giovedì 26 settembre 2013

Né questo, né quello. Polanyi riletto - Alberto Sobrero -

http://177ermanno.blogspot.it/2013/09/karl-polanyi-e-la-grande-trasformazione.html
 

 Questo intervento non ha la pretesa di dire molto di nuovo sulla figura e sul pensiero di Karl Polanyi. È davanti a tutti il recente ritorno editoriale della sua opera, le continue riedizioni di The Great Transformation (negli Stati Uniti nel 2008 e nel 2010, in Italia nel 2000 e nel 2010; e ormai in altre quindici lingue, fra le quali, più di recente, il cinese, 2007, il finlan­dese, 2009, il turco, lo sloveno, il greco etc.), i tanti saggi di commento e approfondimento (ricordo solo quelli scritti al tempo della crisi: Dale 2009, 2010b; Joerges, Falke 2011; Hann, Hart 2009, 2011; Graeber 2011; in italiano, Laville, La Rosa 2008; Caillé, Laville 2011) e, fatto nuovo e interes­sante, la presenza delle idee di Polanyi nell’attualità del dibattito politico ed economico1.

Solo tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, in quel periodo che Hann e Hart chiamano “l’età dell’oro dell’antropolo­gia economica”, l’interesse per l’opera di Polanyi ha conosciuto una simile intensità (Wilk 1996; Carrier 2005; Hann, Hart 2011). C’era allora la con­troversia antropologica (confusa e magari ingannevole) fra un approccio formalista e un approccio sostantivista, c’era, poco più tardi, il dibattito marxista e strutturalista sulla nozione di modo di produzione, ma prin­cipalmente c’era sullo sfondo un incessante interrogarsi sul rapporto fra capitalismo trionfante e quello che allora si chiamava Terzo Mondo.

In quegli anni abbiamo letto Polanyi grazie ad Alfredo Salsano, che ne ha introdotto l’opera in Italia, e a Edoardo Grendi, che ne offrì fra i primi un commento, ma per lo più lo leggemmo male: o forzandolo nella lezione dei Grundrisse marxiani, o mettendolo accanto ai libri di Marcuse, Fromm, Adorno. In ogni caso una compagnia un po’ stretta. Chi scrive deve un interesse, forse solo in parte diverso, alla passione e alle aperture
interdisciplinari di Salvatore Puglisi, docente e maestro di Paletnologia alla “Sapienza”. Durante i seminari “autogestiti” leggevamo i neo-evolu­zionisti, Gordon Childe (altro autore molto amato dai giovani “marxisti”) e Polanyi. Era il 1974, quasi quarant’anni fa.

martedì 17 settembre 2013

Teoria della crisi. 100 tesi - Vladimiro Giacché -

Marx definisce il capitale impiegato per comprare l'uso della forza lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro. Questo perché macchinari sempre più sofisticati e costosi aumentano la forza produttiva del lavoro e procurano al capitalista che li impiega per primo un vantaggio competitive sugli altri (vantaggio che poi viene perduto non appena l’uso delle nuove tecnologie si generalizza). In ogni caso, si verifica “una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento” (Marx 1863-5: 110). Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita della “composizione organica del capitale”. Si tratta di “un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro” (ibidem). La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto – ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) – diminuisca. Questa, in sintesi, la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”.                                                                                                     
                                           

La crisi che scoppia nel 2007 ha cause di breve, medio e lungo periodo, così sintetizzabili:
- nel breve è stata alimentata dal parossismo finanziario (e dal sovraindebitamento dei lavoratori, soprattutto dei paesi anglosassoni);
- nel medio periodo è originata da sovrainvestimenti (grande crescita degli investimenti nei paesi di nuova industrializzazione a cui non ha corrisposto una proporzionale diminuzione nei paesi industrialmente avanzati) e sovraconsumo pagati a debito.
- nel lungo periodo nasce dalla caduta del saggio di profitto cui si è reagito con la finanziarizzazione, resa possibile tra l’altro dallo status particolare del dollaro (valuta internazionale di riserva che però dal 1971non è legata ad alcun sottostante)

“Karl Marx aveva ragione. A un certo punto il capitalismo può autodistruggersi”  (Roubini2011a).                                                                                                                     “le imprese stanno tagliando posti di lavoro perché non c’è abbastanza domanda finale. Ma tagliare posti di lavoro riduce i redditi da lavoro, aumenta la disuguaglianza e riduce la domanda finale” (Roubini2011b).                                                                                                                                                                                                                                                     “Il pagamento dei prestiti esteri e il ritorno alla stabilità delle valute erano considerati (anni 30) il simbolo della razionalità politica e nessuna sofferenza dei singoli, nessuna violazione di sovranità erano considerati un sacrificio troppo grande per riacquistare l’integrità monetaria. Le privazioni di coloro che per la deflazione rimanevano disoccupati, la miseria di pubblici impiegati licenziati senza un soldo di liquidazione e anche l’abbandono di diritti nazionali e la perdita di libertà costituzionali, erano considerati un buon prezzo da pagare per soddisfare i requisiti di bilanci solidi e di valute altrettanto solide, questi apriori del liberalismo economico” (Polanyi 1944: 182).
Va riaffermata la liceità, e anzi la necessità, di riprendere i grandi temi della programmazione dello sviluppo e della pianificazione della produzione. Si tratta di un’esigenza che può essere variamente declinata. Il modo più garbato per farlo è proporre, secondo la formulazione di Nouriel Roubini citata più sopra, il ritorno «a un corretto bilanciamento tra mercati e fornitura di beni pubblici». Ipotesi che secondo lo stesso autore ha una sola alternativa: «come negli anni Trenta, sta­gnazione prolungata, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capi­tali, crisi finanziaria, insolvenze dei debiti sovrani e grande instabilità sociale e poli­tica» (Roubini 2011 b). Se si eccettuano i controlli sui capitali, è il film che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.


