lunedì 27 febbraio 2012

Il 18 Brumaio - Karl Marx

                                                                                                                                                                                                                     

IV
[…]
Per quanto grande fosse la somma di passione e di retorica che il partito dell'ordine poteva lanciare contro la minoranza dall'alto della tribuna parlamentare, i suoi discorsi rimanevano monosillabici, come quelli del cristiano, le cui parole debbono essere: Sí, sí; no, no! Monosillabici alla tribuna come nella stampi. Insipidi come un indovinello di cui si conosce in anticipo la soluzione. Che si trattasse del diritto di petizione o dell'imposta sul vino, della libertà di stampa o della libertà di commercio, dei clubs o della costituzione municipale, della difesa della libertà personale o del regolamento del bilancio, si ritorna sempre alla parola d'ordine, il tema rimane sempre lo stesso, la sentenza è sempre pronta ed è invariabilmente la stessa: "socialismo!". Socialista viene dichiarato persino il liberalismo borghese, socialista la cultura borghese, socialista la riforma finanziaria borghese. Era socialista costruire una ferrovia dove già esisteva un canale, ed era socialista difendersi col bastone, quando si era assaliti con una spada.

Né ciò era un semplice modo di parlare, una moda, una tattica di partito. La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro il feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione da lei escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da lei creati l'abbandonavano Essa capiva che tutte le cosiddette libertà e istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano cioè diventate "socialiste". In questa minaccia e in questo attacco essa vedeva il segreto del socialismo, di cui giudicava il con ragione il senso e la tendenza meglio di quanto non sappia giudicarsi il socialismo stesso; il quale non può capire perché la borghesia gli sia così inesorabilmente inaccessibile, sia che egli gema flebilmente sulle miserie dell'umanità, o annunci da buon cristiano l'avvento del regno millenario e la fratellanza universale, o umanisticamente fantastichi di spirito, cultura e libertà, oppure si faccia dottrinario e inventi un sistema di conciliazione e di prosperità per tutte le classi. Ma ciò che la borghesia non comprendeva era la conseguenza che il suoproprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico dovevano anche essi sottostare alla generale sentenza di condanna come socialisti. Sino a che il dominio della borghesia non si fosse organizzato completamente, non avesse acquistato a sua espressione politica pura, anche il contrasto con le altre classi non poteva presentarsi in modo puro, e dove esso si presentava, non poteva assumere quel corso pericoloso che trasforma ogni lotta contro il potere della Stato in uni lotta contro il capitale. Se in ogni palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la "calma", come poteva voler conservare, alla testa della società, il regime della irrequietezza, il suo proprio regime, ilregime parlamentare, questo regime che, secondo l'espressione di uno dei suoi oratori, vive nella lotta e per la lotta, Il regime parlamentare vive della discussione: come può proibire la discussione? Ogni interesse, ogni provvedimento sociale viene trasformato nel regime parlamentare in idea generale e trattato come idea; come può quindi un interesse qualsiasi, un provvedimento qualsiasi, elevarsi al di sopra dei pensiero e imporsi come articolo di fede? La lotta degli oratori alla tribuna provoca le polemiche violente dei giornali; quel club di discussione che è il Parlamento viene necessariamente completato dai club di discussione dei salotti e delle osterie; i rappresentanti che continuamente fanno appello alla opinione pubblica autorizzano l'opinione pubblica a esprimere la sua vera opinione mediante petizioni. Il regime parlamentare rimette tutto alla decisione delle maggioranze: come le grandi maggioranze non dovrebbero voler decidere al di fuori del Parlamento? Se alla sommità dell'edificio dello Stato si suona il violino, come non aspettarsi che quelli che stanno in basso si mettano a ballare?

Tacciando dunque di eresia "socialista" ciò che prima aveva esaltato come "liberale", la borghesia confessa che il suo proprio interesse le impone di sottrarsi al pericolo dell'autogoverno; che per mantenere la calma nel paese deve anzitutto essere ridotto alla calma il suo Parlamento borghese; che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere politico; che i singoli borghesi possono continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e dell'ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi; che per salvare la propria borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere deve in pari tempi pendere come una spada di Damocle sulla propria testa.
[…]
Il partito socialdemocratico, dal canto suo, sembrava non cercasse altro che pretesti per rimettere in questione la propria vittoria e spezzarne la punta. Vidal, uno dei nuovi deputati eletti a Parigi, era stato in pari tempo eletto a Strasburgo. Lo si indusse a rinunciare al seggio di Parigi e ad optare per Strasburgo. Dunque, invece di dare alla propria vittoria elettorale un carattere definitivo e così obbligare il partito dell'ordine a disputargliela immediatamente nel Parlamento; invece di costringere l'avversario alla lotta nel momento in cui il popolo era pieno di entusiasmo e lo stato d'animo dell'esercito era favorevole, il partito democratico stancò Parigi, durante i mesi di marzo e di aprile, con una agitazione elettorale; lasciò che le passioni popolari eccitate si consumassero in questo nuovo effimero episodio elettorale; lasciò che l'energia rivoluzionarla si appagasse di successi costituzionali, si perdesse in piccoli intrighi, in vuote azioni e in movimenti fittizi; lasciò che la borghesia raccogliesse le sue forze e prendesse le sue precauzioni; lasciò, infine, che l'importanza delle elezioni di marzo trovasse un commento sentimentale e che la indeboliva con l'elezione di Eugenio Sue  alle elezioni complementari di aprile. In una parola, trasformò il 10 marzo in un pesce d'aprile.

