sabato 31 marzo 2012

Le Introduzioni a Marx - Iniziamo con queste note la rassegna di alcuni testi marxisti di diverso orientamento. Attraverso il loro confronto, crediamo, si possano ricostruire alcune categorie basilari del marxismo ed anche mostrare la non linearità della sua formazione e sviluppo storici.

Anche Trockij si cimentò nella stesura di una Introduzione a Marx ed,
esattamene, al Capitale. In questa sede non  tanto ci intessa
l’esposizione riassuntiva e semplificata del contenuto dell’opera
marxiana, che Trockij tratteggia ; quanto piuttosto il metodo .-ed in
questo senso la teoria, che Trockij segue nel suo lavoro.
Leggiamo ad es. alle pp.7s che in genere non ci si dà  pena di
considerare perchè gli uomini si disfanno di oggetti di valore in
cambio di qualche pezzo di certi metalli.
Questa mancanza di curiosità dipende dal fatto che, in generale, le
categorie economiche capitalistiche vengono considerate come ovvie,
come cose che vanno da sé. Ed effettivamente questo è il caso, ma a
patto che si diano per scontati i rapporti capitalistici di
produzione, ovvero si consideri quale ultima istanza del
conoscere l’immediata esperienza di chi vive in un certo tipo di
società.
Arriviamo così ad un tema fondamentale: l’analisi scientifica –questo
Trockij-  afferma- ha un nemico dal quale deve ben  guardarsi: il
senso comune, con la sua immediata evidenza.
Si tratta di una tesi ben nota –sia nell’’epoca di Hegel e pure in
quella di Trotkij; tuttavia è vero anche che a metà  del Novecento
questa tesi fu messa in discussione e si sviluppò tutto un movimento
(detto post-moderno, ma in realtà pre-moderno), il quale, appunto
‘scoprendo’ che l’evidenza scientifica ha carattere mediato (dalla
ragione) e non l’immediatezza del puramente percepito, dichiara non
attendibile la pretesa della scienza di produrre  sapere oggettivo.
Per Trockij, dunque, al contrario da ogni teoria fondata
sull’immediatezza del percepito, il conoscere acquista l’aspetto d un
autentico lavoro, di un’Arbitsmuehe ( di una specifica fatica, come si
esprimevano Hegel e Marx). Nel senso che la scienza produce conoscenza
in  quanto,  con i suoi strumenti logici e teorici, definisce
l’oggetto, in modo stoicamente determinato, gli dà certe
caratteristiche  e una determinata collocazione.
Inoltre, definita la scienza come la conoscenza delle leggi obiettive
della natura, l’uomo –continua Trockij-- ha voluto assegnarsi un posto
privilegiato nell’universo, dando a se stesso il ruolo eccezionale di
chi ha relazioni  con la divinità e, con questo, la conoscenza degli
oggettivi principi morali - di base. Questo è il senso, afferma Trockij
dell’orientamento idealistico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                S.G. (Collettivo di formazione marxista "Maurizio Franceschini")

mercoledì 7 marzo 2012

SU UN ARTICOLO DI FABRIZIO GALIMBERTI

24ORE del 26/2 pubblica un articolo di Fabrizio Galimberti, dal titolo "Nella scienza esatta C'è UN BRICIOLO DI FOLLIA" su cui vale la pena soffermarsi allo scopo di chiarire alcuni punti di teoria/scienza.
La tesi di Galimberti è che, anche nella sua costruzione nella teoria scientifica non intervenga la sola ragione, ma si anche elementi irrazionali.
Come si vede si tratta di una tesi tutt’altro che originale, nel senso che forse oggi non esiste epistemologo che non la condivida. C’è però qualcosa che Galimberti dovrebbe meglio chiarire. Ad es., il significato del termine irrazionale. Gia Leibniz vedeva l’ambiguità del termine, che può significare o “ciò che si oppone tout court alla ragione”; sia “ciò che si oppone ad una determinata ragione circoscritta da un’epoca ed una tradizione.” Qual è l’importanza di questa distinzione? E’ chiaro che se l’irrazionale è preso come ciò, che si oppone ad una fase determinata della storia della ragione (ovvero il contrario di quanto si intende con il secondo senso del termine) ciò che oggi è irrazionale può domani divenire razionale. Nel secondo caso invece appunto l’opposizione ragione /irrazionale non è superabile.
A quale dei due sensi Galimberti fa riferimento? Nel suo testo non c’è risposta a tale domanda.
Il secondo tema, su cui vale richiamare l’attenzione, è il seguente: quando deve definire l’economia in quanto scienza teorica, Galimberti ripropone né più né  meno il classico presupposto utilitaristico (l’individuo astorico, che sulla base di una valutazione costi-benefici, decide quale sia la più conveniente tra le scelte, che di fatto si danno.
Come si vede è un presupposto del tutto astratto, che si oppone ad un'altra tradizione (che fu di Sismondi, di A. Smith, di Hegel e di Marx), secondo cui l’economia è un’articolazione della totalità sociale e dunque è determinata storicamente, come è determinato storicamente l’uomo, agente del fare economico. Perché Galimberti sceglie di definire come fa la teoria economica? Ecco l’altro punto su cui egli non dà chiarimenti.
Stefano Garroni.                                                                                                                                                                                                                                                                                     http://www.scienzaevita.org/rassegne/51bbe6d999e1dd48f544f9473cec645f.PDF                                                                                                                                                                                                     

lunedì 27 febbraio 2012

Il 18 Brumaio - Karl Marx

                                                                                                                                                                                                                     

IV
[…]
Per quanto grande fosse la somma di passione e di retorica che il partito dell'ordine poteva lanciare contro la minoranza dall'alto della tribuna parlamentare, i suoi discorsi rimanevano monosillabici, come quelli del cristiano, le cui parole debbono essere: Sí, sí; no, no! Monosillabici alla tribuna come nella stampi. Insipidi come un indovinello di cui si conosce in anticipo la soluzione. Che si trattasse del diritto di petizione o dell'imposta sul vino, della libertà di stampa o della libertà di commercio, dei clubs o della costituzione municipale, della difesa della libertà personale o del regolamento del bilancio, si ritorna sempre alla parola d'ordine, il tema rimane sempre lo stesso, la sentenza è sempre pronta ed è invariabilmente la stessa: "socialismo!". Socialista viene dichiarato persino il liberalismo borghese, socialista la cultura borghese, socialista la riforma finanziaria borghese. Era socialista costruire una ferrovia dove già esisteva un canale, ed era socialista difendersi col bastone, quando si era assaliti con una spada.

