Amin**

*Da:     samiramin1931.blogspot.it     Traduzione di Lorenzo Battisti per http://www.marx21.it/

Il caos politico che domina la scena in Medio Oriente si esprime tra l'altro, nell'emergere violento della questione curda. Come possiamo analizzare, in queste nuove condizioni, la portata della rivendicazione dei Curdi (autonomia? Indipendenza? Unità?)? E possiamo dedurre dall'analisi che questa rivendicazione debba essere sostenuta da tutte le forze democratiche e progressiste della regione e del mondo?

Una grande confusione domina il dibattito su questo tema. La ragione è, a mio avviso, l'allineamento della maggior parte degli attori e degli osservatori dietro ad una visione non storica di questa questione, così come di altre. Il diritto dei popoli all'autodeterminazione è stato innalzato a diritto assoluto, che vorremmo fosse mantenuto valido per tutti e in tutti i tempi (presenti e futuri), così come per il passato. Questo diritto è considerato come uno dei diritti collettivi tra i più fondamentali, al quale si dà di solito più importanza che agli altri diritti collettivi di portata sociale (diritto al lavoro, all'educazione, alla sanità, alla partecipazione politica ecc..).

D'altra parte i soggetti di questo diritto assoluto non sono definiti in maniera precisa; il soggetto di questo diritto può essere “una comunità” qualunque, maggioritaria o minoritaria all'interno delle frontiere di uno stato o di una delle sue province; questa comunità che si definisce essa stessa come “particolare” per lingua o religione per esempio; e si proclama, a torto o a ragione, vittima di una discriminazione, se non di un'oppressione. Le mie analisi e le mie prese di posizione si iscrivono all'opposto di questa visione transtorica dei problemi della società e dei “diritti” attraverso i quali si esprimono le rivendicazioni dei movimenti sociali del passato e del presente. In particolare attribuisco un'importanza capitale alla frattura che separa lo sviluppo del moderno mondo capitalista dai mondi precedenti.

Socrate - Giannantoni, Gigon, Hösle

  Vedi anche:     https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/07/socrate-antonio-gargano.html

sabato 22 ottobre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, dalla Rivoluzione di ottobre alla seconda guerra mondiale - Renato Caputo

 2 LEZIONE. LA PRIMA GUERRA MONDIALE - 
interventismo e neutralismo in Italia; cenni sui fronti di guerra; la conclusione della prima guerra mondiale; i trattati di pace e il nuovo assetto mondiale:


1 LEZIONE. LE CAUSE E LA PRIMA FASE DELLA GRANDE GUERRA - Le cause della prima guerra mondiale; gli schieramenti contrapposti; le fasi iniziali della guerra; dalla guerra di movimento alla guerra di trincea:              https://www.youtube.com/watch?v=29nEf34Fc5M 

venerdì 21 ottobre 2016

Le pipeline in Siria e Iraq: il vero motivo strategico della guerra* - Alberto Negri

*(Sintesi di una relazione per il convegno "Cooperazione Regionale e Sviluppo delle Risorse Energetiche nel Mediterraneo")                    https://www.facebook.com/alberto.negri.9469?fref=nf  
Vedi anche:          https://www.youtube.com/watch?v=k7LPILjBAmo 
                               https://www.youtube.com/watch?v=plmoK22uMn4 


 Gas e petrolio sono da sempre al cuore della questione mediorientale: nelle vene di questa regione strategica per gli equilibri mondiali scorrono tutte le peggiori ragioni per fare una guerra e anche le migliori per fare la pace. Si tratta, in fondo, soltanto di scegliere e di conoscere la storia.

 Nel 1947 l’americana Bechtel e la Saudi Aramco decisero di realizzare un pipeline dai pozzi sauditi alle sponde del Mediterraneo. Si trattava della famosa Tapline: nel primo progetto doveva arrivare ad Haifa in Israele ma il piano fu accantonato dopo la dichiarazione di indipendenza dello stato ebraico. Si scelse così un percorso alternativo che passava dalle colline siriane del Golan e dal Libano, fino a Sidone. Il Parlamento siriano però chiese più tempo per esaminare la questione e la risposta fu un colpo di stato condotto dal colonnello Zaim con l’aiuto dell’agente della Cia Stephen Meade che rovesciò un governo democraticamente eletto.

