domenica 19 giugno 2016

IL FATTORE RELIGIOSO NELL'ATTUALE CONGIUNTURA LATINOAMERICANA* - Alessandra Ciattini



Nello scenario dei processi di destabilizzazione dei governi progressisti latinoamericani è opportuno interrogarsi sul ruolo giocato in essi dal fattore religioso. E ciò per due ragioni: il panorama religioso di questa regione sta radicalmente cambiando e tali cambiamenti influenzano la coscienza delle masse popolari.


Mi pare che pochi sappiano, almeno in Italia se non in Europa, che Eduard Cunha[1], presidente della Camera dei Deputati brasiliana che ha diretto il procedimento per giungere alla destituzione di Dilma Roussef, appartiene ad una chiesa pentecostale. Egli ha agito di concerto con altri deputati, di orientamento conservatore e reazionario (circa 70), che esplicitano chiaramente la loro fede religiosa e che, partecipando alla procedura di impeachment, hanno dedicato il loro voto a Dio.

A mio parere, questo fatto merita un qualche approfondimento per far sì che anche il comune lettore sia informato delle trasformazioni religiose che hanno investito negli ultimi decenni l'America Latina, su cui dibattono quasi esclusivamente gli specialisti o che sono denunciate con preoccupazione dalla Chiesa cattolica, perché da queste risulta fortemente danneggiata, essendo ridimensionato il suo ruolo egemonico tra le masse popolari. Considero tale riflessione quanto mai opportuna per delineare in maniera complessiva la strategia imperialista elaborata dagli Stati Uniti, che – dopo le sfiancanti e non popolari guerre in Afganistan e Iraq – sono tornati a guardare alla regione, che hanno sempre considerato parte integrante della loro sfera d'influenza. E ciò non solo per la grande quantità di risorse diversificate che essa contiene, ma anche perché rappresenta da sempre un mercato vicino e conveniente per la produzione statunitense. Ma ovviamente la possibilità di mantenere sotto controllo entrambe queste due dimensioni deve essere supportata da un intenso lavoro ideologico, volto a diffondere i “valori americani”, di cui si fa portavoce Obama e che sono incentrati essenzialmente sull'individualismo, sulconsumismo, sul raggiungimento del successo.

sabato 18 giugno 2016

"Totalitarismo", triste storia di un non-concetto* - Vladimiro Giacché


Come le guerre di Bush, anche il lessico ideologico contemporaneo è animato dalla lotta tra il Bene e il Male. Una lotta sanguinosa che vede contrapposti ai nostri alleati, "Mercato", "Democrazia" e "Sicurezza", due nemici mortali: "Terrorismo" e "Totalitarismo" - tra loro complici, e sempre meno distinguibili l'uno dall'altro. Come è logico, l'esecrazione generale circonda questi due tristi figuri. L'appellativo di "Totalitario", in particolare, è decisamente tra gli insulti più in voga. Di "atteggiamento totalitario" è stato recentemente accusato il ministro brasiliano per la cultura Gilberto Gil da Caetano Veloso, nel corso di una polemica sulla distribuzione di fondi pubblici. "Tipica di uno stato totalitario" è secondo Vittorio Feltri la (sacrosanta) decisione del Prc di espellere un consigliere comunale che prima ha difeso il diritto di Di Canio di fare il saluto fascista, poi lo ha imitato a beneficio del fotografo di un giornale locale. E "totalitario" è ovviamente anche ogni oppositore di Berlusconi che venga sorpreso a pronunciare con tono di rimprovero le tre parole "conflitto di interessi".

Si tratta di usi grotteschi del termine, ma a loro modo significativi.
Ancora più significativo è l'uso del termine da parte dell'ex direttore della Cia James Woolsey: il quale ha recentemente affermato che "una stessa guerra" contrappone oggi gli Usa a "tre movimenti totalitari, un po' come avveniva nel secondo conflitto mondiale". I tre "movimenti totalitari" sarebbero rappresentati dal baathismo (sunniti iracheni e Siria), dagli "sciti islamisti jihadisti" (appoggiati dall'Iran e legati agli hezbollah libanesi) e dagli "islamisti jihadisti di matrice sunnita" (ossia "i gruppi terroristici come al Qaida") [intervista a Borsa & Finanza, 5.11.2005]. Un dubbio sorge spontaneo: che cosa diavolo hanno in comune oggi un nazionalista arabo laico, un fondamentalista islamico sciita e uno sunnita?
Praticamente nulla. Eccetto una cosa: il fatto di opporsi agli Stati Uniti.