Né ciò era un semplice modo di parlare, una moda, una tattica di partito. La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro il feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione da lei escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da lei creati l'abbandonavano Essa capiva che tutte le cosiddette libertà e istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano cioè diventate "socialiste". In questa minaccia e in questo attacco essa vedeva il segreto del socialismo, di cui giudicava il con ragione il senso e la tendenza meglio di quanto non sappia giudicarsi il socialismo stesso; il quale non può capire perché la borghesia gli sia così inesorabilmente inaccessibile, sia che egli gema flebilmente sulle miserie dell'umanità, o annunci da buon cristiano l'avvento del regno millenario e la fratellanza universale, o umanisticamente fantastichi di spirito, cultura e libertà, oppure si faccia dottrinario e inventi un sistema di conciliazione e di prosperità per tutte le classi. Ma ciò che la borghesia non comprendeva era la conseguenza che il suoproprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico dovevano anche essi sottostare alla generale sentenza di condanna come socialisti. Sino a che il dominio della borghesia non si fosse organizzato completamente, non avesse acquistato a sua espressione politica pura, anche il contrasto con le altre classi non poteva presentarsi in modo puro, e dove esso si presentava, non poteva assumere quel corso pericoloso che trasforma ogni lotta contro il potere della Stato in uni lotta contro il capitale. Se in ogni palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la "calma", come poteva voler conservare, alla testa della società, il regime della irrequietezza, il suo proprio regime, ilregime parlamentare, questo regime che, secondo l'espressione di uno dei suoi oratori, vive nella lotta e per la lotta, Il regime parlamentare vive della discussione: come può proibire la discussione? Ogni interesse, ogni provvedimento sociale viene trasformato nel regime parlamentare in idea generale e trattato come idea; come può quindi un interesse qualsiasi, un provvedimento qualsiasi, elevarsi al di sopra dei pensiero e imporsi come articolo di fede? La lotta degli oratori alla tribuna provoca le polemiche violente dei giornali; quel club di discussione che è il Parlamento viene necessariamente completato dai club di discussione dei salotti e delle osterie; i rappresentanti che continuamente fanno appello alla opinione pubblica autorizzano l'opinione pubblica a esprimere la sua vera opinione mediante petizioni. Il regime parlamentare rimette tutto alla decisione delle maggioranze: come le grandi maggioranze non dovrebbero voler decidere al di fuori del Parlamento? Se alla sommità dell'edificio dello Stato si suona il violino, come non aspettarsi che quelli che stanno in basso si mettano a ballare?

venerdì 6 gennaio 2012

Roberto Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Roma, Carocci, 2006


Marx ed il marxismo non possono essere la stessa cosa ed è inevitabile che si debba parlare di “marxismi”, al plurale. Questi hanno la loro dignità storica e, nel bene e nel male, rappresentano un momento importante – se non imprescindibile in certi casi – della storia recente, ma si stia attenti a non operare fuorvianti appiattimenti. Gli oggetti d’indagine sono, infatti, due. Non si deve d’altronde compiere l’errore opposto, ossia credere che non sia lecito stabilire quanto i vari marxismi siano stati fedeli alle indicazioni date da Marx: che non ci sia identità fra forma e figura non significa neppure che ogni tentativo di applicazione politica vada bene. Come sempre occorre mostrare le mediazioni (o eventualmente l’assenza di esse)                                                                                

martedì 13 dicembre 2011

In memoria di Hans Heinz Holz

     
Roma martedì 13 dicembre 2011                                                                                                              

Apprendo proprio oggi di un gravissimo lutto, che ha colpito il marxismo sia teorico che militante: la scomparsa, dopo dolorosa e terribile malattia, del compagno tedesco Hans Heinz Holz. Non solo ebbi la fortuna di conoscerlo (come una finissima persona, delicato amico e modestamente "alla mano", come diciamo noi in Italia, nonostante la superiorità della sua cultura e l'autentica esemplarità della sua militanza comunista). Ma ebbi inoltre il privilegio di tradurre varie sue cose (libri, articoli di rivista, conferenze) e, dunque, potetti constatare con attenzione la linearità morale e teorica del suo discorso, nonostante o, anzi, proprio per l'ampiezza dei suoi interessi.                                                    
Ed è proprio questo che voglio sottolineare: è da lui che appresi (spero) una maniera ben determinata di leggere Marx e il marxismo, fuori da immiserenti schemi dogmatici, ma piuttosto all'interno di una vasta cultura classica e contemporanea, di lingua tedesca o non.                                                            
In questa prospettiva, compagno Holz, tu sarai sempre nostra guida e maestro.                                                                                                                                                
Stefano Garroni                                                                                                       

http://ilcomunista23.blogspot.com/2010/09/sulpartito.html
http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/marxismo/589-in-occasione-della-scomparsa-di-hans-heinz-holz-11122011.html

martedì 6 dicembre 2011

Lenin, materialismo, Empiriocriticismo - Stefano Garroni -


In luogo di una introduzione.


Chi ha una certa famigliarità con la letteratura filosofica, dovrebbe sapere che oggi difficilmente può darsi  un professore di filosofia (come anche di teologia[-1] ), che non sia preso dalla critica del materialismo. Mille e mille volte è stata annunciata oramai la sua smentita ed anche nei nostri giorni  si continua a farlo per la centesima o millesima volta. I nostri revisionisti si impegnano nello smentire il materialismo, ma in ciò essi danno l’impressione che la loro critica  sia rivolta al materialismo di Plechanov, ma non a quello di Engels[-2] , non al materialismo fuerbachiano, non alle concezioni materialistiche di J. Dietzgen ed infine che essi criticano il materialismo, assumendolo dal più recente e moderno positivismo [-3]

Senza impelagarmi in citazioni, che chiunque lo voglia può trovare a bizzeffe nei libri sopra citati, mi affiderò piuttosto agli argomenti, che Basarov, Bodnov, Juschkeqwitch, Valentinov, Tschernov ed altri machisti, chiamano in causa contro il materialismo. Uso l’appellativo machista come il marchio più semplice e facile; Mach è noto anche  come empiriocritico.