lunedì 16 settembre 2013

La forma/valore - Capitale, libro 1, capitolo 1, §. 3. - Stefano Garroni -


Il testo inizia riproponendo la ben nota tesi marxiana a proposito dell’essenziale ambiguità della merce, in quanto tale.

Essa ha un duplice carattere: è oggetto utile e, dunque, è dotata di valore d’uso (Gebrauchswert); ma, per esser merce appunto, è anche contemporaneamente portatrice di valore (Wert).

Detto in breve, ciò significa che la merce ha sia una Naturalform, che una Wertform. Qui va subito notata una puntualizzazione di Marx.

In pieno contrasto con la rude oggettività sensibile delle merci in quanto corpi materiali (Warenkörper), neanche un atomo della loro naturale materialità (Naturstoff) entra nella oggettività  delle merci in quanto portatrici di valore/Wert.[1]

Dunque, la merce in quanto tale ha, nello stesso tempo (ma ovviamente secondo prospettive diverse), caratteristiche opposte, che sotto lo stesso profilo sarebbero esclusive l’una rispetto all’altra: per poter essere mera portatrice di valore in generale, la merce deve –come conditio sine qua non- avere addirittura un tipo determinato di valore, ovvero il valore d’uso.

.Ciò che conta notare di nuovo è che questa contraddittorietà di predicati (o qualità) la merce deve possederla nello stesso tempo.

Ciò non impedisce, tuttavia, un’altra osservazione: almeno a questo livello dell’analisi marxiana, in tanto una merce può essere portatrice di valore/Wert, in quanto entri sul mercato già essendo un valore d’uso/Gabrauchswert.

Dunque, la merce è –contemporaneamente (sincronicamente)- valore d’uso e valore; ma in tanto può esibire questa contemporaneità, in quanto è un valore d’uso che –dapprima- entri nel mercato, per trasformarsi lì in valore. Dunque, sincronia, ma anche diacronia.

domenica 15 settembre 2013

Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione "civilizzatrice" del capitale*. - Riccardo Bellofiore -

*Da:  https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts


"Può forse essere il caso di notare che è nello stato di prosperità, quando la società sta procedendo verso nuove acquisizioni, piuttosto che quando essa ha acquisito tutta la sua ricchezza, che la condizione del povero che lavora, cioè della grande massa del popolo, sembra essere più felice e confortevole. Essa è dura nello stato stazionario, e miserevole in quello di decadenza. Lo stato di progresso è in realtà lo stato felice e sano di tutti i diversi ordini della società."(Adam Smith, Ricchezza , p. 81)
                                                                                        
"Supponiamo d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, ed avrei quindi goduto, nel corso dell'attività, una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come oggettuale, sensibilmente visibile  e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque d'aver oggettualizzato l'essenza umana ed aver quindi procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D'essere stato per te l'intermediario fra te ed il genere, e dunque di venir inteso e sentito da te stesso come un'integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D'aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque d'aver confermato  e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comune ed umana."(Marx, Opere , vol. III, 1843-1844, Editori Riuniti, Roma, p. 247. Corsivi nel testo) 
        
"Compito della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà, che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica"  
(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx , Laterza, Bari 1973, p. 189)




(pubblicato in due parti come: (a) Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione ‘civilizzatrice’ del capitale,  in “Teoria politica”, n. 2, 1991, pp. 69-96; (b) Cambiare la natura umana. Ancora su economia politica e filosofia della storia, “Teoria politica”, n. 3, 1991, pp. 63-98)

sabato 14 settembre 2013

DUE PAGINE SULLA DIALETTICA DOBB SARTRE - Stefano Garroni -



IL mio intento è disegnare un significato di dialettica che, da un lato, sia filologicamente sostenibile e, dall’altro, si mostri in sintonia con esigenze e orientamenti profondi della nostra epoca. Mia intenzione, insomma, è dimostrare che esiste un senso di dialettica, storicamente fondato e, ad un tempo, capace di raccogliere ed esprimere quanto c’è di vitale nella cultura contemporanea. Allo scopo mi servo di due pagine di altrettanti autori che, sia pure diversamente, hanno rappresentato momenti importanti della riflessione teorica novecentesca sulla dialettica: l’economista inglese Maurice Dobb e il filosofo francese J-P. Sartre.