"Totalitario", insomma, è chi si oppone all'Occidente, e più precisamente agli Usa.
Niente di nuovo, in verità: le cose stanno così da più di 50 anni. La fortuna del concetto di "totalitarismo" nasce infatti nell'immediato dopoguerra, e si spiega con la necessità politica di accomunare i regimi comunisti, che rappresentavano adesso il nuovo Nemico dell'Occidente, al regime nazista appena sconfitto. A posteriori, non possiamo che constatare il pieno successo di questa operazione. Che però ha conosciuto diverse fasi.

venerdì 17 giugno 2016

L'A.B.C. del Comunismo* - Bucharin-Preobrazenskij (1919)

*Da:    https://www.marxists.org/italiano/bucharin/index.htm



Introduzione:
Il nostro programma


1. Che cosa è un programma?

Ogni partito persegue determinati obiettivi, sia esso un partito di latifondisti o capitalisti che di operai o contadini. Ogni partito deve avere i suoi obiettivi, altrimenti esso perde il carattere di partito. Se è un partito che rappresenta gli interessi dei latifondisti, esso perseguirà gli obiettivi dei latifondisti: in quale modo si possa mantenere il possesso della terra, tener soggetti i contadini, vendere il grano a prezzi più alti, ottenere prezzi d’affitto superiori, e procurarsi operai agricoli a buon mercato. Un partito di capitalisti, di industriali, avrà ugualmente i suoi propri obiettivi: ottenere mano d’opera a buon mercato, tenere in freno gli operai industriali, cercare nuove clientele alle quali si possa vendere le merci ad alti prezzi, realizzare alti guadagni e a tal fine aumentare le ore di lavoro, e soprattutto creare una situazione che tolga agli operai ogni velleità di aspirare ad un ordinamento sociale nuovo: gli operai debbono vivere nella convinzione che padroni ve ne sono sempre stati e ve ne saranno anche nell’avvenire. Questi gli obiettivi degli industriali. S’intende che gli operai e contadini hanno obiettivi ben diversi, essendo ben diversi i loro interessi. 

Un vecchio proverbio russo dice: "Ciò che è salutare per il russo, è mortale per il tedesco". Sarebbe più appropriata la seguente variante: "Ciò che è salutare per l’operaio, è mortale per il latifondista e per il capitalista". Ciò significa che il lavoratore ha uno scopo, il capitalista un altro, il latifondista un altro. Ma non tutti i proprietari si occupano con assiduità ed accortezza dei loro interessi, e più di uno vive nell’ozio e nei bagordi non curandosi nemmeno di ciò che gli presenta l’amministratore. Ma vi sono anche molti operai e contadini che vivono in questa noncuranza ed apatia. Essi ti dicono: "In un modo o nell’altro si camperà la vita, che m’importa il resto? così hanno vissuto i nostri antenati e così vivremo anche noi". Questa gente s’infischia di tutto e non comprende nemmeno i suoi propri interessi. Coloro invece che pensano al modo migliore di far valere i propri interessi si organizzano in un partito. Al partito non appartiene quindi l’intera classe, ma soltanto la sua parte migliore, la parte più energica, ed essa guida tutto il rimanente. Al partito dei lavoratori (il partito dei comunisti bolscevichi) aderiscono i migliori operai e contadini. Al partito deilatifondisti e capitalisti ("Cadetti", "Partito della libertà popolare") aderiscono i più energici latifondisti e capitalisti ed i loro servitori: avvocati, professori, ufficiali, generali, ecc. 

Ogni partito abbraccia quindi la parte più cosciente di quella classe i cui interessi esso rappresenta. Perciò un latifondista o capitalista organizzato in un partito combatterà i suoi contadini od operai con maggiore efficacia di uno non organizzato. Nello stesso modo un operaio organizzato lotterà contro il capitalista o latifondista con maggiore successo di uno non organizzato; e ciò perché egli si è reso conscio degli interessi e delle finalità della classe operaia, e conosce i metodi più efficaci e più rapidi per conseguirli.

L’insieme degli obiettivi, cui un partito aspira nella difesa degli interessi della propria classe, forma il programma di questo partito. Nel programma sono formulate le aspirazioni di una data classe. Il programma del partito comunista contiene quindi le aspirazioni degli operai e dei contadini poveri. Il programma è la cosa più importante per ogni partito. Dal programma si può sempre giudicare di chi un dato partito rappresenti gli interessi.

mercoledì 15 giugno 2016

Dialoghi di profughi XVI.* - Bertolt Brecht


LE RAZZE DEI SIGNORI. – IL DOMINIO UNIVERSALE.