martedì 15 novembre 2011

Concetti di dialettica. Dialektik –Konzepte

J. Zimmer, “Dialektik und Erfahrung.
Il problema della dialettica nasce anche della contraddittorietà e problematicità
dell’esperienza del reale,  che nella mente non si  colloca in modo preciso, ma deve
essere rielaborata appunto mentalmente, deve dunque esprimersi nella struttura della
forma di pensiero. Il pensante, contemporaneamente, si scopre,  nella differenza e
nell’unità con tutta la[-1]  realtà che lo circonda. In questo significato fondamentale
non vi è ancor alcuna differenza tra la forma dialettica idealistica e  quella
materialistica.
Hegel ha chiaramente elaborato la struttura speculativa fondamentale della dialettica
–ovvero l’unità delle differenze:
Il  suo idealismo non si basa su questa struttura speculativa. Ma sul fatto che lui
sviluppa, il rapporto centrale di pensiero ed essere per ogni dialettica; Hegel  ha
chiaramente elaborato la struttura basilare della dialettica speculativa; il carattere
speculativo del pensiero di Hegel sta nel fatto che la struttura speculativa vale per
ogni tipo di dialettica. il carattere idealistico si estende ad ogni tipo di dialettica,
perché questa implica sempre ll primato del pensiero sull’essere. La dialettica va
riconosciuta come essere, che è l’altro dallo spirito, in quanto realtà prodotta dallo
spirito stesso. Se si separano i presupposti, dai concetti di ragione, svolti da Hegel
nella Fenomenologia dello spirito – la ragione è coscienza, che lo spirito ha di essere
ogni realtà; è per questo che ogni problema immanente di questa costruzione dialettica
giunge, alla fine, ad un felice compimento. Lo spirito muta mano a mano l’altro di sé
stesso nella realtà di se stesso.

martedì 18 ottobre 2011

La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica - Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi -

"Il capitalismo si modifica continuamente; non è mai uguale a se stesso. Questa integrazione globale di produzione e finanza in una teoria generale del processo capitalista sta ancora muovendo i primissimi passi; non viene mai trattata in modo esauriente. In Keynes vi sono alcuni accenni e anche Marx suggerisce qualcosa al riguardo, ma una vera e propria elaborazione teorica sarebbe avvenuta solo in una concreta fase storica che avrebbe reso necessaria la nuova teoria. E questo sta avvenendo oggi."
Paul M. Sweezy, "rivista del manifesto", aprile 2000



Il capitalismo è in una crisi ‘sistemica’. Iniziata nell’estate del 2007, a partire dalle difficoltà di un
segmento particolare del mercato finanziario statunitense, l’instabilità finanziaria ha finito col contagiare
l’intero pianeta. La crisi finanziaria si è tramutata in crisi bancaria, poi, nel giro di un anno, in crisi reale.
La recessione sarà lunga. Ammesso e non concesso che la flebile ripresa si confermi, e che non si abbia
un doppio salto nella depressione, il capitalismo potrebbe avere davanti a sé una prolungata
stagnazione. Torna all’orizzonte la disoccupazione di massa.

domenica 16 ottobre 2011

A proposito di attualità... qualche idea ancora "giovane" su un programma di transizione...


 “La situazione politica del mondo e’, nel suo insieme, caratterizzata da una storica crisi della direzione del proletariato. Da lungo tempo, i presupposti economici per la rivoluzione proletaria hanno raggiunto il punto della massima maturità possibile all’interno del capitalismo, Le forze produttive dell’umanità sono in fase di ristagno. Nuove scoperte e perfezionamenti non hanno riguardato il tenore di vita materiale (delle stesse masse). Alla crisi sociale dell’intero sistema capitalistico si accompagna, contemporaneamente, la comparsa di crisi congiunturali delle masse, sottoposte a sempre maggiori rinunce e sofferenze. Da parte sua, la crescente disoccupazione inasprisce la crisi finanziaria dello Stato e scuote lo stesso labile sistema finanziario. Regimi democratici, come anche regimi fascisti, passano da una bancarotta all’altra. Alla stessa borghesia non si presenta una via d’uscita. Nei paesi dove fu costretta a scegliere alla fine la carta del fascismo, essa precipita ad occhi chiusi in una catastrofe economica e militare”.


Così Trockij, all’alba della ormai prossima II guerra mondiale, tratteggiava con estrema lucidità la situazione politica mondiale: 
“le contraddizioni imperialistiche conducono a un vicolo cieco, in cui inevitabilmente si devono estendere in un rogo mondiale i singoli scontri e i torbidi sanguinosi limitati localmente (Etiopia, Spagna, Lontano Oriente, Centro-Europa). La borghesia naturalmente è consapevole del pericolo mortale, che minaccia con una nuova guerra il suo potere. Ma questa classe oggi è infinitamente più lontana dalla possibilità di impedire una guerra, di quanto non lo fosse all’ inizio del 1914.”…” Il momento è ora quello del proletariato, cioè della sua avanguardia rivoluzionaria. La crisi storica dell’ umanità ritorna ad essere quella della direzione rivoluzionaria.”…” L’impedimento maggiore sulla strada di un cambiamento della situazione pre-rivoluzionaria in rivoluzionaria è il carattere opportunistico della direzione proletaria: la viltà della piccola borghesia nei confronti della grande borghesia e il suo legame surrettizio con essa, anche quando è già in agonia….” 

martedì 11 ottobre 2011

L'UNITA DELLA SCIENZA COME PROBLEMA SOCIALE - John Dewey

            Introduzione

           I due saggi di John Dewey Unity of Scienze as a social problem e Theory of Valuation sono stati pubblicati tra il 1938 e il 1939 nella raccolta di scritti curata da Otto Neurath dal titolo International Encyclopedia of Unified Science dall’University of Chicago Press.
                                  
           I due scritti sono da leggere all’interno del contesto dell’opera, l’Enciclopedia unificata della scienza, che rappresenta l’approdo della riflessione, che si sviluppò tra le due guerre ad opera di un gruppo di studiosi scienziati e filosofi che facevano riferimento come origine all’esperienza del Circolo di Vienna. 
          L’Enciclopedia può a ragione essere considerata come un tentativo di raccogliere assieme le voci più autorevoli di quel movimento filosofico che avendo per obiettivo l’unità della scienza  paradossalmente, in relazione alle differenze tra i diversi autori viene definito, ora neopositivismo, ora positivismo logico e ancora come empirismo logico.
       
L’     Enciclopedia è  dunque un opera complessa che contiene lavori di taglio diverso il cui denominatore può essere ritrovato nel tentativo di raggiungere un metodo scientifico comune ed applicabile non solo nell’ambito delle discipline scientifiche in senso stretto, ma al complesso dell’attività umana e nell’attribuzione al linguaggio di una funzione determinante in questo processo..
                       