 Soltanto quattro anni dopo, nel 1953, un altro colpo di stato anglo-americano detronizzava in Iran il leader Mossadeq che aveva nazionalizzato il petrolio. Il vero autore del golpe in Iran fu Kermit Roosevelt jr, nipote del presidente Theodore Roosevelt. La sua foto negli anni ’50 mostra un quarantenne sorridente, con occhiali dalla montatura nera pesante e l’aria mite di un professore: è il capo del della Cia in Medio Oriente, un insospettabile uomo d’azione, coraggioso, capace come pochi di volgere gli eventi a suo favore, anche nelle peggiori condizioni. Fu lui a dirigere sul campo il colpo di stato contro Mossadeq.
 I golpe americani a sfondo energetico e i loro segreti sono una questione di famiglia: i Roosevelt, i Kennedy e ora i Clinton. C’è qualche dubbio che coloro che oggi si proclamano “amici della Siria” come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna lo siano veramente: gli ultimi due sono stati quelli che si sono spartiti il Medio Oriente un secolo fa con gli accordi di Sykes-Picot del 1916.

 Gli accordi tracciavano i confini del futuro Medio Oriente dopo la dissoluzione dell’impero ottomano. Ma Georges Clémenceau accettò di “offrire” Mosul agli inglesi in cambio del controllo francese sulla Siria e sul Libano.

martedì 18 ottobre 2016

Ventotene, l’Europa e il postmoderno*- Giovanna Cracco

*Da:    http://www.rivistapaginauno.it/

“La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista,” scrive Spinelli, “cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita” 


Nell’epoca postmoderna le grandi narrazioni universali finalistiche e collettive che avevano legittimato il legame sociale non sono più credibili perché hanno tradito le promesse

Imprescindibile Lyotard, quando si parla di postmodernismo. Ne sono state date definizioni plurime, ma al filosofo francese si risale per la prima: “Semplificando al massimo, possiamo considerare ‘postmoderna’ l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, scrive nel 1979 ne La condizione postmoderna. Un’epoca che per Lyotard coincide con il capitalismo avanzato e l’“informatizzazione della società”, cambiamenti tecnologici che incidendo fortemente sul processo di ricerca e di trasmissione delle conoscenze, generano la trasformazione del Sapere in merce; già l’èra industriale ne aveva fatto forza produttiva, questo è un passaggio ulteriore. “Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per esse-re scambiato. Cessa di essere fine a se stesso, perde il proprio ‘valore d’uso’.” (1)

In questa fase storica, le grandi narrazioni universali, finalistiche e collettive che nella precedente epoca moderna avevano legittimato il legame sociale – illuminismo, idealismo e marxismo, ma anche il positivismo scientifico che si è accompagnato al capitalismo, esaltando la tecnologia come motore dello sviluppo economico e del benessere delle società – non sono più credibili, perché hanno tradito le promesse, e l’agire dell’Uomo non appare più quel processo di emancipazione verso una civiltà globale sempre più avanzata, libera ed egualitaria. La Storia stessa ha delegittimato le metanarrazioni:

domenica 16 ottobre 2016

Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 - Friedrich Engels, Introduzione (1895)

[...]
Dopo la sconfitta del 1849 non condividemmo in nessun modo le illusioni della democrazia volgare raccolta attorno ai governi provvisori futuri in partibus. Questa contava su una vittoria rapida, decisiva una volta per tutte, del "popolo" sugli "oppressori"; noi su una lotta lunga, dopo l'eliminazione degli "oppressori", tra gli elementi contraddittori che si celavano precisamente in questo "popolo". La democrazia volgare aspettava la nuova esplosione dall'oggi al domani; noi dichiaravamo già nell'autunno 1850 che almeno il primo capitolo del periodo rivoluzionario era chiuso e che non vi era da aspettarsi nulla sino allo scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per questo fummo messi al bando come traditori della rivoluzione da quegli stessi che in seguito fecero tutti, quasi senza eccezione, la pace con Bismarck, nella misura in cui Bismarck trovò che ne valeva la pena.