Non casualmente ho usato l’espressione «mi servo»: in effetti, utilizzo a volte (quasi sempre?) quanto scrivono i due Autori, anche per ordinare riflessioni, che mi derivano da altre fonti. L’operazione è legittima, esattamente perché dichiarata: ciò che conta è sapere che non necessariamente il mio commento a Dobb o Sartre è rispettivamente ‘dobbiano’ o ‘sartriano’, dacché rinvia, invece, ad altre sollecitazioni, che per altro risultano dalla bibliografia citata..
Il disegno, che dovrebbe risultare da tutto ciò, non pretende certo di essere esaustivo, ma sì orientativo - nel senso di orientare il lettore verso la comprensione della fertilità, ancora oggi, della prospettiva dialettica.

1. In M. Dobb, 1974: 70s, troviamo un’esposizione dell’approccio dialettico, che ci conviene riportare quasi integralmente, per via della sua precisione ed essenzialità: riflettere sulle singole parti di tale esposizione ci consentirà subito di afferrare alcuni termini essenziali del problema «dialettica». Iniziamo.

“Secondo la concezione marxista della storia (dunque, posta la marxista «filosofia della storia»: che d’ora in avanti indicherò con FDS), il progresso ha visto succedersi vari sistemi di classe, ciascuno generante le condizioni tecniche e i connessi modi di produzione del tempo, e a sua volta condizionato da essi. Gli antagonismi di classe, fondati sui rapporti che le diverse sezioni della società hanno con il sistema di produzione predominante, sono stati la fondamentale forza motrice del processo, del passaggio da una forma a quella successiva. Come risulta chiaramente da un esame delle sue origini, anche il capitalismo è un sistema di classe; diverso per aspetti di essenziale importanza dai sistemi precedenti, ma pur sempre fondato su una dicotomia fra i padroni proprietari e i soggetti espropriati. Era ben naturale che Marx guardasse alle peculiarità di questo rapporto di classe per trovare una chiave che gli consentisse d’interpretare il ritmo essenziale della società capitalistica, di ritrovare gli squilibri, le tendenze al movimento della società nei suoi fondamenti e non solo sui suoi fondamenti, dietro il velo delle armonie economiche, che un’analisi limitata semplicemente ai rapporti di scambio in un libero mercato sembrava rivelare.“ (sott. mie, S.G.).
Notiamo subito che M. Dobb, pur volendo illustrare la teoria marxiana circa il modo capitalistico di produzione (kapitalistische Produktionsweise, d’ora in avanti KPW) - dunque, un argomento singolare, determinato, specifico avverte, tuttavia, la necessità (in piena coerenza con l’impostazione di Marx) di fare di una teoria generale (la FDS) il punto di partenza.

giovedì 12 settembre 2013

Attualità del “Germinal” di Emile Zola - Aristide Bellacicco -

1
In “Germinal” di Zola il protagonista assoluto della narrazione è il dominio di classe e il conflitto che ne scaturisce. La forma corale del romanzo risponde a quanto l’autore vuol mettere in luce: i personaggi della famiglia Maheu, minatori da generazioni, sono esponenti tipici del loro ambiente sociale, i loro problemi e le loro sofferenze sono quelle di tutti e di ciascuno, il loro è un destino condiviso da migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini che sono incatenati all’estrazione del carbone come all’unica forma di sostentamento – peraltro miserevole - alla quale possono e debbono accedere.
La mistificazione borghese del “libero lavoratore” è smascherata da Zola proprio attraverso la forma particolare del rapporto di produzione che lega il minatore al capitale: non si tratta, in “Germinal”, di veri e propri lavoratori salariati. Le varie squadre di minatori hanno per così dire in appalto una sezione limitata dell’immensa vena carbonifera, e vengono pagate in rapporto alla quantità di minerale estratto, cioè a cottimo. “Liberi professionisti” della miniera, si direbbe: in loro sopravvive, sebbene in una versione ferocemente farsesca, la figura dell’operaio professionale, che vende sì se stesso al capitale, ma il cui lavoro non ha ancora del tutto perduto il proprio carattere specifico e “privato”.
Non si diventa minatori con un’ addestramento di “un quarto d’ora”, come reciterà più tardi la parabola fordista. E’ ancora un’”arte” che ci si tramanda da padre in figlio, da madre in figlia, da generazione in generazione. Ma la sostanza è ormai pienamente capitalistica: nessuno degli operai possiede un qualsivoglia strumento di produzione al di là delle proprie braccia, tutto il resto – ascensori, picconi, cunei, lampade, vagoni per il trasporto del minerale, macchine motrici ecc - appartiene al padrone del sottosuolo, del paesaggio devastato, del cielo nero di fuliggine e di ogni cosa comprese le squallide abitazioni dei minatori, raccolte a formare villaggi la cui unica ragion d’essere risiede nelle esigenze produttive del capitale stesso. 