La maggioranza parlamentare si rese conto della debolezza del suo avversario. Poiché Bonaparte le aveva lasciato la direzione e la responsabilità dell'attacco, i suoi diciassette burgravi elaborarono una nuova legge elettorale, e il signor Faucher, che aveva reclamato per sé questo onore, venne incaricato di presentarla. L'8 maggio egli presentò la legge che aboliva il suffragio universale, imponeva agli elettori l'obbligo di un domicilio di tre anni nel luogo dell'elezione, e infine faceva dipendere la prova di questo domicilio, per gli operai, dalla testimonianza dei loro datori di lavoro.
Quanto erano stati rivoluzionari i democratici nelle loro agitazioni e nelle loro smanie durante la lotta elettorale costituzionale, altrettanto furono costituzionali, ora che si trattava di dimostrare con le armi alla mano la serietà di quelle vittorie elettorali, nel predicare l'ordine, una calma maestosa (calme majestueux), un atteggiamento legale, cioè la cieca sottomissione al volere della controrivoluzione, che si imponeva come legge. Durante il dibattito, la Montagna confuse il partito dell'ordine, opponendo alla passione rivoluzionaria di quest'ultimo l'atteggiamento tranquillo del brav'uomo che si mantiene sul terreno legale, e schiacciando il partito dell'ordine con l'accusa terribile di procedere in modo rivoluzionario. Perfino i deputati allora eletti si sforzarono di dimostrare, con un contegno corretto e ragionevole, quanto fosse errato accusarli di essere anarchici e presentare la loro elezione come una vittoria della rivoluzione. Il 31 maggio la nuova legge elettorale venne approvata. La Montagna si accontentò di introdurre una protesta nella tasca dei presidente, di contrabbando.
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Abbiamo visto come durante i mesi di marzo e di aprile i capi democratici avessero fatto di tutto per impegnare il popolo di Parigi in una lotta illusoria; e come, dopo l'8 maggio, essi facessero di tutto per distoglierlo da una lotta reale. Inoltre non dobbiamo dimenticare che il 1850 fu uno degli anni più brillanti per quanto riguarda la prosperità dell'industria e del commercio, e che quindi il proletariato di Parigi era completamente occupato. Però la legge elettorale del 31 maggio 1850 lo escludeva da ogni partecipazione al potere politico. Lo escludeva dal terreno stesso della lotta, e rigettava gli operai nella situazione di parla che essi avevano avuto prima della rivoluzione di febbraio. Lasciandosi dirigere, di fronte a un tale avvenimento, dai democratici, dimenticando, per un benessere passeggero, l'interesse rivoluzionario della loro classe, gli operai rinunziavano all'onore di essere un potere conquistatore; si sottomettevano al loro destino; provavano che la disfatta del giugno 1848 li aveva resi incapaci per anni di combattere e che il processo storico doveva nuovamente incominciare a svolgersi al di sopradelle loro teste. Quanto alla democrazia piccolo-borghese, che il 13 giugno aveva gridato: "Ma se si toccherà il suffragio universale, allora...!" - essa si consolava ora dicendo che il colpo controrivoluzionario che l'aveva colpita non era un colpo e che la legge del 31 maggio non era una legge. La seconda [domenica] di maggio del 1852 ogni francese sarebbe andato alle urne tenendo in una mano la scheda elettorale e nell'altra la spada. Di questa profezia essa si accontentava.
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La legge del 31 maggio 1850 fu il colpo di stato della borghesia Tutte le sue precedenti vittorie sulla rivoluzione avevano soltanto un carattere provvisorio. Esse sarebbero state poste in forse non appena l'attuale Assemblea nazionale fosse scomparsa dalla scena: dipendevano dal caso di nuove elezioni generali; e la storia delle elezioni, a partire dal 1848, aveva provato in modo inconfutabile che l'autorità morale della borghesia sulle masse popolari andava perduta nella stessa misura in cui il dominio di fatto della borghesia si sviluppava. Il 10 marzo il suffragio universale si era dichiarato direttamente avverso al dominio della borghesia. La borghesia rispose dando il bando al suffragio universale. La legge del 31 maggio era una delle necessità della lotta di classe.
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V
Superata la crisi rivoluzionaria e soppresso il suffragio universale, la lotta tornò subito a divampare tra l'Assemblea nazionale e Bonaparte.

La Costituzione aveva fissato lo stipendio di Bonaparte a 600.000 franchi. Sei mesi appena dopo la sua installazione egli era riuscito a far raddoppiare questa somma. Infatti, Odilon Barrot aveva strappato all'Assemblea nazionale costituente un supplemento annuo di 600.000 franchi per cosiddette spese di rappresentanza. Dopo il 13 giugno Bonaparte aveva fatto delle sollecitazioni dello stesso genere, questa volta senza trovare ascolto presso Barrot. Ora, dopo il 31 maggio, egli approfittò immediatamente del momento favorevole e fece proporre dai suoi ministri all'Assemblea nazionale una lista civile di tre milioni. Una lunga avventurosa vita di vagabondo lo aveva dotato di fiuto finissimo per accorgersi dei momenti di debolezza in cui poteva spillare denaro ai suoi borghesi. Era un vero e proprio chantage. L'Assemblea nazionale aveva, col suo concorso e con la sua complicità, disonorato la sovranità popolare. Egli minacciava di denunciare il delitto al tribunale del popolo, qualora l'Assemblea non avesse aperto la borsa e comprato il suo silenzio con tre milioni all'anno. Essa aveva defraudato tre milioni di francesi del diritto di voto. Per ogni francese messo fuori corso egli esigeva un franco a corso legale, cioè esattamente tre milioni di franchi in tutto. Egli, l'eletto di sei milioni, chiedeva un risarcimento per i voti che gli erano stati posticipatamente borseggiati. La commissione della Assemblea nazionale oppose un rifiuto all'impudente. La stampa bonapartista si fece minacciosa. Poteva l'Assemblea nazionale rompere col presidente della repubblica proprio nel momento in cui aveva rotto in linea di principio e definitivamente con la massa della nazione? Essa respinse dunque la lista civile annua; ma concesse, una volta tanto, un supplemento di 2.160.000 franchi. In questo modo essa si rendeva colpevole di due debolezze: quella di concedere il denaro e quella di mostrare, col suo cattivo umore, che lo concedeva di malavoglia. Vedremo in seguito perché Bonaparte aveva bisogno del denaro. Dopo questo epilogo disgustoso che seguì immediatamente la soppressione del suffragio universale, e in cui Bonaparte sostituì all'atteggiamento di sottomissione durante la crisi di marzo e di aprile una sfrontatezza provocante nel riguardi del Parlamento usurpatore, l'Assemblea nazionale si aggiornò per tre mesi, dall'11 agosto all'11 novembre.
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Quando l'Assemblea nazionale tornò a riunirsi nel novembre 1850, sembrò che invece delle piccole scaramucce col presidente che s'erano avute fino a quel momento, fosse diventata inevitabile una lotta spietata, una lotta a morte tra i due poteri.
[…]
Il 12 novembre mandava [il Presidente N.d.R.] all'Assemblea nazionale un messaggio di americana prolissità, sovraccarico di particolari, spirante ordine imbevuto di brame di conciliazione, costituzionalmente rassegnato, in cui si trattava di tutto e di tutti, eccetto che delle questions brúlantes. Come di sfuggita, lasciava cadere l'affermazione che secondo le espresse disposizioni della Costituzione il presidente solo disponeva dell'esercito. Il messaggio si chiudeva con queste parole di solenne assicurazione:
"La Francia reclama anzitutto tranquillità... Unicamente legato dal mio giuramento, mi terrò entro i limiti ristretti che esso mi ha tracciato. Per quel che mi concerne, eletto dal popolo e dovendo a lui solo il mio potere, mi sottometterò alla sua volontà legalmente espressa. Se voi decidete corso di questa sessione, la revisione della Costituzione, un'Assemblea costituente regolerà la situazione del potere esecutivo. Se no, il popolo proclamerà solennemente nel 1852 la sua decisione. Ma qualsiasi possano essere le soluzioni dell'avvenire, mettiamoci d'accordo per non lasciar mai la passione, la sorpresa o la violenza decidere delle sorti di una grande nazione......Ciò che richiama innanzi tutto la mia attenzione non è il problema di sapere chi governerà la Francia nel 1852, ma d'impiegare il tempo di cui dispongo affinché il periodo da attraversare trascorra senza agitazioni e senza perturbamenti. Vi ho aperto il mio cuore con sincerità; voi risponderete con la vostra collaborazione e Dio farà il resto ".