 I      Il neopositivismo si affermò nel periodo tra le due guerre mondiali a partire dalle riflessioni che un gruppo di pensatori, scienziati e filosofi , il Circolo di Vienna, sviluppò e diffuse. L’iniziativa del Circolo di Vienna, di cui facevano parte studiosi come Moritz Schlick, Hans Hahn, Otto Neurath, Philipp Frank, Rudolf Carnap, Victor Kraft, Felix Kaufmann, Kurt Reidmeister, Herbert Feigl, fu affiancata da un altro autorevole gruppo di pensatori della Scuola di Berlino (Hans Reichenbach, Alexander Hezberg, Walter Dubilav, Kurt Grelling, Kurt Lewin, Wofang Koeler, Carl Gustav Hempel. 

giovedì 22 settembre 2011

Appunti per un percorso teorico possibile... Ernst Cassirer - Stefano Garroni



 “La nuova posizione, che la filosofia contemporanea viene gradualmente assumendo riguardo ai fondamenti della scienza teoretica, forse in nessuna cosa si è manifestata con maggior chiarezza che nelle trasformazioni subite in essa dalle principali dottrine della logica formale. Solo nella logica lo sviluppo del pensiero filosofico sembrò aver finalmente raggiunto un sicuro punto d’appoggio; sembrò che in essa fosse stato delimitato un campo al sicuro dai dubbi sempre sollevati contro le diverse dottrine e opinioni gnoseologiche … Perfino la successiva affermazione secondo la quale la logica dopo Aristotele, come non fece nessun passo indietro, così non riuscì a compiere alcun passo avanti, dovette valere sotto questo punto di vista come una conferma del suo peculiare carattere di certezza. Non influenzata dal vero vivere e dal continuo trasformarsi di ogni sapere oggettivo, essa sola sembrò affermarsi in modo costante e uniforme.” (Cassirer, Sostanza e funzione. Firenza 1973. D’ora in avanti Cassirer 0521).[1]

 La “teoria (degli insiemi) si rivela sempre più quale meta comune di questioni logiche diverse, prima trattate di solito separatamente, le quali ricevono da essa lo loro unità ideale. In tal modo la logica vien tolta dal suo isolamento e ricondotta a compiti e a risultati concreti. Infatti l’orizzonte della  moderna teoria degli insiemi non  rimane circoscritto a problemi puramente matematici, ma si allarga in una visione generale  che si estende e si conferma anche nella metodica speciale della conoscenza della natura.” (Cassirer, 0521). 

“La critica della logica formale si compendia in una critica della teoria generale della formazione dei concetti.” (Cassirer, 0521: 11). Nota che la nozione tradizionale di concetto  viene descritta da Cassirer, in forte analogia con il modo in cui Hegel e Marx descrivono il metodo speculativo. (Cassirer, 0521: 12).[2]

Nell’accezione tradizionale il concetto non duplica la realtà,ma semplicemente la ordina e la classifica.(Cassirer, 0531: 12).
“Se dunque si denomina l’insieme delle note di un concetto la grandezza della sua comprensione, questa grandezza crescerà quando dal concetto superiore si scende all’inferiore, diminuendo in tal modo il numero delle specie che si pensano subordinate al concetto …” (Cassirer. 0531: 12s).

Contro la concezione tradizionale del concetto: ”Ciò che anzitutto chiediamo e ci aspettiamo [e che il concetto in senso tradizionale non dà] dal concetto scientifico è che, in luogo dell’indeterminatezza e ambiguità del contenuto rappresentativo, esso instauri una netta e univoca determinatezza.” (Cassirer, 0531: 13); “il concetto perderebbe se esso significasse semplicemente la negazione dei casi particolari, dalla cui considerazione prende le mosse, e se volesse dire distruzione della loro natura specifica.” (Cassirer, 0531: 14). Se noi –per usare un drastico esempio di Lotze- facciamo rientrare ciliege e carne nel gruppo connotativo dei corpi rossi, succosi e commestibili, non otteniamo con questo alcun oggetto logico valido, bensì una connessione verbale priva di senso e di utilità per la comprensione dei casi particolari. Da ciò risulta chiaro che la generale norma formale di per sé sola non basta, e che invece viene sempre tacitamene integrata da un altro criterio di pensiero.” (Cassirer, 0531: 14[-1] ).

[Concetto e telos in Aristotele] - “La definizione (aristotelica) del concetto mediante il suo genere prossimo e la differenza specifica rispecchia il processo in virtù del quale la sostanza reale si dispiega successivamente nei suoi particolari modi di essere.” (Cassirer, 0531: 14); per Aristotele almeno il concetto non è un semplice schema soggettivo in cui noi raccogliamo gli elementi comuni di un gruppo qualsiasi di Rilevare ciò che è comune rimarrebbe un vano gioco dell’immaginazione se alla base non ci fosse il pensiero secondo cui ciò, che in tal maniera viene ottenuto è al tempo stesso la forma reale, che garantisce il nesso causale e teleologico delle cose singole.” (Cassirer, 0531: 14s)[3] “Il pensiero non fa che isolare il tipo specifico che è contenuto nella concreta realtà singola come fattore attivo e che conferisce ai particolari esseri formati l’impronta universale. La specie biologica indica al tempo stesso la meta, a cui la singola forma vitale tende, e la forza immanente onde il suo sviluppo è guidato … La definizione del concetto mediante il suo genere prossimo e la differenza specifica rispecchia il processo in virtù del quale la sostanza reale si dispiega successivamente nei suoi particolari modi di essere.[4] 

A questo fondamentale concetto di sostanza rimangono pertanto sostanzialmente legate anche le teorie puramente logiche di Aristotele. Il sistema completo delle definizioni scientifiche sarebbe al tempo stesso l’espressione completa delle potenze sostanziali che dominano la realtà. La struttura specifica della logica aristotelica è in tal modo condizionata dalla sruttura specifica del suo concetto di essere.” (Cassirer, 0531: 15)

Giusta la sua concezione di sostanza, Aristotele fa passare in secondo piano il concetto di relazione, mentre rimane incontrastato il primato logico di sostanza … anzitutto è la categoria di relazione a essere degradata, in conseguenza di questa fondamentale dottrina metafisica di Aristotele, a un rango dipendente e subordinato.” (Cassirer, 0531: 16). “Nei manuali di logica formale questa concezione si manifesta nel fatto  che di solito i rapporti o le relazioni vengono annoverati fra le note <non essenziali> di un concetto, le quali perciò possono essere tralasciate senza danno nella definizione di esso.”(Cassirer, 0531: 16).