mercoledì 4 settembre 2013

RIPROPOSTE DIALETTICHE - LE ASTRAZIONI IN MARX - (Coll. di formaz. Marxista)

 Scrive Marx nell’introduzione ai “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” (capitolo 3 Il metodo dell’economia politica): ”Sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto, quindi per es., nell’economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. […] Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, precisando più da vicino, perverrei via via analiticamente a concetti più semplici; dal concreto rappresentato, ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici.” 
L’analisi non può che partire dal dato di fatto, dall’evidenza di ciò che si mostra al nostro sguardo, in un caotico e disordinato flusso di percezioni apparentemente casuale. Lo sguardo dialettico, l’unico capace di penetrare questo immediato intrigato e multiforme, si fa metodo scientifico per il teorico che deve decifrare prima e costruire poi una teoria che possa render conto, stavolta senza incertezze e incomprensioni, di quella stessa realtà iniziale.
Questo è quanto Marx ci indica come l’unica strada possibile. Questo è il suo modo di affrontare la realtà della società borghese che lo circonda. E questo è il modus operandi che gli consente di scrivere Il Capitale, ancor oggi l’unica teoria che sia riuscita fino in fondo a dare conto della linea di movimento, dei passaggi specifici,                                                                                                                 dell’intreccio e perfino delle casualità, che hanno portato all’affermazione completa e totale del capitalismo.

Ma cosa significa “sguardo dialettico”? In cosa esso differisce dal modo “classico” d’approccio alla realtà degli economisti del suo tempo, e non solo?

La risposta non è semplice da dare. Marx ce ne indica la via: bisogna – egli dice – ricercare, con estrema attenzione, tutte quelle peculiarità che si mostrano comuni, nel corso della storia della società umana, nelle varie e differenti forme sociali che via via si sono susseguite nel corso storico del cammino umano fin da quando le prime comunità si sono andate formando -la comunità primitiva prima e la tribù poi e ancora l’insieme di queste- fino a risalire a quello che Marx indica come il vero inizio della storia: cioè a dire la fine del nomadismo. E grazie a questa analisi affiorerà tutta una serie di categorie semplici, di astrazioni comuni a tutte le epoche che, con forma e importanza diversa, sono tuttavia presenti in ogni epoca e in ogni forma d’economia.

Bellissimo l’esempio che fa Marx con il denaro e il lavoro: “Il denaro può esistere ed è storicamente esistito prima che esistessero il capitale, le banche, il lavoro salariato ecc. In questo senso si può quindi dire che la categoria più semplice può esprimere i rapporti predominanti di un insieme meno sviluppato oppure i rapporti subordinati di un insieme più sviluppato; rapporti che storicamente esistevano già prima che l’insieme si sviluppasse nella direzione che è espressa in una categoria più concreta. In questo senso il cammino del pensiero astratto, che sale dal più semplice al complesso, corrisponderebbe al processo storico reale. […] Benché il denaro svolga una funzione importante molto presto e in tutti i sensi, tuttavia, come elemento dominante, esso appartiene nell’antichità solo a nazioni caratterizzatesi in modo unilaterale, a nazioni commerciali. E perfino presso i popoli più evoluti dell’antichità, presso i greci e i romani, il suo completo sviluppo – che nella moderna società borghese costituisce una premessa – si manifesta solo nel periodo della dissoluzione. Questa categoria del tutto semplice non compare, dunque, storicamente nella sua piena intensità se non nelle condizioni più sviluppate della società. E mai permeando tutti i rapporti economici. Per esempio nell’Impero Romano, nel momento del suo maggiore sviluppo, la base rimase l’imposta e la prestazione in natura. Il sistema monetario, in sostanza, era sviluppato completamente solo nell’esercito, e non investì neppure tutta la sfera del lavoro. Quindi benché la categoria più semplice possa essere esistita storicamente prima di quella più concreta, essa può appartenere nel suo pieno sviluppo intensivo ed estensivo solo ad una forma sociale complessa, mentre la categoria più concreta era già pienamente sviluppata in una forma sociale meno evoluta.

Questo tipo di osservazione, questa riduzione ad una forma sempre più chiara ed evidente va sempre confrontata, passo passo, volta a volta, con la totalità concreta iniziale di partenza e con la totalità dell’insieme determinato dal periodo storico di riferimento che il pensiero ricostruisce nell’analisi. 