Il linguaggio dabbene della borghesia, ipocritamente moderato, pieno di luoghi comuni virtuosi, rivela il suo significato più profondo nella bocca dell'autocrate della Società del 10 dicembre, dell'eroe delle merende di St. Maur e di Satory.

I burgravi del partito dell'ordine non si illusero nemmeno un istante circa la fiducia che meritava questa effusione. Quanto ai giuramenti, essi erano disincantati da un pezzo; vi erano tra loro dei veterani, dei virtuosi dello spergiuro politico. L'accenno all'esercito non era loro sfuggito. Essi notarono con sdegno che il messaggio, nella prolissa enumerazione delle leggi recentemente promulgate, passava intenzionalmente sotto silenzio la legge più importante, la legge elettorale, e invece rimetteva al popolo, in caso di mancata revisione della Costituzione, l'elezione del presidente nel 1852.

Per il partito dell'ordine, la legge elettorale era la palla di piombo ai piedi che gli impediva di camminare e ancor più di andare all'assalto. Inoltre Bonaparte, con lo scioglimento ufficiale della Società del 10 dicembre e col licenziamento del ministro della guerra d'Hautpoul, aveva sacrificato di mano sua, sull'altare della patria, i capri espiatori. Aveva spezzato la punta dell'atteso conflitto. Infine, lo stesso partito dell'ordine cercava angosciosamente di evitare, di attenuare, di soffocare ogni conflitto decisivo col potere esecutivo. Per paura di perdere le conquiste strappate alla rivoluzione, lasciava che il suo rivale ne godesse i frutti. "La Francia reclama anzitutto tranquillità". Questo era l'appello che il partito dell'ordine rivolgeva alla rivoluzione a partire dal mese di febbraio; questo era l'appello che Bonaparte rivolgeva al partito dell'ordine. "La Francia reclama anzitutto tranquillità". Bonaparte commetteva atti tendenti all'usurpazione; ma il partito dell'ordine commetteva un "disordine" protestando rumorosamente contro questi atti e commentandoli con malumore.

Le salsicce di Satory sarebbero rimaste mute come un pesce se nessuno ne avesse parlato. "La Francia reclama anzitutto tranquillità". Perciò Bonaparte chiedeva che lo lasciassero fare in pace le cose sue, e il partito parlamentare era paralizzato da una duplice paura: dalla paura di provocare di nuovo l'agitazione rivoluzionaria e dalla paura di apparire, proprio lui, come fomentatore di disordini agli occhi della propria classe, agli occhi della borghesia. Poiché dunque la Francia reclamava anzitutto tranquillità, il partito dell'ordine non osò, dato che Bonaparte nel suo messaggio aveva parlato di "pace", rispondere "guerra". Il pubblico, che si era lusingato di assistere, all'apertura dell'Assemblea nazionale, a grandi scene di scandalo, fu deluso nella sua aspettativa. I deputati dell'opposizione, che chiedevano venissero presentati i verbali della Commissione permanente relativi agli avvenimenti di ottobre, furono messi in minoranza. Si evitò per principio ogni discussione che potesse creare irritazione. I lavori dell'Assemblea nazionale durante i mesi di novembre e di dicembre 1850 furono privi di interesse.