Ci volle molto tempo per mettere in piedi una ditta per la disinfestazione dalle cimici, perché ci si doveva procurare il gas all’estero e non si potevano ottenere i permessi  valutari necessari. Ziffel e Kalle tenevano le loro riunioni al ristorante della stazione. Il discorso cadeva spesso sulla Germania, che in quei giorni proclamava sempre più energicamente il suo diritto al dominio universale.

ZIFFEL     L’idea della razza è il tentativo di un piccolo borghese di diventare un nobile. D’un colpo si ritrova degli antenati con cui può guardare con compiacimento, mentre guarda dall’alto in basso, altri suoi simili. Noi tedeschi ne ricaviamo persino una specie di storia. Se non eravamo una nazione, può essere che fossimo almeno una razza. In sé e per sé il piccolo borghese non è più imperialista del grosso borghese, perché dovrebbe esserlo? Ma ha una coscienza meno tranquilla e ha bisogno di una scusa quando vuol farsi largo. Non gli piace dar gomitate nello stomaco se non è nel suo buon diritto: vuole che quello di calpestare il prossimo sia un suo preciso dovere. Le industrie devono avere uno sbocco sul mercato, e scorra pure il sangue. Il petrolio è più denso del sangue. Ma per un mercato non si può fare la guerra, sarebbe sconsiderato; la si deve fare perché si è una razza di signori. Cominciamo coll’includere nel Reich tutti i tedeschi, e non la smettiamo prima di averci incluso anche i polacchi e i danesi e gli olandesi. Cos’ li proteggiamo. I buoni signori sono tali a loro proprio vantaggio.

KALLE     Il problema per loro è come fabbricare abbastanza rappresentanti di una razza di signori. Al campo di concentramento il comandante ci faceva correre per tre ore di seguito su è giù nel cortile tra le baracche, poi ci faceva fare duecento piegamenti. Infine ci schierava su due file e teneva un discorso. Noi tedeschi siamo un popolo di signori, urlava con la sua voce stridula. A voi luridi maiali vi liscerò io la schiena a dovere finché vi avrò trasformati in tanti rappresentanti di una razza superiore, da poter trasformare al mondo senza arrossire. Come volete conquistarlo, il dominio del mondo, se non siete altro che pelandroni e pacifisti? La pelandrone ria e il pacifismo li lasciamo alle razze dell’occidente imbastardite dai negri. Ogni singolo tedesco è razzialmente tanto superiore a quella plebaglia quanto un abete a un fungo. Vi farò sputar sangue finché sarete arrivati a capirlo e mi ringrazierete in ginocchio per aver fatto di voi, per incarico del Führer, delle tempre di signori.

ZIFFEL     E lei come reagiva a questa pretesa sconveniente?

martedì 14 giugno 2016

La nozione di popolo in Marx, tra proletariato e nazione* - Isabelle Garo**

*Da:      contretemps                    https://traduzionimarxiste.wordpress.com/
**Isabelle Garo è una filosofa marxista, ha pubblicato L’idéologie ou la pensée embarquée(La fabrique, 2009), Foucault, Deleuze, Althusser. La politique dans la philosophie (Demopolis, 2011) e L’or des images. Art – Monnaie – Capital (La ville brûle, 2013).


La questione europea ha rilanciato i dibattiti, in seno alla sinistra radicale, sull’internazionalismo. Si è progressivamente affermata la necessità di ripensare a un internazionalismo concreto, il quale rifiuti l’alternativa disastrosa tra il nazionalismo razzista dell’estrema destra e l’internazionalismo del capitale incarnato dall’Unione europea, rinunciando altresì alle semplificazioni di un internazionalismo astratto.

Quest’ultimo postula, proprio in ragione dell’internazionalizzazione del capitale, che sarebbero state risolte le questioni strategiche dell’articolazione degli spazi – locali, nazionali e internazionali – nella definizione di un progetto di rottura anticapitalista, e dell’appartenenza nazionale del proletariato. È a quest’ultimo problema, in particolare, che tenta di rispondere Isabelle Garo nel testo seguente, discutendo il concetto di popolo in Marx e le sue prese di posizione riguardo ai movimenti di liberazione nazionale.


La questione del popolo in Marx è  complessa, a dispetto delle tesi troppo nette che spesso gli vengono attribuite in proposito. A una prima lettura, in effetti, si è portati a pensare che Marx costruisca la categoria politica di proletariato proprio in contrapposizione a quella classica di popolo, eccessivamente inglobante e soprattutto omogeneizzante, la quale, inoltre, occulterebbe i conflitti di classe. In tal senso, la nozione di popolo sarebbe  chimerica, foriera di pericolose illusioni laddove politicamente strumentalizzata.