Questo per tre motivi in particolare: 1 per confermare l’effettiva comprensione della realtà pensata nella ricerca; 2 per valutare come e quanto effettivamente quella categoria specifica opera ed incide nel suo contesto di riferimento, prima, e nella attualità dell’oggi poi. E 3 quali e quante differenze e similitudini si mostrano allo sguardo: “Il lavoro sembra categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità – come lavoro in generale – è molto antica. E tuttavia considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, <lavoro> è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. Il Bullionismo (1), per es, pone la ricchezza in modo ancora completamente oggettivo, come cosa fuori di se, nel denaro. Rispetto a questo punto di vista fu un grande progresso quando il sistema manufattoriero o commerciale trasferì la fonte della ricchezza dall’oggetto alla attività soggettiva, al lavoro commerciale o manifatturiero, ma anch’esso concepiva ancora sempre questa attività nell’aspetto limitato di una attività produttrice di denaro. A questo sistema si contrappose il sistema Fisiocratico che pone come creatrice della ricchezza una determinata forma del lavoro – l’agricoltura – e concepisce l’oggetto stesso non più sotto il travestimento del denaro, ma come prodotto in generale, come risultato generale del lavoro. […] Un enorme progresso compì Adam Smith, rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, ne commerciale, né agricolo, ma tanto l’uno quanto l’altro. Con l’astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza, noi abbiamo ora anche la generalità dell’oggetto definito come ricchezza, e cioè il prodotto in generale, o ancora una volta, lavoro in generale, ma come lavoro passato, oggettivato. […] L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. […] Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, come determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. […] Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna.”

Questo salire dal concreto all’astratto, questa operazione di pulitura – di semplificazione ma anche di comparazione – e insieme di oggettivazione delle varie categorie tratte dall’osservazione e dalla ricerca, questo lavoro d’attenta analisi che parte dal dato di fatto dell’oggi fino risalire a ritroso nel corso della storia alle prime forme di comunità, non è che una parte del metodo dialettico, è soltanto il mezzo necessario al teorico dialettico per compiere l’altra, e più importante, fase della ricerca, quella della sintesi di queste astrazioni a sistema che possa dare conto, risalendo dalle generiche astrazioni al concreto dell’attualità, di tutti i passaggi storici, delle casualità, dei perché si sia giunti al nostro mondo attuale.

Da qui si tratterebbe poi di intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni. […] Il concreto è concreto perché sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima via la rappresentazione concreta si è volatilizzata in una astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. […] La totalità come essa si presenta nella mente quale totalità del pensiero, è un prodotto della mente che pensa, la quale si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile, maniera che è diversa dalla maniera artistica, religiosa e pratico-spirituale di appropriarsi il mondo. Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente; fino a che, almeno, la mente si comporta solo speculativamente, solo teoricamente. Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto.

Nel §.4 delle sue Lezioni sul diritto naturale e la scienza dello Stato -conosciute anche come la Filosofia del diritto di Heidelberg, dove effettivamente furono tenute queste lezioni nel 1817/1818-, Hegel scrive: “Quando penso un oggetto, lo rendo un pensato e gli tolgo ciò che ha di sensibile; lo rendo così qualcosa che è immediatamente ed essenzialmente mio: infatti, nel pensare sono presso di me. Elaborare il concetto significa penetrare l’oggetto, che non è più qualcosa di contrapposto a me, perché gli ho tolto ciò che, per sé, a me si oppone... dice lo spirito «questo è spirito del mio spirito» e l’estraneità è dissolta. Ogni rappresentazione è una generalizzazione e quest’ultima appartiene al pensare. Pensare qualcosa significa renderlo generale [...] Questo è l’atteggiamento teoretico”. 

Insieme dovrà dare conto della validità dell’ipotesi di partenza e, confermare allo stesso tempo, la verità e la comprensione, stavolta reale, fatta propria, sussunta nel pensiero, conosciuta, della realtà del mondo.

Una realtà che è sempre la stessa dell’inizio della ricerca, partenza e arrivo di un percorso lungo e difficile che è quello della comprensione: “La società borghese è la più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti e che fanno comprendere la sua struttura, permettono quindi di penetrare al tempo stesso nella struttura e nei rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui si trascinano in essa ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in quelle era appena accennatosi è sviluppato in tutto il suo significato ecc. […] L’economia borghese fornisce così la chiave per l’economia antica ecc. […] La cosiddetta evoluzione storica si fonda in generale sul fatto che l’ultima forma considera le precedenti come semplici gradini che portano a se stessa […] l’economia borghese è giunta a intendere quella feudale, antica e orientale, quando è cominciata l’autocritica della società borghese". 

Note:                                                                                                                                                                                      

(1) Al centro del pensiero bullionista (XVI secolo) si pose la convinzione che la ricchezza fosse rappresentata dalla moneta a disposizione delle casse statali, ossia dall'oro. L'afflusso di metalli preziosi dalle Americhe conferiva una grande ricchezza agli Stati europei che, mediante le casse del governo, potevano così permettersi opere altrimenti impensabili. Agli occhi di un funzionario di governo la potenza di uno Stato era misurata dal tesoro a disposizione per comprare navi da guerra o mercantili, pagare soldati e finanziare opere pubbliche e monumenti, guerre. Senza l'oro tutto questo non era possibile. L'ottica dei bullionisti era pressocché simile a quella della precedente economia domestica, l'unica differenza fu la scala con cui si osservavano i fenomeni economici, non più della casa ma della nazione. 

