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martedì 18 febbraio 2025

CISGIORDANIA. L’annessione a Israele comincia dai siti archeologici - Michele Giorgio

Da: https://pagineesteri.it - Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano ilmanifesto.it. -  Michele Giorgio giornalista de Il Manifesto, direttore della rivista Pagine Esteri. Autore di tre libri sul Medio Oriente: Nel Baratro, Cinquant'anni dopo, Israele mito e realtà. -

Leggi anche: «10 miti su Israele» di Ilan Pappé - Michele Giorgio 

“Jenin come Jabaliya”. Gli abitanti temono di finire come i palestinesi di Gaza - Michele Giorgio 


Nella foto di Michele Giorgio, il sito di Sebastia in Cisgiordania. 


L’annessione della Cisgiordania a Israele è cominciata. E il punto di partenza sono i siti archeologici palestinesi. È stato evidente ieri al Dan Hotel di Gerusalemme dove, nell’ambito della conferenza «Archeology and Site Conservation of Judea e Samaria», archeologi, docenti universitari, studiosi israeliani e stranieri e funzionari dell’Autorità israeliana per le antichità, si sono affannati, e lo stesso faranno oggi, a spiegare e raccontare millenni di patrimonio storico e archeologico di questa terra. Con un tratto comune: gli interventi e le immagini mostrate sullo schermo nella sala della conferenza hanno dato per scontata la piena «sovranità» dello Stato ebraico su tutti i siti della Cisgiordania che i partecipanti hanno chiamato «Giudea e Samaria», i nomi biblici abitualmente usati dalla destra israeliana per indicare questa porzione di Territori palestinesi occupati.

lunedì 31 marzo 2025

Come svuotare Gaza: i piani di Tel Aviv per la deportazione (per ora) a bassa intensità - Michele Giorgio

Da: https://pagineesteri.it - Michele Giorgio giornalista de Il Manifesto (Michele Giorgio), direttore della rivista Pagine Esteri (michelegiorgio). Autore di tre libri sul Medio Oriente: Nel Baratro, Cinquant'anni dopo, Israele mito e realtà. - 

Circa mille abitanti di Gaza hanno lasciato la Striscia dall’inizio di marzo. Altri 600 stanno partendo, secondo la tv pubblica israeliana Kan. Numeri esigui, che riguardano perlopiù malati e feriti, ma che fanno esultare i ministri della Difesa e delle Finanze, Israel Katz e Bezalel Smotrich, tra i principali fautori di un piano di deportazione silenziosa, definita eufemisticamente «volontaria». Convinti che il flusso in uscita aumenterà, hanno annunciato l’apertura di un dipartimento ad hoc nel ministero della Difesa, dando seguito alla proposta di Donald Trump di espellere i palestinesi e trasformare Gaza nella «Riviera»  del Medio oriente.

Secondo Kan, il giorno prima della partenza gli abitanti di Gaza vengono condotti al transito di Kerem Shalom. Dopo l’ispezione, proseguono verso Rafah, il ponte di Allenby o l’aeroporto di Ramon. A tutti verrebbe detto che «non è certo» che potranno tornare a Gaza. Katz afferma che l’Ufficio per la «emigrazione volontaria» e opererà nel «rispetto del diritto internazionale». Smotrich invece scalpita e spinge per favorire la partenza forzata di 10.000 palestinesi al giorno, un obiettivo irrealistico: la maggior parte degli abitanti di Gaza non intende lasciare la propria terra e nessun paese si è detto disponibile ad accogliere i profughi.

sabato 25 gennaio 2025

“Jenin come Jabaliya”. Gli abitanti temono di finire come i palestinesi di Gaza - Michele Giorgio

Da: https://pagineesteri.it - Giorgio Michele giornalista de Il Manifesto, direttore della rivista Pagine Esteri. Autore di tre libri sul Medio Oriente: Nel Baratro, Cinquant'anni dopo, Israele mito e realtà. - 

Leggi anche: «10 miti su Israele» di Ilan Pappé - Michele Giorgio 


Pagine Esteri, 24 gennaio 2025  

Sono già centinaia i residenti del campo profughi di Jenin e delle aree adiacenti che hanno abbandonato le loro case spinti dalle intimazioni provenienti da droni israeliani dotati di altoparlanti. Nel frattempo l’esercito israeliano ha demolito diverse abitazioni dopo aver rioccupato la città tra lunedì notte e martedì con colonne di veicoli blindati e la copertura di elicotteri e droni.

Il pericolo immediato avvertito dagli abitanti è la possibile distruzione da parte dell’esercito del campo profughi considerato da Israele una roccaforte della resistenza armata e il rifugio per decine di combattenti di varie organizzazioni palestinesi, a cominciare dalla Brigata Jenin (Jihad). Si teme che la città diventi la “Jabaliya della Cisgiordania”, in riferimento alla città-campo profughi rasa al suolo da Israele durante quindici mesi di offensiva a Gaza.