Ma la storia ha dato torto anche a noi; ha rivelato che la nostra concezione d'allora era una illusione. La storia è andata anche più lontano; essa non ha soltanto demolito il nostro errore di quel tempo; essa ha pure sconvolto le condizioni in cui il proletariato ha da lottare. Il modo di combattere del 1848 è oggi sotto tutti gli aspetti antiquato, e questo è un punto che in questa occasione merita di essere esaminato più da vicino.

Tutte le passate rivoluzioni hanno condotto alla sostituzione del dominio di una classe con quello di un'altra; ma sinora tutte le classi dominanti erano soltanto piccole minoranze rispetto alla massa del popolo dominata. Così una minoranza dominante veniva rovesciata, un'altra minoranza prendeva il suo posto al timone dello Stato, e rimodellava le istituzioni politiche secondo i propri interessi. E ogni volta si trattava di quel gruppo di minoranza che le condizioni dello sviluppo economico rendevano atto e chiamavano al potere, e appunto per questo e soltanto per questo avveniva che la maggioranza dominata partecipava al rivolgimento schierandosi a favore di quella minoranza, oppure si adattava tranquillamente al rivolgimento stesso. Ma se prescindiamo dal contenuto concreto di ogni caso, la forma comune di tutte quelle rivoluzioni consisteva nel fatto che esse erano tutte rivoluzioni di minoranze. Anche quando la maggioranza prendeva in esse una parte attiva, lo faceva soltanto, coscientemente o no, al servizio di una minoranza; questo fatto però, o anche solo il fatto dell'atteggiamento passivo e della mancanza di resistenza della maggioranza, dava alla minoranza l'apparenza di essere rappresentante di tutto il popolo. 

sabato 15 ottobre 2016

Riflessioni su Foucault*- Paolo Di Remigio


Foucault e il liberalismo.

La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France1 è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell'Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l'espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l'economia keynesiana; l'adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitivadell’Unione Europea2; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione inoccupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell'individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un'impresa3.

Non è il caso di riassumere il lavoro di Foucault: meglio leggerlo, anzi studiarlo, per trarne il quadro dell'ideologia neoliberale nella sua ossessiva pervasività; è invece il caso di chiedersi perché mai il libro non sia diventato né un segnale d'allarme né un'arma di lotta politica. La risposta può essere anticipata subito: Foucault condivide con il neoliberalismo e con il marxismo il suo presupposto più interno: l'identità di libertà e natura, ossia la concezione che la libertà sia una proprietà originaria dell'individuo fuori dal contesto politico, determinato cioè come naturale. Perché la sua indagine avesse risonanza politica, Foucault avrebbe dovuto esporre il neoliberalismo confrontandosi a fondo con la natura dello Stato, mettendo in questione non solo il liberalismo, ma lo stesso Marx, risalendo quindi a Hegel.

venerdì 14 ottobre 2016

OTTAVA BOLGIA INFERNALE*- Gianfranco Pala

 Ottavo cerchio dell’inferno dantesco in fondo a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino. Poi la strada non la trovi da te, sprofonda all’inferno, che però non c’è.

Solo un <buzzurro> {*} come Salvini che nella sua ignoranza non sa nemmeno l’italiano, giacché “traditore” è chi consegna libri e pensieri ai loro avversarî e il fellone che ha commesso tradimento nei confronti della patria; della causa,o dei compari di una lotta merita una dura punizione, fino alla morte, o per dirla con la severità di Dante “se le mie parole esser dien seme, che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo”. Ma i libri o i pensieri di Carlo Azeglio Ciampi per chi e di chi erano? Certamente non per proletari e comunisti, ma per banchieri e capitalisti internazionali, cui semmai gli italiani si fossero omologati. E parimenti ciò è vero altresì per il silente <convitato-di-pietra> Giorgio Napolitano, che qui non dovrebbe entrare direttamente in gioco (ma che, come si dirà, <tomo tomo, cacchio cacchio> si è dedicato e plasmato sugli stessi padroni e opposto ai medesimi nemici). Quindi è palese l’ipocrisia del legaiolo – con il suo <cesso di anima>, per dirla come il diavolo di Altàn – di manifestare “preghiera e cordoglio” per la non prematura morte di Ciampi; lo storico e politico analfabetismo del disumano guitto <ruspista> lombardo ne delinea le magnifiche sorti, e regressive. Ossia definire Ciampi “uno dei traditori dell’Italia e degli italiani, come Napolitano, Prodi e Monti” non sono “parole choc, a caldo”, di Matteo Salvini sulla morte del presidente emerito della repubblica, il quale a dire del legaiolo “si porta sulla coscienza il disastro di 50 milioni di italiani, e come per Napolitano è uno da processare come traditore”. E neppure sono “parole miserevoli” come esclamano le anime-beninten­zionate del Pd, anche dell’asinistra di coloro-che-lastricano-le-vie-dell’inferno. Poiché costoro fingono di non sapere mentre Salvini – è chiaro – non sa proprio chi siano realmente, da decenni, né Ciampi né Napolitano e via con coloro che sempre <osservano-gli-ordini-supe­riori>. 