Infine, verso la fine di dicembre, incominciarono le scaramucce a proposito di talune prerogative del Parlamento. Dal momento che proprio la borghesia, abolendo il suffragio universale, aveva messo fine alla lotta di classe, il movimento si perdeva in risse meschine circa le prerogative dei due poteri.
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Abbiamo visto come l'Assemblea nazionale, nei mesi di novembre e di dicembre, aveva evitato, in occasioni importanti, decisive, di impegnare la lotta col potere esecutivo: si era ritirata. Ora la vediamo costretta ad accettare la lotta per i motivi più meschini.
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Così durante tutto questo periodo vediamo il partito dell'ordine costretto dalla sua posizione equivoca a consumare e spezzettare la sua lotta col potere esecutivo in una serie di meschini conflitti di competenza, di risse, di cavilli, di contrasti di potere; costretto a fare delle più stupide questioni di forma il contenuto della sua attività. Esso non osa impegnare la battaglia quando questa ha un'importanza di principio, quando il potere esecutivo si è veramente smascherato e la causa dell'Assemblea nazionale sarebbe la causa di tutta la nazione. In tal modo quest'ultima darebbe alla nazione un ordine di marcia; ma quello che teme più di tutto è che la nazione si muova. In simili occasioni, perciò, il partito dell'ordine respinge le proposte della Montagna e passa all'ordine del giorno. Spogliato così il conflitto delle sue grandi dimensioni, il potere esecutivo attende tranquillamente il momento in cui può riprenderlo per motivi insignificanti e meschini, che non offrono più, per così dire, che un interesse strettamente parlamentare. Allora il furore contenuto del partito dell'ordine scoppia; allora questo partito strappa il sipario che nasconde il retroscena; allora denuncia il presidente e dichiara la repubblica in pericolo; ma allora il suo patos appare insipido e il motivo della lotta appare ormai soltanto un pretesto ipocrita o, in generale, non degno di un combattimento. La tempesta parlamentare si trasforma in una tempesta in un bicchier d'acqua; la lotta diventa intrigo; il conflitto diventa scandalo. Mentre la gioia maligna delle classi rivoluzionarie si pasce dell'umiliazione dell'Assemblea nazionale, poiché esse si appassionano per le prerogative dell'Assemblea altrettanto quanto l'Assemblea si appassiona per le pubbliche libertà, la borghesia fuori del Parlamento non comprende come la borghesia all'interno del Parlamento possa perdere il suo tempo in risse così meschine e turbare la tranquillità per rivalità così miserabili col presidente. Essa è sconcertata da una strategia che fa la pace in un momento in cui tutti aspettano la guerra, e attacca in un momento in cui tutti credono che la pace sia conclusa.
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Respingendo l'esercito che si era posto a sua disposizione nella persona di Changarnier e ponendolo in modo così irrevocabile nelle mani del presidente, il partito dell'ordine dichiarava che la borghesia aveva perduto la missione di comandare. Non esisteva già più un governo parlamentare; avendo perduto ora anche la possibilità di disporre dell'esercito e della Guardia nazionale, quale altro mezzo di azione gli rimaneva per difendere in pari tempo il potere strappato dal Parlamento al popolo e il proprio potere costituzionale contro il presidente? Nessuno. Gli rimaneva ancora l'appello a princìpi privi di potenza, che esso stesso aveva sempre considerato soltanto come regole generali che si prescrivono agli altri per potersi muovere tanto più liberamente. Con la destituzione di Changarnier, con l'attribuzione del potere militare a Bonaparte  si chiude la prima parte del periodo che stiamo considerando, del periodo della lotta tra il partito dell'ordine e il potere esecutivo. La guerra tra questi due poteri è ora apertamente dichiarata e viene condotta apertamente, ma solo dopo che il partito dell'ordine ha perduto le armi e i soldati. Senza governo, senza esercito, senza popolo, senza opinione pubblica, dopo la legge elettorale dei 31 maggio non più rappresentante della nazione sovrana, senz'occhi, senz'orecchi, senza denti, senza tutto, l'Assemblea nazionale si era trasformata a poco a poco in unParlamento della vecchia Francia, costretto ad abbandonare l'azione al governo e a limitarsi a ringhiose rimostranze post festum.

Il partito dell'ordine accoglie il nuovo governo con una tempesta d'indignazione. Il generale Bedeau richiama alla memoria la moderazione di cui aveva dato prova durante le ferie la Commissione permanente, e l'estremo riguardi con cui essa aveva rinunciato alla pubblicazione dei suoi verbali. Allora il ministro degli interni insiste di persona perché vengano pubblicati questi verbali, che ora, naturalmente, sono diventati insipidi come l'acqua stantia, non rivelano nessun fatto nuovo e cadono tra il pubblico ormai stanco senza produrre il minimo effetto. Su proposta di Rémusat, l'Assemblea nazionale si ritira nei suoi uffici e nomina un "comitato di misure straordinarie". Parigi non abbandona il corso della sua vita quotidiana; tanto più che in questo momento il commercio è prospero, le manifatture lavorano, i prezzi del grano sono bassi, i viveri sono abbondanti e le casse di risparmio ricevono ogni giorno nuovi depositi. Le "misure straordinarie" che il Parlamento ha annunciato con tanto chiasso si riducono, il 18 gennaio, a un voto di sfiducia contro il governo, senza che venga nemmeno fatta menzione del generale Changarnier.
[…]
La mozione di sfiducia dei 18 gennaio venne approvata con 415 voti contro 286. Fu dunque approvata soltanto per mezzo di una coalizione dei legittimisti e degli orleanisti dichiarati coi repubblicani puri e con la Montagna. Fu dimostrato in tal modo che il partito dell'ordine aveva perduto non soltanto il governo, non soltanto l'esercito, ma nei conflitti con Bonaparte aveva perduto anche la propria maggioranza parlamentare indipendente; fu dimostrato che un gruppo di rappresentanti aveva disertato il suo campo, per spirito di conciliazione spinto al fanatismo, per paura della lotta, per stanchezza, per un riguardo di famiglia verso i consanguinei stipendiati dallo Stato, per speculazione sui futuri posti ministeriali vacanti (Odilon Barrot), per il volgare egoismo onde il borghese ordinario è sempre disposto a sacrificare l'interesse generale della sua classe a questo o a quel motivo privato. I rappresentanti bonapartisti appartenevano fin da prima al partito dell'ordine soltanto per la lotta contro la rivoluzione. Già in quel momento il capo del partito cattolico, Montalembert, disperando della vitalità del partito parlamentare, gettava la sua influenza dalla parte di Bonaparte. I capi del partito parlamentare, infine, Thiers e Berryer, orleanista l'uno, legittimista l'altro, erano costretti a proclamarsi apertamente repubblicani; a riconoscere che se il loro cuore era monarchico, la loro testa era repubblicana; che la loro repubblica parlamentare era l'unica forma possibile di dominio della borghesia nel suo insieme. Erano così costretti a bollare agli occhi della stessa classe borghese, come intrighi altrettanto pericolosi quanto insensati, i piani di restaurazione che essi stessi tramavano indefessamente alle spalle del Parlamento.