Particolarmente lo sviluppo scientifico moderno, mostra sempre più la contrapposizione tra una logica basata sul concetto di cosa e una logica basata sul concetto di relazione.(Cassirer, 0531: 16).

“I concetti, che in definitiva Aristotele cerca  e a cui il suo interesse è principalmente rivolto, son i concetti-generi della scienza naturale descrittiva e classificatrice. La <forma> dell’ulivo, del cavallo, del leone è ciò che si tratta di raggiungere e di stabilire.” (Cassirer: 20)

Note
[1] - Nota la posizione tradizionale, secondo cui se la realtà muta, la logica invece no.
[2] - E’ interessante Cassirer, 0521:13-4 che, contro il concetto nell’accezione tradizionale, avanza una critica à la  Hegel: “E perfino dal punto di vista immanente della logica formale nasce subito un nuovo problema. Se ogni formazione di concetti consiste nel processo per cui noi da una pluralità di oggetti, che ci sta di fronte, isoliamo le note comuni, tralasciando tutte le rimanenti, è chiaro che con siffatta riduzione è sottentrata, in luogo dell’originaria totalità  intuita, una parte soltanto degli elementi contenuti in essa.”; altro elemento hegeliano in Cassirer, che continua la sua critica al concetto nel senso tradizionale: “il concetto perderebbe ogni valore se esso significasse semplicemente la negazione dei casi particolari, dalla cui considerazione prende le mosse, e se volesse dire distruzione della loro natura specifica.” (Cassirer, 0521:14).E’ interessante anche che Kant, di contro alla tradizionale teoria del concetto, si senta attratto verso il cosruttivismo leibiziano, come testimonia Cassirer in leibniz.doc.
[3] - Per comprendere il ruolo fondamentale della teleologia in Aristotele.
[4] - Tutto questo c’è in Hegel e Marx.
[-1] Il recupero surrettizio? 

sabato 30 luglio 2011

Marxismo e scienza: la critica di Moreno a Galvano della Volpe. - Stefano Garroni -




 Tra gli anni 60 e 70, la cultura marxista italiana, ma non solo, fu fortemente segnata dalla presenza della riflessione di Galvano della Volpe, filosofo di formazione gentiliana, convertitosi poi al marxismo.[1] Tale intreccio fra Giovanni Gentile –il futuro filosofo ufficiale del fascismo- e il marxismo italiano non deve meravigliare: basti pensare all’influenza che lo stesso Gentile indubbiamente ebbe (in funzione anticrociana) su Gramsci e su Togliatti.
Disponiamo ora, in edizione portoghese, di quella “Lógica marxista e ciências modernas”, che l’argentino N. Moreno scrisse, avendo -si potrebbe dire- come obiettivo polemico principale esattamente ll pensiero di Galvano Della Volpe. O, più precisamente, il modo in cui Della Volpe configurava il metodo scientifico  e quel suo strumento fondamentale che è l’astrazione. Perché questa scelta da parte di Moreno?

lunedì 4 aprile 2011

LA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA 1917–1923. Il comunismo di guerra - Edward H. Carr

       Il lavoro e i sindacati    
      
      Fu verso la fine del 1920, dopo la sconfitta di Vrangel’ e la cessazione della guerra civile, che il fronte del lavoro, al pari degli altri settori dell’economia, cominciò a mostrare i segni dello sforzo cui era stato sottoposto. La “militarizzazione del lavoro” aveva perso quel carattere di emergenza che poteva aver avuto quando era in corso la lotta per la vita o la morte. I sindacati, ancora una volta, divennero la sede e l’occasione di aspri dissensi: dissensi all’interno del Consiglio Generale, dissenzi tra il Consiglio Generale e i sindacati stessi, e dissensi tra i sindacati e gli organi sovietici. I problemi in discussione, più che di principio, si presentavano spesso come problemi relativi alle particolari competenze dei vari organi; si discuteva se la principale funzione dei sindacati fosse quella di stimolare la produzione oppure di difendere gli interessi immediati e particolari dei loro iscritti; se era loro compito mobilitare e organizzare la mano d’opera con metodi coercitivi o esclusivamente con metodi volontari; e se dovevano prendere ordini dallo stato in sede politica o conservare un certo grado di indipendenza. Nessuno stretto legame esisteva tra la questione della 2militarizzazione del lavoro” e quella dei rapporti fra i sindacati e lo stato. Era, d’altra parte, naturale che chi considerava la coscrizione della mano d’opera un elemento permanente dell’economia socialista cercasse anche di assorbire i sindacati nella macchina statale, mentre coloro che sostenevano l’indipendenza dei sindacati muovessero dall’idea che il valore dei sindacati risiedeva nel carattere volontario della disciplina da essi imposta. La forte personalità di Trockij – incondizionatamente favorevole alla mobilitazione obbligatoria della mano d’opera e alla completa subordinazione dei sindacati allo stato – valse a inasprire il dibattito e a rendere più duri i contrasti; Tomskij, da parte sua, si presentò come il difensore della concezione “sindacalista” tradizionale.