Tuttavia, se Marx diffida di qualsiasi concezione organica di popolo, riprende comunque il termine in svariate occasioni e, in particolare, quando si occupa delle lotte nazionali del suo tempo, in specie se mirano a conquistare l’indipendenza dalle potenze colonizzatrici. E vi ricorre ugualmente se si tratta di definire le specificità nazionali, caratterizzanti i rapporti di forza sociali e politici costantemente singolari, i quali, a suo modo di vedere, vanno sempre analizzati in un tale quadro nazionale. 

Infine, la parola popolo designa un certo tipo di alleanza di classe in un contesto di conflitti sociali e politici di grande ampiezza.

lunedì 13 giugno 2016

Sguardi incrociati sui luddisti ed altri distruttori di macchine* - Michel Barillon

*Da:   CAIRN.INFO        http://francosenia.blogspot.it/
   
"Che il pensiero di Marx sia figlio della rivoluzione industriale lo sappiamo tutti, come sappiamo che non sarebbe esistito nessun Marx senza il progressivo e sempre più compiuto sviluppo del modo di produzione capitalistico. Ho spesso pensato (ma non è solo l'opinione mia) che lo stesso Das Kapital rappresenti in fondo il punto più alto dell'autocoscienza della stessa società capitalistica. Oltre questo punto tale società, sul piano del pensiero filosofico, è regredita a forme di irrazionalismo e non ha più toccato la ricchezza e la profondità di visione di Marx. Dunque, io credo che mettere Marx dalla parte del torto non abbia un significato storico effettivo.

La cosa importante non è, a mio avviso, che egli personalmente credesse o meno nelle "magnifiche sorti e progressive" del modo di produzione capitalistico, ma che ne abbia saputo mettere in chiaro la struttura e la dinamica inevitabilmente contraddittorie anche in assenza, o nei periodi di indebolimento, del conflitto 
capitale-lavoro.
Sappiamo benissimo che questa non è la sola contraddizione del capitale e come quest'ultimo entri  in conflitto con se stesso e con la propria dinamica di sviluppo anche senza lotta di classe operaia. In fondo, la crisi del 2008 non ci dimostra anche questo?"                            [Aristide Bellacicco (C.F.M. Stefano Garroni)] 


Il ruolo della tecnica nella problematica del mutamento sociale.   Pubblicato su "Ecologie & politique" n°37 2008/3 

Quelli che ci trattano da "distruttori di macchine", dovremmo trattarli noi, in cambio, da "distruttori di uomini."
Günther Anders [*1] 

Per una rilettura della Rivoluzione Industriale

Recentemente, nello spazio di un anno, senza alcuna concertazione, le case editrici francesi hanno pubblicato quattro opere che riguardano la distruzione delle macchine [*2]. Fino ad allora, gli editori, riflettendo in questo l'attitudine della maggior parte degli storici, avevano dimostrato assai poco interesse alle rivolte contro le macchine avvenute all'alba della Rivoluzione industriale. Ciò era essenzialmente dovuto al fatto che quei movimenti venivano percepiti come la manifestazione di un "oscurantismo tecnologico", una reazione arcaica nei confronti di una dinamica storica che si presume si svolgesse sotto gli auspici del "Progresso". Lo attestano i manuali di storia: così, quando i fatti in questione non vengono puramente e semplicemente ignorati, vengono presentati come un "reazione primitiva" [*3]. Nell'arte della negazione, David S.Landes appare come un virtuoso: su circa 750 pagine di un libro consacrato alla nascita e alla crescita del capitalismo industriale, non dice niente dei disordini sociali che hanno segnato l'inizio dell'industria tessile in Inghilterra nei primi decenni del 19° secolo. Ai suoi occhi, "la Rivoluzione industriale insieme al matrimonio della scienza con la tecnica costituiscono il culmine di millenni di progresso industriale". E tale acme apre una nuova era di espansione illimitata, a partire da un "progresso cumulativo della tecnica e della tecnologia, un progresso autonomo" ancora più sfrenato dal momento che tradizioni e pregiudizi vengono abbandonati [*4]. Anche Paul Mantoux, che però disserta a lungo sul luddismo e su altre forme di distruzione delle macchine, usa ripetutamente l'epiteto "desueto" per descrivere il metodo di industria a domicilio, le regole che lo disciplinavano oppure gli argomenti portati avanti dagli operai al fine di difendere il loro mestiere [*5].