Il voto di sfiducia del 18 gennaio colpiva i ministri, non il presidente. Ma non il governo, bensì il presidente aveva destituito Changarnier. Doveva il partito dell'ordine mettere in stato d'accusa Bonaparte stesso? E per cosa? Per le sue velleità di restaurazione? Ma queste non facevano altro che completare le proprie. Per la sua cospirazione nelle riviste militari e nella società del 10 dicembre? Ma questi argomenti erano stati seppelliti da tempo sotto semplici ordini del giorno. Per la destituzione dell'eroe del 29 gennaio e del 13 giugno, dell'uomo che nel maggio 1850 minacciava, in caso di una sommossa a Parigi, di appiccare il fuoco ai quattro angoli della città? I suoi alleati della Montagna e Cavaignac non permettevano al partito dell'ordine di risollevare il caduto baluardo della società nemmeno con una semplice manifestazione ufficiale di condoglianza. Per conto proprio gli uomini del partito dell'ordine non potevano contestare al presidente la facoltà costituzionale di destituire un generale. Essi smaniavano soltanto perché egli aveva fatto uso dei suoi diritti costituzionali in modo antiparlamentare. Ma non avevano proprio loro fatto continuamente uso delle loro prerogative parlamentari in modo anticostituzionale, specialmente nella soppressione del suffragio universale? Essi erano dunque tenuti a muoversi strettamente entro i limiti del Parlamento. E dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il Continente, il cretinismo parlamentare, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore; dovevano essere colpiti da quel cretinismo parlamentare mentre, dopo aver distrutto con le loro mani tutte le condizioni del potere del Parlamento, dopo esser stati costretti a distruggerle nella loro lotta con le altre classi, consideravano ancora le loro vittorie parlamentari vere vittorie e, battendo i suoi ministri, credevano di colpire il presidente. Essi offrivano a quest'ultimo unicamente l'occasione di umiliare ancora una volta l'Assemblea nazionale agli occhi della nazione. Il 20 gennaio il Moniteur annunciava che le dimissioni di tutto il governo erano accettate; e col pretesto che nessun partito parlamentare possedeva più la maggioranza, come dimostrava il voto del 18 gennaio, frutto della coalizione della Montagna e dei monarchici, e in attesa che si formasse una nuova maggioranza, Bonaparte nominò un cosiddetto governo di transizione, nessun membro del quale apparteneva al Parlamento, e che era composto esclusivamente di individui assolutamente sconosciuti e insignificanti, un governo di semplici commessi e di scrivani. Il partito dell'ordine poteva ora esaurirsi nel gioco con queste marionette; il potere esecutivo non considerava più che valesse la pena di essere seriamente rappresentato nel Parlamento. Bonaparte concentrava nella sua persona tutto il potere esecutivo in modo altrettanto più palese; e aveva tanto maggiore libertà di sfruttarlo ai propri scopi, quanto più i suoi ministri erano semplici comparse.
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Frattanto il cosiddetto governo di transizione vegetò fino a metà del mese di aprile. Bonaparte stancava l'Assemblea nazionale e si faceva beffe di essa con sempre nuove combinazioni ministeriali. Ora sembrava che volesse costituire un governo repubblicano con Lamartine  e Billault; ora un governo parlamentare con l'inevitabile Odilon Barrot, il cui nome non poteva mai mancare quando occorreva un minchione; ora un governo legittimista con Vatimesnil  e Benoit d'Azy; ora un governo orleanista con Maleville.

Mentre egli manteneva così le differenti frazioni del partito dell'ordine in uno stato di tensione reciproca, e le spaventava tutte con la visione di un governo repubblicano e della restaurazione in questo caso inevitabile, del suffragio universale, nello stesso tempo creava nella borghesia la convinzione che i suoi sforzi sinceri per creare un governo parlamentare si rompessero contro l'inconciliabilità delle frazioni monarchiche. Ma la borghesia reclamava un "governo forte" con tanto maggior forza, e tanto più imperdonabile le sembrava il fatto che si lasciasse la Francia "senza amministrazione", quanto più pareva si avvicinasse una crisi commerciale generale che avrebbe rafforzato il socialismo nelle città, come i bassi prezzi rovinosi dei cereali lo rafforzavano nelle campagne. Il commercio diventava di giorno in giorno più fiacco; il numero delle braccia disoccupate aumentava a vista d'occhio; a Parigi, 10.000 operai per lo meno erano senza pane; a Rouen, Mulhouse, Lione, Roubaix, Tourcoing, St. Etienne, Elbeuf, ecc., innumerevoli fabbriche erano chiuse.
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Se nel novembre 1849 Bonaparte si era accontentato di un governo non parlamentare e nel gennaio 1851 di un governo extraparlamentare, l'11 aprile si sentì abbastanza forte per formare un governo antiparlamentare, un governo che riuniva in sé in modo armonico i voti di sfiducia delle due Assemblee, la Costituente e la Legislativa, la repubblicana e la monarchica. Questa successione di governi era il termometro secondo cui il Parlamento poteva misurare la diminuzione del proprio calore vitale. A fine aprile era caduto così in basso che Persigny, in un abboccamento personale con Changarnier, poté invitarlo a passare dalla parte del presidente. Bonaparte, gli assicurò, considera completamente distrutta l'influenza dell'Assemblea nazionale ed è già pronto il proclama che dovrà essere pubblicato dopo il colpo di stato continuamente progettato, ma per ora nuovamente rinviato. Changarnier comunicò ai capi del partito dell'ordine questo annunzio di morte, ma chi ha mai creduto che la morsicatura delle cimici sia mortale? E il Parlamento, così battuto, così disfatto, così agonizzante com'era, non poteva rassegnarsi a vedere nel duello col capo grottesco della Società del 10 dicembre altra cosa che il duello con una cimice. Ma Bonaparte rispose al partito dell'ordine come Agesilao al re Agide: "Ti sembro formica ma un giorno sarò leone".

VI
 La coalizione con la Montagna e coi repubblicani puri, a cui il partito dell'ordine si era visto condannato nei suoi vani tentativi per restare in possesso del potere militare e per riconquistare la direzione suprema del potere esecutivo, provava in modo inconfutabile che esso aveva perduto la propria maggioranza parlamentare. La forza pura e semplice del calendario, la lancetta dell'orologio, dette, il 29 maggio, il segnale della sua completa decomposizione. Il 29 maggio cominciava l'ultimo anno di vita dell'Assemblea nazionale. Essa doveva ormai decidersi, o per la proroga senza modificazioni, o per la revisione della Costituzione. Ma revisione della Costituzione non significava soltanto l'alternativa: dominio della borghesia o della democrazia piccolo-borghese, democrazia o anarchia proletaria, repubblica parlamentare o Bonaparte; significava altresì l'alternativa: Orléans o Borbone. Così cadde in mezzo al Parlamento il pomo della discordia attorno al quale doveva scoppiare apertamente il conflitto di interessi che divideva il partito dell'ordine in frazioni ostili. Il partito dell'ordine era una combinazione di sostanze sociali eterogenee. La questione della revisione creò una temperatura politica con la quale il prodotto si scompose di nuovo nel suoi elementi costitutivi.

L'interesse dei bonapartisti alla revisione era semplice. Per essi si trattava innanzi tutto della soppressione dell'articolo 45, che vietava la rielezione di Bonaparte e la proroga dei suoi poteri. Non meno semplice sembrava la posizione dei repubblicani. Essi respingevano in modo assoluto ogni revisione; vedevano nella revisione una congiura generale contro la repubblica. Poiché disponevano dipiù di un quarto dei voti dell'Assemblea nazionale, e poiché secondo la Costituzione si richiedevano i tre quarti dei voti affinché si potesse legalmente decidere la revisione e convocare un'Assemblea chiamata a realizzarla, non avevano che da contare i loro voti per esser sicuri della vittoria. E della vittoria erano sicuri.