     Il I Congresso Panrusso dei Sindacati aveva stabilito nel 1918 che i sindacati sarebbero dovuti diventare “organi del potere statale”; l’VIII Congresso del partito, tenutosi l’anno seguente, aveva dichiarato, nella relativa sezione del programma del partito, che i sindacati avrebbero dovuto “concentrare di fatto nelle loro mani l’intera amministrazione di tutta l’economia nazionale, come una sola unità economica”. Nel fervore della guerra civile, questi due punti di vista erano riusciti, in certa misura, a convivere; cessata la guerra, era inevitabile che si riproponesse il vecchio problema, se cioè le decisioni più importanti d’ordine politico spettassero ai sindacati o agli organi dello stato. L’occasione che fece risolvere definitivamente la controversia fu più o meno fortuita. Nell’inverno 1919-1920 le condizioni delle ferrovie erano divenute catastrofiche e la completa disorganizzazione dei trasporti minacciava di provocare il crollo dell’economia; Lenin telegrafò a Trockij, che si trovava negli Urali, pregandolo di prendersi cura della cosa. Dapprima si pensò di ricorrere ai soliti metodi di costrizione. Un decreto dello STO del 30 gennaio 1920 annunciò la mobilitazione per il servizio del lavoro di tutti i ferrovieri; una settimana più tardi un ulteriore decreto conferì ampi poteri disciplinari all’amministrazione delle ferrovie; in nessuno dei due decreti si faceva menzione dei sindacati. Ai primi di marzo del 1920 Trockij ottenne, in appoggio alla sua azione, la creazione di un nuovo organo del Commissariato del Popolo per le Comunicazioni (Narkomput), denominato “amministrazione politica centrale delle ferrovie” (Glavpolitput), il cui compito era di stimolare e rafforzare la coscienza politica dei ferrovieri. Uno degli scopi, o comunque uno dei risultati, della costituzione del nuovo organo era quello di eliminare il sindacato dei ferrovieri, che, fin dalle agitazioni delle prime settimane della rivoluzione, aveva difeso ostinatamente la propria indipendenza. Una speciale risoluzione del IX Congresso del partito, nel marzo 1920, richiamò l’attenzione sull’importanza fondamentale dei trasporti e additò “la ragione principale del ritardo nel miglioramento dei trasporti” nella “debolezza del sindacato dei ferrovieri”. La risoluzione diede il suo pieno appoggio al Glavpolitput, il cui duplice compito doveva consistere “nel migliorare urgentemente i trasporti, mediante l’azione organizzata dei comunisti più attivi … e, al tempo stesso, nel rafforzare l’organizzazione del sindacato dei ferrovieri, attraverso l’assorbimento dei migliori lavoratori, e nell’aiutare il sindacato stesso a creare una disciplina di ferro nella sua organizzazione, facendo così di esso uno strumento insostituibile per l’ulteriore miglioramento dei trasporti”.   Ben presto sorsero delle rivalità e si giunse ad un vero e proprio conflitto fra il Glavpolitput e il sindacato dei ferrovieri. Esso giunse al suo culmine quando il comitato centrale del partito decise di rimuovere il comitato del sindacato dei ferrovieri e di sostituirlo con un nuovo comitato, conosciuto, nella successiva controversi, col nome di Cektran.

[Al X Congresso del partito Trockij affermò in due occasioni, senza essere contraddetto, che la decisione i creare il Cektran (suggerita presumibilmente dallo stesso Trockij) era stata presa dal comitato centrale del partito il 28 agosto 1920, con l’appoggio di Lenin, di Zinov’ev e di Stalin, nonostante le proteste di Tonskij]

     La guerra polacca tuttora in corso e il nuovo intervento di Vrangel’ nel Sud sembravano giustificare ancora qualsiasi misura d’emergenza che servisse a far funzionare il servizio dei trasporti. Alla fine del settembre, tuttavia, i sindacati erano riusciti a riguadagnare parte del loro prestigio presso il comitato centrale del partito, il quale approvò una risoluzione in cui si deploravano “tutti i minuti controlli e le piccole ingerenze” negli affari dei sindacati stessi, prendendo atto che la situazione dei trasporti era “decisamente migliorata” e dichiarando che era giunto il momento di trasformare il Glavpolitput (e un corrispondente organo per i trasporti fluviali, denominato Glavpolitvod) in organi sindacali.

     Quando, perciò, all’inizio del novembre 1920 venne convocata a Mosca una conferenza panrussa dei sindacati (non si trattava di un vero e proprio congresso), gli animi erano già tesi. L’armistizio con la Polonia era stato firmato e la guerra civile era pressoché finita, mentre la crisi dei trasporti poteva dirsi virtualmente superata. Come d’abitudine, i delegati bolscevichi si riunirono in anticipo per decidere la loro linea di condotta alla conferenza. Approfittando d’una discussione relativa alla produzione, Trockij diresse un attacco a fondo contro i sindacati, i quali, egli disse, necessitavano d’una “scrollata”. Tomskij (presidente del Consiglio dei sindacati e membro del Comitato centrale del partito) replicò all’attacco con asprezza. La polemica si svolse ai margini della conferenza, ed essa si accontentò di alcune tesi piuttosto generiche di Rudzutak sul ruolo dei sindacati nello sviluppo della produzione. [Tali tesi furono lodate da Lenin a da lui citate in extenso]

     Ma la situazione all’interno del partito si era a tal punto inasprita da richiedere l’intervento del comitato centrale. Nel corso di una riunione svoltasi l’8 novembre 1920, Lenin e Trockij presentarono due schemi di proposte, e il giorno seguente, al termine di faticose discussioni, il comitato approvò con 10 voti contro 4 (l’opposizione era costituita da Trockij, Krestinkij, Andreev e Rykov) una risoluzione basata sullo schema di Lenin. La risoluzione distingueva accortamente tra “centralismo” e “forme militarizzate del lavoro”, che avevano tendenza a degenerare in burocrazia, tra “la gretta tutela dei sindacati” e “le forme sane della militarizzazione del lavoro”. In merito al punto essenziale, essa prescrisse che il Cektran (Comitato centrale dei trasporti) partecipasse al Consiglio centrale dei Sindacati, su base di parità con i comitati centrali dei principali sindacati, e decise di nominare un comitato con l’incarico di redigere nuove istruzioni generali sui sindacati. Ciò provocò una scissione all’interno del Cektran, e il 7 dicembre 1920 il comitato centrale tornò ad occuparsi della questione in un’atmosfera sempre più tesa. In tale occasione Lenin lasciò che Zinov’ev si misurasse con Trockij. Il comitato centrale si dimostrò, tuttavia, contrario ad entrambi, e Bucharin creò il cosiddetto “gruppo cuscinetto” (comprendente Preobrazenskij, Serebrjakov e Larin) e fece approvare con 8 voti contro 7 una risoluzione di compromesso che lasciava impregiudicate tutte le questioni fino al congresso del partito della primavera seguente. Il Glavpolitput, e la consimile organizzazione del Glavpolitvod, vennero ufficialmente disciolti, e il loro personale e i loro beni passarono ai sindacati. Il Cektran fu lasciato in vita a condizione che esso procedesse a nuove elezioni in occasione dell’imminente congresso dei lavoratori dai trasporti, nel febbraio 1921.[La risoluzione “cuscinetto” fu pubblicata nella Pravda del 14 dicembre 1920]

     Da quel momento non fu più possibile rispettare la decisione presa in novembre di evitare la pubblica discussione delle divergenze sorte nel partito. [Il ritiro del divieto da parte di Zinov’ev, su ordine di Lenin, fu registrato da Trockij]

     Nei tre mesi intercorrenti tra la riunione di dicembre del comitato centrale e l’apertura del X Congresso del partito, l’8 marzo 1921, un aspro dibattito sul ruolo dei sindacati imperversò nelle riunioni e nella stampa del partito.