venerdì 10 giugno 2016

Il disagio della “totalità” e i marxismi italiani degli anni ’70* - Roberto Finelli

*Da:    http://www.dialetticaefilosofia.it/
Vedi anche;    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/i-marxismi-in-italia-roberto-finelli.html

“È preferibile ‘pensare’ senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale […] o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente? […] Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa […] Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto in cui è giunto il pensiero mondiale più progredito pensare coerentemente e in modo unitario” 
A. Gramsci, Quaderni del carcere


1. Una rivoluzione passiva.

Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli intellettuali italiani hanno abbandonato, in massa e in modo definitivo, il marxismo. Il fenomeno non è stato solo italiano, ma in Italia, per il radicamento e la lunga storia che il marxismo, nelle sue varie accezioni, aveva avuto, quel congedo significava la conclusione e la disgregazione di un mondo, di una comunanza di idee, di linguaggio, di confronti e di scontri. “Nell’arco di quattro o cinque anni, fra il 1976 e il 1981, sprofondarono in una rapida obsolescenza modelli di pensiero, criteri di valutazione morale e psicologica, forme della sensibilità. E con le ‘cose’ cambiarono le ‘parole’. A sottolineare il carattere radicale di questo fenomeno di trasformazione dei modi di pensare di tutto un ceto sociale e delle sue propaggini immediate qualcuno impiegherà più tardi la metafora della mutazione antropologica e genetica”1 .

Da tale passaggio socio-culturale, che ha segnato profondamente l’intellettualità e l’ideologia italiana, è derivata insieme ad altri fattori, quella rivoluzione passiva che i ceti popolari e i gruppi sociali più radicali hanno vissuto e subìto durante l’ultimo quarantennio, e continuano tuttora dolorosamente e drammaticamente a subire. Perché a me sembra che quanto sia venuto accadendo negli ultimi decenni, sul piano storico-sociale, nel mondo occidentale, e particolarmente in Italia, sia definibile appunto come una rivoluzione passiva nel senso più rigorosamente gramsciano di questa espressione, quale rivoluzione-restaurazione: cioè quale realizzazione reazionaria e regressiva di un programma di rivoluzione etico-politica originariamente avanzato dai ceti subalterni2 .

Infatti non rientra, nel canone, appunto, di una rivoluzione passiva l’assunzione e la trasformazione/svuotamento dei valori più positivi ed innovativi del ’68 nella realtà di un’«autorealizzazione amministrata»3 , ossia di un’affermazione e di una valorizzazione del Sé ricondotte a funzione della tecnologia e delle macchine dell’informazione di cui s’è avvalsa l’ultima rivoluzione industriale?

giovedì 9 giugno 2016

Das Kapital nel XXI secolo* - Giorgio Gattei

*Da:     Noi Restiamo





È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione.
Risvegliare speranze fantastiche (non di altro si era parlato), lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.
In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo.
L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!
[Karl Marx, Colloqui (cur. H.M. Enzensberger – Annenkov su Weitling)]


Seconda parte: Das Kapital, secondo libro       https://www.youtube.com/watch?v=eev-qyVP5HI
Terza parte; Das Kapital, terzo libro       https://www.youtube.com/watch?v=fzcGZik0PkE

Leggi anche:   http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/universita-e-ricerca/quel-capitale-pericoloso-tutte-le-formule-di-piketty/ 


mercoledì 8 giugno 2016

Lavoro digitale e imperialismo *- Christian Fuchs**

** Christian Fuchs è professore di Social Media al Communication and Media Research Institute dell’Univerità di Westminster, e co-editore della rivista tripleC: Communication, Capitalism & Critique. 


È trascorso ormai un secolo dalla pubblicazione di L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) di Lenin e L’economia mondiale e l’imperialismo (1915) di Bucharin, i quali, insieme a L’accumulazione del capitale (1913) di Rosa Luxemburg, identificavano l’imperialismo come una forza e uno strumento del capitalismo. Era l’epoca della guerra mondiale, dei monopoli, delle leggi antitrust, degli scioperi per gli aumenti salariali, dello sviluppo da parte di Ford della linea di assemblaggio, della Rivoluzione d’Ottobre, di quella messicana e di quella, fallita, tedesca, e tanto altro ancora. Un momento storico che ha registrato la diffusione e l’approfondirsi della sfida globale al capitalismo.