Letture Marxiste di Hegel - Stefano Garroni -


Questo ultimo lavoro di Stefano Garroni ha il senso di individuare in Hans Heinz Holz colui che ha saputo liberare l'interpretazione di Hegel (e di Kant) da consolidati pregiudizi e diffidenze. Il risultato è che Holz si fa portatore anche di una lettura di Marx, innovatrice, nella stessa misura in cui rimanda ad una "rilettura" della filosofia classica tedesca e ad una corretta, puntuale filologia marxiana.                                                                                                                                                                       Nato nel 1939, Stefano Garroni, appena laureato svolse attività di assistente presso la Cattedra di Filosofia Teoretica diretta, nell'ordine, dai Proff. U. Spirito, G. Calogero e A. Capizzi. Nel 1973, vinto l'apposito concorso, entrò a far parte del Centro di Pensiero Antico del CNR, diretto dal Prof. G. Gianantoni.                                                                                                                       Partendo da un clima culturale fortemente segnato da irrazionalismo e soggettivismo, Garroni, nella prospettiva di un recupero rigoroso della problematica dialettica, ha pubblicato - tra l'altro e sempre con le Edizioni "La Città del Sole" di Napoli - Quaderno freudiano, Engels cent'anni dopo, Dialettica e differenza, nonché varie traduzioni di opere del filosofo marxista Hans Heinz Holz.                              
                                  
Stefano Garroni - Letture Marxiste di Hegel -(La citta' del sole edizioni)         

lunedì 2 settembre 2013

Collettivo di formazione marxista "Maurizio Franceschini"

Il Collettivo di formazione marxista, ormai non più giovanissimo dato che esiste da una quindicina di anni, può francamente dire di essersi posto, fin dall’’inizio, determinati obiettivi e di non aver mai scartato dalla prospettiva, che si era data.
La quale, in definitiva, consisteva (e consiste) nel mostrare come –se non altro dalla morte di Lenin- il movimento comunista, nella sua parte più significativa, si sia reso responsabile di una interpretazione del marxismo, che ne falsava profondamente sia le essenziali caratteristiche teoriche, sia anche l’effettiva ispirazione politica.
Costituitosi con compagni dalle differenti storie politiche, il Collettivo ha sempre voluto essere un luogo di studio, riflessione e elaborazione, lontano o indipendente dai tanti gruppuscoli comunisti, che si sono andati costituendo dalla Bolognina in poi.
E questo non per aristocratismo, ma perché il Collettivo pretende essere –pur nella sua debolezza- un luogo per l’elaborazione e il rilancio di un marxismo e di una politica comunista, fuori dalle vulgate, che storicamente si sono succedute, e che fosse invece una proposta all’altezza dei tempi nostri.
Nessuno schieramento, dunque, con questo o quel gruppetto, ma ricerca di coinvolgimento di compagni, quale che sia la tessera (o non tessera), che abbiano (o non abbiano) in tasca.
L’attività del Collettivo si è caratterizzata, finora, coll’organizzazione di seminari, di incontri e dibattiti –non necessariamente su temi direttamente legati al pensiero di Marx-, allo scopo di far nascere tra i compagni la consapevolezza che il marxismo è eminentemente dialettica e, dunque, critica, che non conosce santuari da rispettare.
I seminari e i dibattiti hanno avuto un pubblico non esattamente precisabile, ma certo numeroso, dato anche il fatto che il Collettivo gestisce due siti internet., uno dei quali, in particolare, si caratterizza per l’ampiezza dei dibattiti e delle collaborazioni; mentre l’altro per la particolare qualità della documentazione, che presenta..
Il lavoro del Collettivo si è caratterizzato, anche,per la pubblicazione di alcuni libri, dei quali ricordiamo qui gli ultimi due: “Riproposte dialettiche” (2010) e “Ricerche marxiste” (2013), che hanno conosciuto una certa diffusione e suscitato qualche dibattito.
Nell’anno corrente il Collettivo si è fondamentalmente concentrato su un seminario a proposito della critica di Marx ad Adam Smith –anche di questo seminario assicureremo la presentazione dei risultati, in un volume da pubblicare.
A questo punto, dobbiamo riconoscere che l’ampiezza del pubblico, interessato ai lavori del Collettivo, ed il farsi sempre più impegnativo del lavoro di riflessione e scrittura, esigono una modifica organizzativa, la quale consenta una più diretta partecipazione alla sua attività di tutti coloro, che al Collettivo hanno chiesto di aderire.
Lo scopo di questa lettera è, appunto, di promuovere quel più largo dibattito, che possa dare maggiore consistenza al lavoro futuro del Collettivo stesso.
Il quale si proporrebbe 1. di continuare la riflessione sulla critica marxiana all’economia politica, ma anche 2. di assicurare una documentazione, precisa e puntuale, delle tante realtà (e non gruppuscoli) comuniste, che esistono ed operano, certamente in Asia e in Latino America, ma anche in paesi come gli Usa, il Canada, l’Australia e la Germania.
Per far tutto ciò abbiamo bisogno di collaborazione consapevole e non casuale.
E’ per questo che ci rivolgiamo a tutti coloro, i quali hanno espresso la volontà di divenir membri del Collettivo, pregando loro di fornisci notizie circa la loro esperienza culturale e politica, nonché della lingua (non italiana, chiaramente), da cui sanno tradurre.