[Per dare un’idea dell’eccezionale ampiezza del dibattito, possiamo ricordare alcuni momenti chiave: il 24 dicembre 1920 Trockij parlò ad una riunione di massa di sindacati e delegati all’VIII Congresso Panrusso dei Soviet: il suo discorso fu pubblicato il giorno dopo sotto forma di opuscolo; anche Tomskij ed altri parlarono alla stessa riunione. Il 30 dicembre 1920, a un’analoga riunione intervennero Lenin, Zinov’ev, Bucharin, Slipnikov e altri; i loro discorsi furono pubblicati in un opuscolo. Una settimana dopo Zinov’ev parlò ad un’assemblea a Pietrogrado. Per tutto il gennaio 1921, la Pravda pubblicò quasi giornalmente articoli di rappresentanti delle varie “piattaforme”. Il contributo di Stalin, una polemica contro Trockij, apparve il 19 gennaio, l’articolo di Lenin, La crisi del partito, il 21 gennaio. Alla fine di gennaio, Lenin riassunse il dibattito in un opuscolo intitolato Ancora sui sindacati, con il sottotitolo Sugli errori dei compagni Trockij e Bucharin. Prima dell’apertura del congresso, i principali documenti furono pubblicati per ordine del comitato centrale in un volume a cura di Zinov’ev. Che la parte sostenuta da Stalin dietro le quinte fosse molto più importante di quanto lasciasse supporre il suo unico articolo pubblicato, è evidente dalla battuta di un delegato al congresso del partito; tale delegato osservò che, mentre Zinov’ev lavorava a Pietrogrado, “quello stratega di guerra e arcidemocratico, il compagno Stalin” si dava da fare a Mosca, redigendo “rapporti in cui si sosteneva che questa o quest’altra vittoria era stata ottenuta su questo o quest’altro fronte, che tanti avevano votato a favore della tesi di Lenin, e soltanto sei per la tesi di Trockij … ecc. ecc.”]

     Secondo Trockij e il Cektran,il sindacato dei ferrovieri intendeva comportarsi come un sindacato capitalista, relegando in sott’ordine il problema dell’organizzazione della produzione; a Tomskij si attribuiva la parte del “Gompers dello stato operaio”. Gli oppositori sostenevano invece che “l’apparato del Narkomprod stava inghiottendo quello dei sindacati, lasciando a quest’ultimi solo le corna e i piedi”. Una mezza dozzina di programmi, o “piattaforme”, vennero messi in circolazione. Quando il congresso si riunì, la situazione si era ormai, in una certa misura, chiarita da sé. Il “gruppo cuscinetto” di Bucharin, fallito il tentativo di promuovere un accordo generale, era venuto a patti con Trockij, e un progetto comune fu presentato al congresso a nome di otto membri del comitato centrale: Trockij, Bucharin, Abdreev, Dzerzinhij, Krestinskij, Preobrazenskij, Rakovskij e Serebrjakov. All’ala opposta si era venuto organizzando nell’inverno 1920-21 un gruppo di sinistra, detto dell’“opposizione operaia”. Il suo programma, vago ma lungimirante, comprendeva il controllo della produzione industriale da parte dei sindacati; e proposte in tale senso furono sottoposte dal gruppo al X Congresso del partito: i suoi esponenti erano Sljapnikov e la Kollontaj. Questo nuovo elemento favorì il gioco del gruppo Lenin-Zinov’ev, che poté così presentarsi come una forza di centro, moderatrice; il suo punto di vista venne presentato al congresso sotto forma di uno schema di risoluzione, detto “dei dieci”: Lenin, Zinov’ev, Tomskij, Rudzutak, Kalinin, Kamenev, Lozovskij, Petrovskij, Artem e Stalin. I gruppi minori si ritirarono nell’ombra prima del congresso o immediatamente dopo la sua apertura, cedendo il campo ai tre maggiori contendenti.

     Al X Congresso del partito il vero e proprio dibattito si esaurì rapidamente; esso si limitò a una sola seduta e fu in gran parte intessuto di semplici recriminazioni. Quando i delegati furono chiamati ad esprimersi, le conclusioni erano già scontate. L’influenza personale di Lenin e il peso dell’apparato del partito bastarono a determinare l’esito del congresso. Tuttavia, le adesioni raccolte tra i delegati dagli altri programmi erano assai maggiori di quanto non trasparisse dai voti. Dalle tre principali “piattaforme” risultava chiaramente quali erano le questioni di principio in giuoco. L’“opposizione operaia”, come già in passato i sostenitori del “controllo operaio”, esprimeva una concezione essenzialmente sindacalista dello “stato operaio”, richiamandosi alla componente sindacalista della teoria del partito: al congresso Sljapnikov citò la previsione di Engels secondo la quale la società futura avrebbe “organizzato l’industria sulla base d’una associazione libera ed uguale di tutti i produttori”. (Lenin replicò che Engels stava parlando in quel caso di una “società comunista”.) In quanto i sindacati costituivano l’unica organizzazione che rappresentasse direttamente ed esclusivamente i lavoratori, era inconcepibile che essi venissero subordinati a qualsivoglia autorità politica. La direzione dell’economia nazionale avrebbe dovuto essere affidata, al vertice, ad un congresso panrusso dei produttori, e, al livello inferiore, ai sindacati. Ne derivava che le funzioni politiche avrebbero dovuto essere lasciate ai Soviet, i quali, come depositai del potere politico, erano destinati presumibilmente a scomparire. Per ciò che riguardava le questioni pratiche e immediate, l’“opposizione operaia” richiedeva la parificazione salariale, la distribuzione gratuita ai lavoratori dei generi alimentari a di prima necessità, e la progressiva sostituzione dei pagamenti monetari con pagamenti in natura. L’“opposizione operaia” aveva una concezione rigida della classe operaia ed era contraria, almeno in teoria, a qualsiasi concessione ai contadini. Essa, mentre da un lato respingeva tutto ciò che poteva riferirsi alla militarizzazione del lavoro, avallava d’altro canto le misure economiche e finanziarie più estreme del comunismo di guerra, mantenendo così la sua posizione all’ala sinistra del partito. L’opposizione operaia non aveva da offrire alcun rimedio alla crisi che stava di fronte al X Congresso, e raccolse solo 18 voti.