Questo articolo si pone l’obiettivo di esaminare la divisione internazionale del lavoro attraverso le classiche concezioni marxiste  dell’imperialismo, estendendo tali idee alla divisione internazionale del lavoro nell’ambito della produzione di informazioni e tecnologie dell’informazione odierne. Argomenterò la tesi secondo la quale il lavoro digitale, in quanto nuova frontiera dell’innovazione e dello sfruttamento capitalisti, ha un ruolo centrale nelle strutture dell’imperialismo contemporaneo. Attingendo a questi concetti classici la mia analisi mostra come, nel nuovo imperialismo, le industrie dell’informazione formino uno dei settori economici più concentrati; come iper-industrializzazione, finanza e informazionalismo vadano di pari passo; come le società multinazionali dell’informazione siano radicate negli stati-nazione ma operino globalmente; e infine, quanto le tecnologie dell’informazione siano divenute uno strumento di guerra.(1)

Definire l’imperialismo

Nel suo “Saggio Popolare”, così è sottotitolato il suo scritto del 1916, Lenin definisce l’imperialismo come
il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitali ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici.(2)

martedì 7 giugno 2016

Dialoghi di profughi XV.* - Bertolt Brecht



DOVE SI PARLA DEL PENSARE COME DI UN PIACERE. – DEI PIACERI. – CRITICA DELLE PAROLE. – LA BORGHESIA NON HA IL SENSO DELLA STORIA.



KALLE    Mi interessa molto scoprire in lei, un intellettuale, tanta antipatia contro la necessità di pensare. Eppure lei non ha nulla contro la professione.

ZIFFEL    Tranne il fatto che è appunto una professione.

KALLE     Ecco i guai del progresso nell’epoca moderna: si è creata una vera e propria casta, appunto di intellettuali, che devono provvedere al pensiero e sono allenati a posta per questo. Devono dare in affitto agli imprenditori la loro testa, come noi le nostre braccia. Naturalmente lei ha l’impressione di pensare per la collettività; ma è come se noi credessimo di fabbricare automobili per la collettività – e invece non lo crediamo affatto, perché sappiamo benissimo che è solo per gli imprenditori, e la collettività può andare a farsi benedire!

ZIFFEL     Lei vuol dire che io penso a me stesso solo in quanto penso a come posso riuscire a vendere ciò che penso, e che ciò che penso non è per me, cioè per la collettività?

KALLE     Si.

ZIFFEL     Ho letto che in America, dove l’evoluzione è più progredita, i pensieri sono ormai equiparati a una qualunque merce. Uno dei giornali più influenti scrisse una volta: «Il compito principale del presidente consiste nel vendere la guerra al Congresso e al paese”. Voleva dire: affermare l’idea di entrare in guerra. In discussioni su problemi scientifici o artistici si dice spesso, per esprimere approvazione: «Senta, questa la compro”. La parola persuadere è semplicemente rimpiazzata da quella più calzante: vendere.

KALLE     In simili circostanze è chiaro perché ti viene l’avversione per il pensare. Non è un piacere.

domenica 5 giugno 2016

Le origini agrarie del capitalismo* - Ellen Meiksins Wood**

*Da:     Monthly Review        traduzioni marxiste        https://zeroconsensus.wordpress.com/
**Ellen Meiksins Wood (1942-2016), studiosa del pensiero politico e storica marxista, si è occupata di temi che spaziano dalla democrazia ateniese alle origini del capitalismo, sino all’imperialismo contemporaneo 
Vedi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/marx-e-laccumulazione-originaria.html 


Una delle più consolidate convenzioni della cultura occidentale è l’associazione del capitalismo con la città. É invalsa la supposizione che esso sia nato e cresciuto nelle città. Non solo, tutto ciò implica che qualsiasi città – con le sue caratteristiche attività di traffico e commercio – sia per natura, e sin dagli inizi, potenzialmente capitalista, e come solo ostacoli esterni abbiano impedito a ogni civiltà urbana di dare i natali al capitalismo. Solo la religione sbagliata, la forma di stato sbagliata, o ogni altro genere di catene ideologiche, politiche e culturali che abbiano frenato le classi urbane, hanno impedito al capitalismo di sorgere ovunque e comunque, sin da tempi immemorabili – o perlomeno da quando la tecnologia ha permesso un’adeguata produzione di eccedenze.