Di fronte a queste posizioni chiare, il partito dell'ordine era in preda a contraddizioni inesplicabili. Se respingeva la revisione metteva in pericolo lo status quo  perché lasciava a Bonaparte una sola via d'uscita, il ricorso alla forza; perché abbandonava la Francia, nel momento della decisione, la seconda [domenica] di maggio del 1852, all'anarchia rivoluzionaria, con un presidente che aveva perduto la sua autorità, con un Parlamento che da tempo non l'aveva più e con un popolo che pensava di riconquistarla. Se votava per la revisione secondo la Costituzione, sapeva che votava invano e che, secondo la Costituzione sarebbe naufragato per il veto dei repubblicani. Se, violando la Costituzione, dichiarava sufficiente la maggioranza dei voti, poteva sperare di dominare la rivoluzione soltanto sottomettendosi senza riserve alla discrezione del potere esecutivo e facendo così di Banaparte il padrone della Costituzione, della revisione e dello stesso partito dell'ordine. Una revisione solamente parziale, che prolungasse i poteri del presidente, spianava il cammino all'usurpazione imperiale. Una revisione generale, che abbreviasse l'esistenza della repubblica, portava inevitabilmente a un conflitto delle aspirazioni dinastiche, perché le condizioni per una restaurazione borbonica e le condizioni per una restaurazione orleanista non soltanto erano diverse, ma si escludevano a vicenda.

La repubblica parlamentare era più che il terreno neutrale su cui le due frazioni della borghesia francese, i legittimisti e gli orleanisti, la grande proprietà fondiaria e l'industria, potevano vivere l'una accanto all'altra a parità di diritti. Era la condizione indispensabile del loro dominio comune, l'unica forma di Stato in cui il loro interesse generale di classe potesse subordinare a sé tanto le pretese delle sue frazioni singole, quanto tutte le altre classi della società. Come monarchici essi ricadevano nel loro vecchio antagonismo, nella lotta per la supremazia della grande proprietà fondiaria o del danaro, e l'espressione più alta di questo antagonismo, la sua personificazione, erano i loro stessi re, le loro dinastie. Di qui la resistenza del partito dell'ordine al richiamo dei Borboni.
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Non soltanto il partito parlamentare si era diviso nelle sue due grandi frazioni, non soltanto ognuna di queste frazioni a sua volta si disgregava, ma il partito dell'ordine nel Parlamento era in contrasto col partito dell'ordine fuori del Parlamento. Gli oratori della borghesia e i suoi esegeti, la sua tribuna e la sua stampa, in una parola, gli ideologi della borghesia e la borghesia stessa, i rappresentanti e i rappresentati erano diventati estranei gli uni agli altri e non si comprendevano più.
[…]
Incomparabilmente più fatale e decisiva era la rottura tra la borghesia commerciale e i suoi uomini politici. Essa non rimproverava loro, come i legittimisti ai loro rappresentanti, di aver abbandonato i principi, ma al contrario, di rimaner attaccati a princìpi divenuti inutili.

Ho già accennato prima che, dal momento dell'ingresso di Fould nel ministero, quella parte della borghesia commerciale che si era attribuita la parte del leone del potere sotto Luigi Filippo,l'aristocrazia finanziaria, era diventata bonapartista. Fould non rappresentava soltanto gli interessi di Bonaparte in Borsa; egli rappresentava anche gli interessi di Borsa presso Bonaparte. La posizione del l'aristocrazia finanziaria è descritta nel modo più evidente dal suo organo europeo, l'Economist di Londra. Nel suo numero del I° febbraio 1851 questo giornale pubblica la seguente corrispondenza da Parigi: "Abbiamo ora potuto rilevare da tutte le parti che la Francia aspira soprattutto alla tranquillità. La cosa è stata dichiarata dal presidente nel suo messaggio all'Assemblea legislativa; la tribuna dell'Assemblea gli ha fatto eco; i giornali lo confermano; i preti lo proclamano dal pulpito; la cosa è provata dalla sensibilità dei titoli di Stato alla minima prospettiva di disordini, dalla loro fermezza ogni volta che il potere esecutivo ha il sopravvento".

Nel suo numero del 29 novembre 1851 l'Economist dichiara, in nome proprio: "In tutte le Borse d'Europa il presidente è riconosciuto come sentinella dell'ordìne". L'aristocrazia finanziaria condannava dunque la lotta parlamentare del partito dell'ordine contro il potere esecutivo come cosa che turbava l'ordine, e celebrava ogni vittoria del presidente sui rappresentanti del sedicente partito dell'ordine come vittoria dell'ordine. Si deve intendere qui per aristocrazia finanziaria non soltanto i grandi appaltatori di prestiti statali e gli speculatori sui valori dello Stato, il cui interesse si comprende agevolmente che coincida con gli interessi del potere dello Stato. Tutti gli affari finanziari moderni, tutta l'economia bancaria è connessa nel modo più intimo col credito pubblico. Una parte del loro capitale commerciale viene necessariamente investito in valori di Stato rapidamente convertibili. I loro depositi, il capitale posto a loro disposizione e da loro ripartito tra commercianti e industriali, proviene in parte dai dividendi dei possessori di rendita dello Stato. Se per il mercato monetario nel suo complesso e per i sacerdoti di questo mercato la stabilità del potere dello Stato in ogni epoca ha fatto le veci di Mosè e dei profeti, come potrebbe essere diversamente oggi in cui ogni diluvio minaccia di travolgere, insieme ai vecchi Stati, anche i vecchi debiti di Stato?

Anche la borghesia industriale, nel suo fanatismo dell'ordine, era irritata dalle risse del partito parlamentare dell'ordine col potere esecutivo. Thiers, Anglès, Sainte-Beuve, ecc., dopo il loro voto del 18 gennaio in occasione della destituzione di Changarnier, ricevettero rimostranze pubbliche proprio dai loro elettori dei distretti industriali nelle quali specialmente la loro coalizione con la Montagna veniva bollata come alto tradimento della causa dell'ordine. Se è vero, come abbiamo visto, che le canzonature spavalde e gli intrighi meschini in cui si era manifestata la lotta del partito dell'ordine contro il presidente non meritavano accoglienza migliore, è vero d'altra parte che questo partito borghese, il quale esigeva che i suoi rappresentanti lasciassero passare senza resistenza il potere militare dalle mani del loro proprio Parlamento in quelle di un pretendente d'avventura, non era nemmeno degno degli intrighi che si ordivano nel suo interesse. Esso faceva capire che la lotta per la difesa dei suoi interessi pubblici, dei suoi interessi di classe, del suo potere politico, in quanto disturbava i suoi affari privati lo molestava e gli dava fastidio.