Le ruspe blindate hanno già scavato le strade, rendendo difficile la circolazione in città, mentre centinaia di persone hanno abbandonato le loro case trascinando valigie o trasportando sacchetti di plastica con i loro effetti personali dopo aver affermato di aver ricevuto ordini di evacuazione. “Non volevamo andarcene”, ha raccontato Hussam Saadi, 16 anni all’agenzia Reuters. “Poi hanno mandato un drone nel nostro quartiere, dicendoci di lasciare il campo perché lo avrebbero fatto saltare in aria”. Israele nega di aver ordinato ai residenti di lasciare le proprie abitazioni, ma testimoni riferiscono che i droni hanno lanciato piccole bombe di avvertimento verso le case dove le famiglie avevano rifiutato di essere evacuate. Quindi i soldati le hanno costrette ad uscire, poi hanno bruciato alcune abitazioni.

venerdì 28 maggio 2021

Silenzio su Gaza e su noi stessi - Alberto Negri

Da: https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)

Leggi anche: Cade la maschera di Israele e anche la nostra - Alberto Negri 

I morti palestinesi, la censura di Facebook e l'ipocrisia di tutti - Alberto Negri


Informazione italiana. L’atteggiamento nostrano è questo: “Se ne riparlerà alla prossima eruzione”, come se Gaza e la Palestina fossero un fenomeno naturale, come Stromboli. Eppure anche lì il vulcano non dorme mai. E tutti hanno paura di morire, gli stessi che pubblicano i miei articoli.


Se non fosse per Michele Giorgio, inviato del manifesto a Gaza, sui media italiani sarebbe calato il silenzio più totale. L’atteggiamento nostrano è questo: “Se ne riparlerà alla prossima eruzione”, come se Gaza e la Palestina fossero un fenomeno naturale, come Stromboli. Eppure anche lì il vulcano non dorme mai. Ma le bombe e le loro vittime non sono fenomeni naturali: sono crimini di guerra. Ce lo dice Michelle Bachelet, alto commissario Onu per i diritti umani, secondo la quale i raid israeliani su Gaza possono costituire dei crimini di guerra e che pure Hamas ha violato le leggi umanitarie internazionali lanciando razzi su Israele.
Se c’è un inferno sulla terra è quello che ha investito le vite dei bambini palestinesi a Gaza, dice la signora Bachelet: i morti _ma il bilancio è ancora assai provvisorio _ sono stati 270 tra la Striscia, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, di questi 68 sono bambini. Nonostante le dichiarazioni israeliane, non c’è nessuna prova che gli edifici sgretolati dai missili e delle bombe dello stato ebraico ospitassero gruppi armati o fossero usati per scopi militari. In poche parole, secondo l’Onu, il governo israeliano del premier Netanyahu ha giustificato con delle menzogne la morte di centinaia di civili che nulla avevano a che fare con il conflitto. Per questo al consiglio Onu dei diritti umani è partita una richiesta, appoggiata dagli stati musulmani, di insediare una commissione d’inchiesta per investigare su possibili crimini di guerra e stabilire le responsabilità.
Una cosa è certa: le bombe “intelligenti” israeliane non esistono, e tanto meno a Gaza. Ci sono certamente negli arsenali e si possono usare con estrema precisione ma non è questo il caso: missili e ordigni sono stati puntati e scaricati consapevolmente sui civili perché questa è la guerra che combatte oggi lo stato ebraico, un conflitto dai contorni terroristici, speculare a quello di Hamas. L’obiettivo è soltanto in parte colpire i bersagli pregiati, come i capi di Hamas o del Jihad, oppure i famosi tunnel. In realtà, come hanno ammesso le stesse fonti delle forze israeliane (Idf) riportate da Haaretz nei giorni scorsi, a un certo punto “i bersagli militari erano finiti”.
Questo significa che non restavano che i civili da colpire, indiscriminatamente. Ed è esattamente quello che ci racconta Michele Giorgio nei suoi reportage: altro che tunnel, sono stati rasi al suolo palazzi dove si stanno ancora tirando fuori le vittime dalle macerie e sono state colpite persino le librerie.
Lo scopo della guerra oggi non è neutralizzare degli eserciti, questo accade solo in parte: il vero obiettivo è terrorizzare la popolazione, spingerla a fuggire, a vivere in condizioni disumane. Una sorta di pulizia etnica dall’alto che a volte, come è accaduto anche a Gaza, non prevede un’operazione di terra, che viene evocata soltanto per intorbidare le acque della propaganda. La strategia di questi governi israeliani di destra non è soltanto quella di essere contrari alla formula “due popoli, due stati”. Va ben oltre. Non si nega soltanto uno stato agli arabi ma anche la loro stessa esistenza come popolo.
Israele di oggi è interessato soltanto ad avere tra gli arabi dei sudditi o cittadini di seconda classe: la prova lampante è che nel 2018 la Knesset ha approvato una legge che proclama Israele “stato nazionale del popolo ebraico”. Non una sola parola fa riferimento agli arabi israeliani. Semplicemente non esistono e questa situazione ora, nelle città miste, è diventata esplosiva.
La maschera di Israele, citato come unico stato democratico della regione, non regge più: si tratta di un’entità segregazionista che pretende di prendersi dai palestinesi tutte ciò che vuole, in violazione di ogni legge internazionale, da Gerusalemme Est a pezzi della Cisgiordania dove insediare i coloni, confiscando case e terreni. E se non ti va Israele entra a casa tua e ti spara una bomba, intelligente naturalmente.
Israele è uno stato fuori legge ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Tanto meno l’amministrazione Biden. Nella sua visita a Gerusalemme il segretario di stato Antony Blinken non ha messo in discussione nulla con Netanyahu, dagli aiuti militari, al “diritto di Israele a difendersi” e tanto meno l’annessione di Gerusalemme e del Golan regalata da Trump. L’unica differenza tra Tel Aviv e Washington sta nel negoziato con l’Iran. Nel 2003 Bush junior, attaccando l’Iraq, disse che l’avrebbe riportato al Medioevo. Israele fa il suo Medioevo radendo al suolo Gaza e attuando leggi feudali. Il resto sono chiacchiere oppure uno studiato silenzio per addormentare le coscienze.