Il Collettivo di formazione marxista.

venerdì 30 agosto 2013

Quel pasticciaccio brutto dell’euro - Sergio Cesaratto -

 Il sovrappiù è ciò che rimane alle classi dominanti del prodotto sociale dopo che ne hanno destinato una parte alle sussistenze dei lavoratori e delle loro famiglie. Le merci che costituiscono il sovrappiù devono tuttavia essere vendute. Parte di esse sono acquistate dai capitalisti medesimi (che se le scambiano fra loro) sotto forma di consumi di lusso (yacht, ville ecc.) o di beni di investimento (nuovi macchinari ecc). La spesa dei capitalisti può tuttavia essere insufficiente ad assorbire tutto il sovrappiù. Michal Kalecki - il “Keynes marxista” - riprese e rese coerente l’idea di Rosa Luxemburg che il capitalismo ha bisogno di “mercati esterni” per smaltire la parte del sovrappiù non assorbita dai capitalisti medesimi. La spesa pubblica è un esempio di mercato esterno: un’adeguata spesa pubblica consente elevati livelli di produzione in quanto ne assorbe una parte come acquisti della pubblica amministrazione (per esempio sotto forma di armamenti). Concentrandoci sulla parte della spesa in disavanzo, sono i capitalisti medesimi a finanziarla acquistando titoli del debito pubblico – sicché essi con una mano vendono le merci al settore pubblico mentre con l’altra gli prestano i ricavi ottenuti. Un altro mercato esterno sono i “consumi autonomi”, ovvero i consumi dei lavoratori finanziati dal credito al consumo. Il ruolo trainante di tale componente della domanda aggregata lo si può apprezzare pensando al boom edilizio pre-crisi negli Stati Uniti e in Spagna. Anche in questo caso i capitalisti con una mano vendono e con l’altra prestano alle famiglie. Si osservi come l’assorbimento del sovrappiù da parte di Stato e famiglie implichi l’indebitamento di questi settori. Il debito delle famiglie è quello più fragile, potendo lo Stato sempre ricorrere all’aumento delle imposte e al finanziamento della banca centrale. Quella parte del sovrappiù che non è consumata all’interno di un paese né dai suoi capitalisti, né dallo Stato e neanche dalle famiglie (indebitate), può trovare sbocco all’esterno e va così a rappresentare il surplus commerciale con l’estero. Sono in genere i paesi più avanzati, come gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, e/o quelli mercantilisti, come il Giappone o la Germania, a trovarsi nella condizione di paesi esportatori netti (cioè che tendono a esportare più di quanto importino). I paesi mercantilisti accentuano questa tendenza attraverso la compressione dei consumi interni, pubblici e privati. Questo accade, per esempio, attraverso aumenti dei salari reali in misura inferiore alla crescita della produttività del lavoro. Essendo paesi come Giappone e Germania economie ad elevata produttività, i salari reali sono comunque alti, per cui i sindacati possono facilmente diventare conniventi a tale modello (per alcuni dettagli del modello tedesco si veda Cesaratto & Stirati 2011). Anche in questo caso i capitalisti (dei paesi in surplus commerciale) con una mano vendono le proprie merci ai paesi (definiamoli) periferici, mentre con l’altra prestano a tali paesi i capitali necessari per finanziare i propri deficit di bilancia dei pagamenti.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      http://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/3007-sergio-cesaratto-quel-pasticciaccio-brutto-delleuro.html  

domenica 25 agosto 2013

RUDOLF HILFERDING IL CAPITALE FINANZIARIO Introduzione di Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro - (© 2011 – Mimesis Edizioni) -


Oggi […] l’economia borghese non conduce più energiche e gaie battaglie sul piano teorico. In quanto portavoce della borghesia, interviene soltanto là dove questa ha degli interessi pratici, rispecchiando fedelmente gli interessi conflittuali delle cricche dominanti nelle lotte economiche quotidiane, ma evitando accuratamente di prendere in considerazione la totalità dei rapporti sociali,    ritenendo giustamente che tale considerazione sia inconciliabile con la propria esistenza di economia borghese. E anche quando per necessità dei suoi «sistemi» e nei suoi «compendi» deve esprimersi sui nessi della totalità, può cogliere la totalità soltanto rappezzando   faticosamente assieme i singoli frammenti. Avendo cessato di essere fondata su principi e di essere sistematica, è diventata eclettica e sincretistica.