{* per spiegare alcuni termini, per chi non lo sapesse, non è male apprendere che buzzurro viene dal tedesco antico Butzen (moderno Putzer), in linguaggio popolare riferito agli immigrati che decisero di fermarsi tra l’Esquilino e la zona ex Macao del rione Castro pretorio, come ancora oggi; allora erano circa il 10% della popolazione romana dell’epoca. Vennero perciò chiamati spazzacamini; caldarrostari, ambulanti castagnari, montanari alpini semianalfabeti che nella stagione autunnale delle castagne scendono in pianura, per venderle fresche o arrostite (per cui preliminarmente pulivano le canne fumarie) e pulitori in genere; in Italia centrale equivale, estensivamente in senso figurato, a termini dialettali quali <ciafrujoni>, confusionari, casinisti, pasticcioni, ingarbugliatori, che confondono le idee; a parti invertite, è il corrispettivo dell’epiteto terroni che i <nordici> affibbiano con violenza verbale analoga all’uso di <buzzurro>, ma provocatore di doppiosenso rivolto ai <sudici> [non si dimentichi che <tombini-di-ghisa> uscendo coperto di merda dalle fogne, nel 2009 a Pontida; cantò stonando "senti che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani"; e adesso, per catturare un pugno di voti ... <sudici>, dopo la felpa per <lampedusa> si è fatto sùbito stampare un’altra felpa con su scritto <amatrice>!!], La parola <terroni> (e varianti dialettali) proviene dallo spagnolo terrones (zolle di terra, zappate dai <contadini>), che in un più remoto passato in Toscana non era riferita ai <lavoratori agricoli> servi della gleba, ma invece riguardava originariamente una disputa tutta interna alla classe padronale tra i <proprietari terrieri>, <latifondisti>, che con la terra avevano solo un <rapporto di proprietà> non avendola mai lavorata, zappata, e i <bottegai> che si ritevano dominati e vessati da quegli altri, proprietari privati della natura}.

giovedì 13 ottobre 2016

Studio su Hegel: Filosofia, Storia, Etica - Stefano Garroni



[5] - La filosofia in Hegel e il Weltbild in Holz (AAVV, 7376: 266s) - nota che Biasutti sottolinea la necessità, per la filosofia dialettica, di mettere in questione l’evidenza.

[5.1] - L’oggetto della filosofia -giusta AAVV, 7376: 267a- sembra una generalizzazione del <progetto cartesiano>, di cui in des.doc.

[5.2] - Filosofia e storia -la filosofia, che vien sempre dopo. (AAVV, 7376: 284s) -fino a che punto questa posizione dello Hegel maturo si contrappone a quella del giovane Marx, che addirittura legifera sul futuro della filosofia, indicandole la necessità di svolgere il ruolo di eredità, che il proletariato dovrà assumersi? E’ proprio vero che, per Hegel, la filosofia non ha alcun ruolo da svolgere nel presente? Comunque, questo è in modo di presentarsi del paradosso di  Marx.

[5.3] - Hegel contro Reinhold, per la concezione del <progresso>; inoltre, chiarissima l’attenzione di Hegel alla <diversità> dei costrutti storici -qui, si tratta di filosofie. (AAVV, 7376: 287).

[5.4] - Secondo Hegel, “ogni autentica filosofia conserva un permanente nucleo di verità, anche quando è caduta in desuetudine la sua forma originaria...” (AAVV, 7376: 307).