I notabili borghesi delle città di provincia, i magistrati, i giudici di commercio ecc. ricevevano Bonaparte dappertutto, quasi senza eccezione, nei suoi viaggi circolari, nel modo più servile, anche se, come a Digione, egli attaccava senza alcun riguardo l'Assemblea nazionale e in special modo il partito dell'ordine.

Quando gli affari, andavano bene, come al principio del 1851, la borghesia commerciale si scagliava contro ogni lotta parlamentare che potesse nuocere al commercio. Quando il commercio andò male, come avvenne continuamente a partire dalla fine del febbraio 1851, essa accusò le lotte parlamentari di essere la causa del ristagno, e reclamò ad alta voce che si facessero tacere, affinché il commercio potesse riprendere voce. I dibattiti sulla revisione caddero appunto in questo momento sfavorevole, e poiché si trattava della vita o della morte della forma statale esistente, tanto più la borghesia si sentì in diritto di esigere dai suoi rappresentanti che mettessero fine a quella tormentosa provvisorietà; in diritto di reclamare in pari tempo il mantenimento dello status quo. Né c'era in ciò contraddizione alcuna. Metter fine allo stato di cose provvisorio significava per essa precisamente prolungarne l'esistenza, rinviare a un futuro lontano il momento in cui sarebbe stato necessario prendere una decisione. Lo status quo poteva essere mantenuto soltanto in due modi: o con la proroga dei poteri di Bonaparte, o col suo ritiro, conforme alla Costituzione, e con la elezione di Cavaignac. Una parte della borghesia desiderava quest'ultima soluzione, ma non sapeva dare ai suoi rappresentanti nessun miglior consiglio che di tacere e di lasciare impregiudicata questa ardente questione. Se i suoi rappresentanti non avessero parlato, pensava, Bonaparte non avrebbe agito. E desiderava un Parlamento struzzo, che nascondesse la testa per non farsi vedere. Un'altra parte della borghesia, poiché Bonaparte già occupava il seggio presidenziale, desiderava che continuasse ad occuparlo, affinché ogni cosa rimanesse immutata. Essa s'irritava perché il suo Parlamento non violava apertamente la Costituzione e non abdicava puramente e semplicemente.
[…]
Ancora più esplicita della rottura coi suoi rappresentanti parlamentari fu la manifestazione della collera della borghesia contro i suoi rappresentanti letterari, contro la propria stampa. Le condanne a multe esorbitanti e a spudorate pene detentive pronunciate dalle giurie borghesi per ogni attacco dei giornalisti borghesi alle velleità di usurpazione di Bonaparte, per ogni tentativo della stampa di difendere contro il potere esecutivo i diritti politici della borghesia, riempirono di stupore non solo la Francia, ma tutta l'Europa.

Se, come ho mostrato sopra, il partito parlamentare dell'ordine, a forza di gridare che occorreva la tranquillità, si era condannato da sé all'inazione; se esso aveva dichiarato il dominio politico della borghesia incompatibile con la sicurezza e con l'esistenza della borghesia stessa, distruggendo con le sue proprie mani, nella lotta contro le altre classi della società, tutte le condizioni del proprio regime, del regime parlamentare, la massa extraparlamentare della borghesia, invece, con le sue servilità verso il presidente, coi suoi oltraggi al Parlamento, col modo brutale nel quale trattava la sua stessa stampa, provocava Bonaparte a reprimere e a sterminare i suoi oratori e i suoi scrittori, i suoi uomini politici e i suoi letterati, la sua tribuna parlamentare e la sua stampa, al fine di poter attendere ai propri affari privati sotto la protezione di un governo forte e dotato di poteri illimitati. Essa dichiarava nettamente che non vedeva l'ora di sbarazzarsi del proprio dominio politico per sbarazzarsi delle fatiche e dei pericoli del potere.

E questa borghesia che si indigna persino della lotta puramente parlamentare e letteraria in difesa del potere della propria classe e ha tradito i capi di questa lotta, ora, quando, tutto è terminato, osa accusare il proletariato di non essersi gettato per essa in una lotta sanguinosa, in una lotta a morte. Questa borghesia che in ogni momento ha sacrificato il suo interesse generale di classe, cioè il suo interesse politico, al più gretto e sordido interesse privato, e ha preteso dai suoi rappresentanti lo stesso sacrificio, ora si lamenta, dicendo che il proletariato ha sacrificato ai propri interessi materiali i suoi ideali politici. Essa si comporta come un'anima generosa che il proletariato, traviato dai socialisti, avrebbe misconosciuto e abbandonato nel momento decisivo. Ed essa trova un'eco generale nel mondo borghese. Non parlo qui naturalmente dei politicanti tedeschi da caffè e dei poveri di spirito. Mi riferisco, per esempio, allo stesso Economist, che ancora il 29 novembre 1851, cioè 4 giorni prima del colpo di stato, aveva dichiarato Bonaparte "sentinella dell'ordine" e Thiers e Berryer "anarchici", e già il 27 dicembre 1851, dopo che Bonaparte ha messo a posto quegli anarchici, denuncia il tradimento che sarebbe stato compiuto da "masse proletarie ignoranti, incolte, stupide, ai danni del talento, del sapere, della disciplina, dell'influenza, dell'ingegno, delle risorse intellettuali e delle qualità morali degli strati medi ed elevati della società". La massa stupida, ignorante e volgare non era altro che la massa stessa della borghesia.