     Il programma Trockij-Bucharin, che rappresentava di fatto il punto di vista di Trockij, sfumato in alcune delle sue più aspre formulazioni, si definì una piattaforma di “produzione” in opposizione a quella “sindacalista”. Essa chiedeva “la trasformazione dei sindacati in unità di produzione, non soltanto di nome, ma anche nella sostanza e nei metodi di lavoro”. Il programma del partito del 1919 aveva provveduto alla concentrazione nelle mani dei sindacali dell’“intera amministrazione di tutta l’economia nazionale, concepita come singola unità economica”. Ciò presupponeva, però, “la trasformazione pianificata dei sindacati in apparati dello stato operaio”. Per completare tale processo, era indispensabile una più stretta integrazione fra il Vesencha (Consiglio Supremo dell’Economia Nazionale) e il Consiglio Centrale dei Sindacati, mentre il Commissario del Popolo per il Lavoro avrebbe dovuto essere abolito del tutto. Il processo di “statizzazione” dei sindacati era ormai giunto, in pratica, a una fase assai avanzata, e non c’era apparentemente alcun motivo per non portarlo a definitivo compimento. Il programma Trockij-Bucharin possedeva una notevole coerenza logica. Tuttavia, il presupposto da cui muoveva, cioè che l’operaio industriale non poteva avere interessi diversi da quelli dello stato sovietico, tali da giustificare la protezione di sindacati indipendenti, se apparentemente poteva trovare una spiegazione in base al termine di “dittatura del proletariato”, nella realtà delle cose esso aveva scarso fondamento: se non altro perché lo stato in quel momento si fondava su un continuo compromesso tra l’operaio dell’industria e il contadino; inoltre, il programma Trockij-Bucharin prestava il fianco alla stessa critica che veniva rivolta all’“opposizione operaia”, seppure da un diverso punto di vista, cioè di ignorare la componente contadina nel potere sovietico. L’insuccesso del programma fu dovuto anche a una ragione più pratica, vale a dire il suo ben noto legame con la politica della mobilitazione forzata della mano d’opera, che costituiva in effetti una logica deduzione dalle sue premesse. Nonostante il nome influente dei suoi promotori, il programma Trockij-Bucharin ottenne al congresso solo 50 voti.

     Il campo era aperto alla risoluzione dei “dieci”, che fu approvata con 336 voti contro i 50 e i 18 voti ottenuti rispettivamente dalle due correnti rivali. La principale critica che le venne mossa fu di non indicare una via d’uscita dalla crisi e, in sostanza, di lasciare le cose al punto in cui si trovavano. La risoluzione respingeva nettamente la proposta dell’“opposizione operaia” di un congresso panrusso dei produttori, la cui maggioranza, fece notare con franchezza Zinov’ev, “in questo grave momento sarebbe costituita da persone non appartenenti al partito, fra cui numerosi socialisti rivoluzionari e menscevichi”. Ma essa dichiarò anche, in opposizione a Trockij, che i sindacati svolgevano già alcune funzioni statali e che la loro “rapida ‘statizzazione’ … avrebbe costituito un grave errore”. L’essenziale era di “guadagnare sempre più allo stato sovietico l’appoggio di queste organizzazioni di massa, al di fuori del partito”. Il carattere distintivo dei sindacati era costituito dall’uso dei metodi persuasivi (sebbene la “costrizione proletaria” non fosse sempre esclusa); incorporarli nello stato avrebbe significato privarli di tale elemento a loro favore.

[Lenin insisté in modo particolare su questo punto nel suo breve discorso al congresso intorno alla questione sindacale: “Dobbiamo a ogni costo prima persuadere, e poi costringere”.]

la “piattaforma” dei “dieci” si basava su considerazioni di carattere pratico, piuttosto che su un contenuto teorico. Ma questa, appunto, era la sua forza. Sulle questioni particolari, i “dieci”, se da un lato accettarono come meta ultima l’uguagliamento dei salari, dall’altro si dimostrarono contrari a farne un obiettivo politico immediato, come voleva l’“opposizione operaia”; i sindacati avrebbero dovuto “usare il pagamento dei salari in denaro o in natura come mezzo per disciplinare la mano d’opera e incrementare la sua produttività (sistema di premi, ecc.)”. Inoltre, i sindacati avrebbero dovuto far rispettare la disciplina e combattere le diserzioni dal lavoro per mezzo di “tribunali operai di disciplina”.

     Le proposte dei “dieci” adottate dal X Congresso del partito per risolvere la controversia sui sindacati non contenevano nessun elemento originale, ma avevano soprattutto un carattere pratico. Ciò nonostante, esse contribuirono ben poco a risolvere il problema fondamentale, quello, cioè, di conferire ai sindacati una funzione autonoma senza trasformarli in organi dello stato. 

     Al Congresso Trockij predisse che la risoluzione vincitrice non sarebbe “sopravvissuta fino all’XI Congresso”. La previsione si avverò in pieno. Una nuova crisi sopravvenne dopo solo due mesi; la linea del partito verso i sindacati sarebbe stata nuovamente e radicalmente modificata in base alla risoluzione del comitato centrale del gennaio 1922. Se i nuovi cambiamenti poterono essere realizzati in un clima meno polemico di quello che aveva caratterizzato l’inverno 1920-21, ciò fu dovuto a due fattori. In primo luogo, il giro di vite dato dal X Confesso alla disciplina del partito evitò il ripetersi delle aperte e astiose polemiche che avevano preceduto il congresso. In secondo luogo, la controversia sui sindacati nell’inverno 1920-21 si era svolta nel regime del comunismo di guerra e sulla base dei presupposti economici di quel sistema.

     L’abbandono del comunismo di guerra e l’avvento della Nuova Politica economia ebbero ripercussioni sulla politica del lavoro: mentre la “piattaforma” di Trockij e quella dell’“opposizione operaia” risultarono sorpassate, il programma adottato dal X Congresso parve adeguarsi meglio alla nuova situazione e rappresentare in certo senso una continuazione dell’indirizzo espresso dal congresso stesso. La politica di Trockij della mobilitazione del lavoro da parte dello stato rispecchiava l’estrema tensione degli anni del comunismo di guerra e non poteva che essere seguita da un periodo di rilassamento. Ciò nonostante, essa dimostrò di possedere una validità più duratura di altri aspetti del comunismo di guerra: la politica del lavoro che venne adottata alcuni anni dopo, con i piani quinquennali, era assai più debitrice ai concetti esposti da Trockij in quell’epoca che alla risoluzione adottata dal X Congresso del partito.