Ciò che spiega lo sviluppo del capitalismo in occidente, secondo questo punto di vista, è l’autonomia delle sue città e della loro classe per eccellenza: la borghesia. In altre parole, il capitalismo è emerso in occidente non tanto a causa di ciò che era presente bensì a causa di ciò che era assente: i vincoli alle pratiche economiche urbane. In tali condizioni è stata sufficiente una più o meno naturale espansione del commercio per innescare lo sviluppo del capitalismo sino alla sua piena maturità. Unico fattore assolutamente necessario la crescita quantitativa, la quale si è verificata inevitabilmente col passare del tempo (in alcune versioni, ovviamente, agevolata ma non causata originariamente dall’etica protestante).

Ci sarebbero numerose obbiezioni che si potrebbero rivolgere alle ipotesi di una naturale connessione tra città e capitalismo. Tra le tante, il fatto che esse tendano a naturalizzare il capitalismo, così da occultarne il carattere distintivo come specifica forma sociale storicamente determinata, con un inizio e (senza alcun dubbio) una fine. La propensione a identificare il capitalismo con la città, e il commercio urbano, è stata generalmente accompagnata dall’inclinazione a considerarlo, più o meno automaticamente, come una conseguenza di pratiche antiche come l’umanità; se non, addirittura, un’automatica conseguenza della natura umana, la “naturale” inclinazione, nelle parole di Adam Smith, a “trafficare, barattare e scambiare”.

Probabilmente il più salutare correttivo a simili assunzioni – nonché alle loro implicazioni ideologiche – consiste nel riconoscere che il capitalismo, con le sue particolari forme di accumulazione e massimizzazione dei profitti, è nato non nelle città ma nelle campagne, in un luogo specifico, e molto tardi nella storia umana. Esso non richiede una semplice estensione o espansione dei traffici e degli scambi, ma una completa trasformazione delle più basilari pratiche e relazioni umane, una rottura con secolari modelli d’interazione umana con la natura, finalizzati alla produzione di fondamentali necessità della vita. Se la tendenza a assimilare il capitalismo con la città è associata con quella a oscurare la specificità del capitalismo, allora il modo migliore per mettere in luce quest’ultima e quello di considerare le origini agrarie del capitalismo.

Che cos’è il “capitalismo agrario”

I FISIOCRATICI* - Stefano Garroni

Da:    https://www.facebook.com/notes/403334743874/
A questo link: (https://www.youtube.com/watch?v=y0EE0Uz9eYA&list=PL5E51A0A64CA57B81) è possibile ascoltare la registrazione audio di spiegazione e discussione di questo articolo.   


Storia del termine <economia > e simili.

“Il termine «economia» deriva da Aristotele. Essa significa scienza riguardante le leggi dell'economia domestica … L'espressione <economia politica> entrò in uso all'ínizio del XVII secolo; fu introdotta dal Montchrétien, che nel 1615 pubblicò un'opera intitolata Traité de l'économie politique. L'aggettivo <politica> doveva significare che si trattava delle leggi dell'economia pubblica; Montchrétien si occupava infatti nella sua opera, essenzialmente, di questioni di finanza pubblica. Col tempo il termine economia politica si generalizzò, finendo per significare lo studio dei problemi della attività economica della società... E’ solo 140 anni dopo il lavoro di Montchrétien, che compare un altro titolo economia politica: si tratta dell’articolo di J.J. Rousseau sull’Enciclopedia illuministica (Kramm, 5641: 21b).
Consideriamo le espressioni economia politica e economia sociale come sinonimi. 

Talvolta l' economia politica viene definita anche come la scienza dell’economia sociale... In Francia, in base alla tradizione iniziata nel 16I5 dal Montchrétien, il termine economia politica fu ed è ancor oggi universalmente adottato [1]...Il termine <economia sociale> era abbastanza diffusamente impiegato in Polonia alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo. Questo termine aveva anche sostenitori in altri paesi. In Italia, Luigi Cossa intitolò il suo saggio pubblicato nel 1891 Economia sociale. ... In Inghilterra entrò nell'uso -certamente sotto l'influsso della terminologia francese- il termine economia politica. Fu impiegato per la prima volta da James Steuart, che pubblicò nel 1767 un'opera intitolata Inquiry into the Principles of Political Economy. Secondo McCulloch, l’economia politica è la scienza di quelle leggi, che regolano la produzione, l’accumulazione, la distribuzione e il consumo dei beni necessari, utili e piacevoli. (Kremm, 5641: 23).