È vero che la Francia ha attraversato nel 1851 una specie di piccola crisi commerciale. Alla fine di febbraio si manifestò una diminuzione delle esportazioni rispetto al 1850; in marzo il commercio diminuì e le fabbriche si chiusero; in aprile la situazione dei dipartimenti industriali sembrava essere disperata quanto dopo le giornate di febbraio; in maggio gli affari non avevano ancora ripreso; ancora il 28 giugno il portafoglio della Banca di Francia indicava, con un enorme aumento dei depositi e con una diminuzione altrettanto grande degli anticipi su cambiali, la stasi della produzione; e solo alla metà di ottobre vi era stata una nuova ripresa progressiva degli affari. La borghesia francese si spiegò questo ristagno degli affari con motivi d'ordine puramente politico, con la lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, con l'incertezza di una forma di Stato puramente provvisoria, con la prospettiva paurosa della seconda [domenica] di maggio del 1852. Non voglio negare che tutte queste circostanze esercitassero una influenza deprimente su alcune branche dell'industria a Parigi e nei dipartimenti. Ad ogni modo, però, questa influenza delle circostanze politiche era soltanto locale e insignificante. Si può darne prova migliore del fatto che il miglioramento del commercio si produsse proprio nel momento in cui la situazione politica peggiorava, l'orizzonte politico si oscurava e si attendeva ad ogni istante un colpo di folgore dell'Eliseo, cioè verso la metà di Ottobre. Il borghese francese, il cui "talento, il cui sapere, la cui chiaroveggenza e le cui risorse intellettuali" non vanno più in là del suo naso, poteva d'altra parte, per tutta la durata dell'Esposizione industriale di Londra, sbattere il naso nella causa della sua miseria commerciale. Mentre in Francia si chiudevano le fabbriche, in Inghilterra scoppiavano bancarotte commerciali. Mentre in aprile e maggio in Francia toccava il colmo il panico industriale, in aprile e maggio, in Inghilterra, toccava il colmo il panico commerciale. L'industria inglese della lana soffriva come quella francese; come quella francese soffriva la manifattura inglese della seta. Le fabbriche inglesi di cotone continuavano a lavorare, ma non facevano più gli stessi profitti che nel 1849 e nel 1850. La differenza stava soltanto nel fatto che la crisi era industriale in Francia, commerciale in Inghilterra; che mentre in Francia le fabbriche si fermavano, in Inghilterra si sviluppavano, ma in condizioni più sfavorevoli che negli anni precedenti; che in Francia i colpi principali erano subìti dall'esportazione, in Inghilterra dall'importazione. La causa comune, che naturalmente non deve essere ricercata entro i limiti dell'orizzonte politico francese, era evidente. Il 1849 e il 1850 erano stati gli anni di grandissima prosperità materiale  e di una sovrapproduzione che si manifestò come tale soltanto nel 1851. Questa venne ancora aggravata, in particolar modo all'inizio di quest'anno, dalla prospettiva dell'Esposizione industriale. A ciò si aggiunsero inoltre circostanze speciali: prima il cattivo raccolto di cotone nel 1850 e nel 1851, poi la sicurezza di un raccolto di cotone più abbondante di quello che ci si aspettava; prima il rialzo, poi il ribasso brusco, in una parola, le oscillazioni dei prezzi del cotone. Il raccolto della seta greggia era caduto, almeno in Francia, al di sotto della media. Le manifatture di lana, infine, si erano talmente estese a partire dal 1848 che la produzione della lana non poteva tener loro dietro e il prezzo della lana greggia aumentava in modo sproporzionato all'aumento del prezzo dei manufatti di lana. Abbiamo, quindi già qui, nelle materie prime di tre industrie interessanti il mercato mondiale, tre serie di cause di un ristagno del commercio. Astrazion fatta da queste circostanze speciali, la crisi apparente del 1851 non fu altro che il momento di arresto che la sovrapproduzione e la sovraspeculazione subiscono sempre nel corso del ciclo industriale, prima di raccogliere tutte le forze per attraversare febbrilmente l'ultima parte della curva e giungere ancora una volta al suo punto di approdo, alla crisi commerciale generale. Durante simili intervalli della storia del commercio, in Inghilterra scoppiano bancarotte commerciali, mentre in Francia è l'industria stessa che si ferma, in parte perché costretta a ritirarsi da tutti i mercati dalla concorrenza degli inglesi che proprio allora diventa insopportabile, in parte perché colpita in particolar modo dal ristagno del commercio in quanto industria di lusso. In questo modo la Francia, oltre alle crisi generali, attraversa le proprie crisi commerciali nazionali, le quali però sono determinate e condizionate più dallo stato generale del mercato mondiale che da influenze locali francesi. Non sarà senza interesse contrapporre al pregiudizio del borghese francese il giudizio del borghese inglese. Una delle più grandi case di Liverpool scrive nel suo bilancio annuale del 1851: "Pochi anni hanno ingannato nelle previsioni fatte al loro inizio più dell'anno testé trascorso. Invece della più grande prosperità che unanimemente ci si attendeva, esso è stato uno degli anni più scoraggianti dell'ultimo quarto di secolo. Naturalmente questo vale per le classi commerciali, non per le classi industriali. Eppure al principio dell'anno vi erano senza dubbio dei motivi per attendersi il contrario. Le riserve di prodotti erano scarse, il capitale era sovrabbondante, i viveri a buon mercato; si era sicuri di un raccolto ricco. Pace ininterrotta sul continente e nessun disturbo politico o finanziario all'interno del paese. In realtà, mai le ali del commercio erano state più libere... A che cosa si deve attribuire questo risultato sfavorevole? Crediamo che lo si debba attribuire all'eccesso del commercio, sia d'importazione che d'esportazione. Se i nostri negozianti non pongono essi stessi limiti più ristretti alla loro attività, nulla potrà mantenerci nella via normale, se non un panico ogni tre anni".
Ci si immagini ora come il borghese francese, in mezzo a questo panico commerciale, doveva avere il cervello, malato come il suo commercio, torturato, confuso, stordito dalle voci di colpi di stato e di restaurazione del suffragio universale, dalla lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, dalla guerra di fronda tra i legittimisti e gli orleanisti, dalle cospirazioni comuniste nel sud della Francia, dalle pretesejacqueries  nei dipartimenti della Nièvre e dello Cher, dalla pubblicità dei diversi candidati alla presidenza, dalle parole d'ordine ciarlatanesche dei giornali, dalle minacce dei repubblicani di voler difendere la Costituzione e il suffragio universale con le armi alla mano, dal vangelo degli eroi emigratiin partibus che annunciavano la fine del mondo per la seconda [domenica] di maggio del 1852, e si comprenderà come, in mezzo a questa indicibile e assordante confusione di fusione, revisione, proroga, costituzione, cospirazione, coalizione, emigrazione, usurpazione e rivoluzione, il borghese furibondo gridasse in faccia alla repubblica parlamentare: "Meglio una fine con spavento, che uno spavento senza fine                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              da Karl Marx , Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852)                                                                                                                                     (da una nota di FB di Maurizio Bosco)

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