                  Rudolf Hilferding


             

 
      Sarebbe ovviamente poco onesto dimenticare che la «zona euro» nacque a seguito della caduta del Muro di Berlino e in virtù del tracollo dell’Unione sovietica. Non si può sottovalutare il profondo senso di disorientamento che quegli eventi epocali produssero in tutti gli eredi del movimento operaio. Lo stesso ottundimento che ancora oggi sembra pervaderli costituisce una conseguenza anche del colpo tremendo
ricevuto allora. L’adesione acritica ai processi di centralizzazione dei capitali, l’ormai palese incapacità di organizzare le masse lavoratrici per incunearsi nello scontro tra capitali forti e capitali deboli e la conseguente fuga ideologica verso una pelosa «etica europeista» o «globalista» trovano molte delle loro radici nel fallimento della rivoluzione sovietica: vale a dire, del primo, grande progetto politico alternativo alla logica della riproduzione e della centralizzazione capitalistica.
Noi crediamo, proprio per questo, che sia giunto il tempo che i marxisti riesaminino l’esperienza sovietica, con le sue grandezze e i suoi orrori, in chiave finalmente scientifica e storico-critica. Non si tratta soltanto di ammettere che la minaccia sovietica è entrata per decenni nella «funzione di produzione» del sistema di welfare e degli stessi equilibri capitalistici europei (come implicitamente dimostrato dal fatto che quel sistema di welfare e quegli equilibri sono entrati in crisi a seguito della scomparsa di quella minaccia), ma di riconoscere che la presenza di quel «grande Altro» rappresentava in un certo senso la ragion d’essere non
solo e non semplicemente dei comunisti della Terza Internazionale, ma anche, a pensarci bene, di tutti gli altri eredi della tradizione del movimento operaio, inclusi gli stessi socialdemocratici riformisti: i quali, finita l’esperienza sovietica, sono entrati essi stessi in una gravissima crisi d’identità generale. Esaminare in chiave storico-critica le potenzialità e gli enormi limiti della politica economica sovietica costituisce dunque un passo necessario per fuoriuscire dalle secche teoriche e pratiche di uno scontro tra «riformisti» e «rivoluzionari» i cui termini sono ormai desueti da entrambe le parti, e per rendere nuovamente praticabile una proposta alternativa alle logiche e alle tendenze del capitale. Ossia, in ultima istanza, per attualizzare il tema più generale della pianificazione: per riscoprire la potenziale modernità del «piano».
Naturalmente, sarebbe ingenuo discutere oggi di «pianificazione socialista» in termini ideali: il discorso sulla pianificazione si articola e si modifica in funzione dell’articolazione e del mutamento dei rapporti di forza. È chiaro quindi che esso andrebbe sviluppato e riproposto in funzione della dinamica di quei rapporti, perché «piano» può significare molte cose: basti ricordare che, durante la prima crisi petrolifera, furono addirittura gli Stati Uniti ad essere investiti da un grande dibattito sulla pianificazione, a seguito delle proposte avanzate al Congresso dal Comitato per la Pianificazione Nazionale guidato dal premio Nobel per l’economia Wassily Leontief. Resta comunque il fatto che, nell’attuale fase storica, quanto maggiore sarà la capacità di riarticolare il discorso relativo alla pianificazione, tanto maggiori saranno le possibilità di costituire un insieme credibile di alternative all’ideologia anarco-liberista del mercato capitalistico, in piena crisi ma tutt’altro che sconfitta.
Ci sono fondati motivi per supporre, a tal riguardo, che una nuova e praticabile logica di «piano» emergerà solo dall’abbandono dell’idea secondo cui il ruolo dello stato dovrebbe essere relegato all’abusata funzione ancillare dei mercati finanziari, ossia come prestatore di ultima istanza per il capitale privato. Semmai, l’autorità statale dovrebbe attuare una «repressione dei mercati finanziari» e un «pesante uso dei controlli dei
capitali», allo scopo di vanificare le pretese del capitale finanziario sulla moneta e disinnescare il meccanismo di produzione delle crisi che esso porta con sé. Questa dovrebbe esser considerata la premessa necessaria  per assumere un controllo pubblico della circolazione monetaria allo scopo di inaugurare un nuovo regime, in cui lo stato agisca quale creatore di prima istanza di nuova occupazione. Di prima istanza, si badi, ossia non
per fini di mera assistenza, ma in primo luogo per la produzione di quelle basic commodities che maggiormente incidono sulle condizioni del progresso materiale e civile della società e che, proprio per ciò,non dovrebbero esser lasciate alla ristretta logica dell’impresa capitalistica privata. Si tratta, del resto, di un’implicazione logicamente necessaria del paradigma della riproduzione: più precisamente, se è vero che il potere del capitale è il potere di governare l’allocazione del lavoro sociale sulla base di una logica riproduttiva espressa in forma di «domanda monetaria», una razionalità economica antagonistica rispetto a quella del capitale non potrà che manifestarsi preliminarmente nella forma di un potere sul denaro: cioè di una «signoria politica» che ne reprima il ruolo capitalistico di generatore e allocatore del lavoro disponibile                                                                                                                                                                                                                                                                               http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2013/08/Brancaccio-e-Cavallaro-Leggere-Il-capitale-finanziario-2011.pdf