venerdì 3 giugno 2016

Dov'è il comunismo?* - Gianfranco Pala



                       Profitto, plusvalore, guadagno e ricchezza reale 


È il caso di rammentare sùbito – onde evitare tanti equivoci nati da una lettura troppo affezionatamente ammiratrice di Marx – che lui quando coniò il titolo del futuro iv libro storico del Capitale <“Teorie sul plusvalore”> lo pensò unicamente in quanto rivolto alla ricerca, del tutto tralasciata o ignorata dagli economisti borghesi (classici e volgari), dell’“origine sociale del profitto” —— ovvero del guadagno dell’imprenditore [proprietario privato] capitalista in sèguito allo scambio contro denaro di merci ottenute entro quello specifico modo di produzione. Ma devono essere chiare due questioni, sia che: 1) questa particolare analisi è circoscritta soltanto al modo di produzione e circolazione della merce capitalistica (dove c’è valore e plusvalore); 2) un qualsiasi proprietario privato, in altri modi di produzione (per ora solo precedenti, i <futuri> per la loro significazione sono ineffabili), può trasformare il mero denaro che possiede, in qualsiasi altro oggetto che desideri o trarne eventualmente un vantaggio monetario. Tuttavia unicamente la rappresentazione del capitale in denaro diviene tale solo e soltantose esso denaro\capitale è funzionalmente legato a comprare come merce la forza-lavoro altrui per valorizzarsi: ma un vantaggioso guadagno monetario [che gli agenti e i contabili del capitale denotano come “profitto” – e per Marx il tasso del profitto ha cause empiriche e forme diverse dal tasso di plusvalore che pure lo determina concettualmente] si può ottenere in tanti modi diversi dall’uso funzionale della forza-lavoro altrui non pagata, cioè dall’aver trasformato quel <denaro in quanto tale> in capitale per far produrre plusvaloremediante pluslavoro.

Di simili casi assai diversi tra loro e non capitalistici nel passato (mitico, reale o fantastico) ce ne sono a iosa: da Creso a Mida, da imperatori romani, egizi o cinesi, a molti re come Luigi xiv “re sole”, per non dire di uno stuolo di papi, nobili e via notabilando, fino ... a Paperon de’ Paperoni. Dunque la fine del plusvalore, alla prova della storia, può voler dire in via esclusivamente preliminare che il denaro guadagnato – o meglio arraffato rubato sottratto ingannevolmente ai più ingenui, miserabili o deboli – da parte di un gruppo sociale dominante con arroganza e violenza; la qual cosa non implica la cessazione di quella appropriazione indebita.

giovedì 2 giugno 2016

CONOSCENZA,SAPIENZA,SAGGEZZA: il triangolo che non c'è più - Silvano Tagliagambe


Dialoghi di profughi XIV.* - Bertolt Brecht



DOVE SI PARLA DI DEMOCRAZIA.  – PECULIARITA’ DELLA PAROLA «POPOLO». – LA MANCANZA DI LIBERTA’ SOTTO IL COMUNISMO. – LA PAURA DEL CAOS E LA PAURA DI PENSARE.

Quando di incontrarono di nuovo, Kalle propose di cambiare locale. Gli pareva che un ristorante automatico a meno di dieci minuti di distanza, servisse un caffè migliore. Il grasso fece la faccia scura e parve non aspettarsi niente di buono da un cambiamento di ambiente. Quindi restarono dov’erano.

ZIFFEL     La democrazia a due è molto difficile. Dovremmo determinare il voto in base ai chilogrammi, così potrei avere la maggioranza. Sarebbe un sistema plausibile, dato che il mio sedere dipende da me, e quindi possiamo supporre che potrei indirlo a votare per me.

KALLE     Nel complesso a giudicare dall’aspetto lei è senz’altro democratico, ciò che dà già di per sé un’impressione di giovialità. Per democratico si intende un atteggiamento amichevole, naturalmente in un signore; in un morto di fame è piuttosto spudoratezza. Conoscevo un tizio, un cameriere, che si lamentava molto di un ricco commerciante di grano che non gli dava mai una mancia decente, perché, come disse forte una volta a un altro cliente, era un vero democratico e non voleva umiliare i camerieri. «Io pure non accetterei mai una mancia, - disse, - e dovrei considerare loro inferiori a me?».

ZIFFEL     Non credo che si possa parlare dell’essere democratici come di una qualità.

KALLE     Perché no? Non trova che persino i cani, per fare un esempio, quando hanno pappato ben bene hanno un’aria più democratica di quando sono digiuni? L’aspetto esteriore deve avere un significato, penso anzi che sia la cosa principale. Prenda la Finlandia: ha un aspetto democratico, ma se lei leva via l’aspetto e dichiara di infischiarsene, che cosa resta? Certo non democrazia.

ZIFFEL     Ho idea che è meglio che ci andiamo, in quel suo bar automatico.