domenica 19 gennaio 2025

GAZA. È cominciata la tregua, prima i raid aerei hanno ucciso altri 14 palestinesi -

Da:  https://www.facebook.com/michele.giorgio.5 -  https://pagineesteri.it 


GAZA. AGGIORNAMENTO Ore 17.15
La Croce Rossa conferma di aver ricevuto da Hamas tre ostaggi (tre donne). Saranno consegnati all'esercito israeliano. 90 prigionieri politici palestinesi (tra cui 69 donne) sono stati portati nel carcere di Ofer (Cisgiordania) in attesa della scarcerazione. 
(Michele Giorgio)


Con un ritardo di circa due ore rispetto all’orario previsto (7.30 italiane) è entrato in vigore a Gaza il cessate il fuoco tra Israele e Hamas concordato a Doha nei giorni scorsi.  Nelle prossime ore saranno liberati tre ostaggi israeliani e successivamente 90 prigionieri politici palestinesi.

In questo momento i palestinesi di Gaza, colpiti duramente da 15 mesi di pesanti bombardamenti israeliani, sono in strada a festeggiare la fine dei raid. Ma Gaza è stata quasi interamente distrutta e ha pagato l’offensiva israeliana, scattata dopo l’attacco di Hamas nel 7 ottobre 2023. Dall’inizio dell’offensiva israeliana fino alla tregua 46.913 palestinesi sono stati uccisi e 110.750 feriti. Migliaia sono dispersi. Lo riferisce il ministero della Salute di Gaza.

Questa mattina Israele, in reazione alla mancata consegna nei tempi previsti dei nomi degli ostaggi che verranno liberati, ha continuato i bombardamenti aerei uccidendo altre 14 persone.

Hamas da parte sua fa sapere di essere in attesa di una lista di detenuti palestinesi che saranno rilasciati oggi da Israele. “L’occupazione deve consegnarci i nomi di 90 prigionieri appartenenti alle categorie donne e minori che devono essere rilasciati il ​​primo giorno del cessate il fuoco”, afferma il movimento islamico aggiungendo che l’accordo prevede il rilascio di 30 prigionieri palestinesi in cambio di un ostaggio civile. Sono tre donne Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher che verranno liberate nelle prossime ore.

La felicità della gente di Gaza è incontenibile. Migliaia di sfollati stanno tornano alle loro case. Viaggiano su camion, auto e carretti o vanno a piedi tra le macerie  in particolare nella parte settentrionale della Striscia. “Le nostre case sono state spazzate via, monteremo una tenda qui e resteremo nel nostro quartiere, così potremo sentire che siamo tornati nella nostra casa”, ha detto Saleem Nabhan intervistato dalla Bbc.

L’Unrwa (Onu) riferisce che 4mila camion carichi di aiuti umanitari sono pronti a entrare a Gaza, la metà trasporta cibo e farina. Alemno 100 sono già entrati.

Intanto il ministro di ultradestra Bezalel Smotrich esorta Israele ad “occupare Gaza e creare un governo militare temporaneo perché non c’è altro modo per sconfiggere Hamas”. “Rovescerò l’esecutivo se non tornerà a combattere per prendere l’intera Striscia e a governarla”, ha minacciato. L’altro ministro ultrazionalista Itamar Ben Gvir ha annunciato la sua uscita dal governo in reazione all’avvio del cessate il fuoco. 

giovedì 28 novembre 2024

«10 miti su Israele» di Ilan Pappé - Michele Giorgio

Da: https://pagineesteri.it - 

Giorgio Michele giornalista de Il Manifesto, direttore della rivista Pagine Esteri. Autore di tre libri sul Medio Oriente: Nel Baratro, Cinquant'anni dopo, Israele mito e realtà. -

Ilan Pappé è docente presso l’Università di Exeter ed è stato senior lecturer di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È l’autore de “La Pulizia etnica della Palestina” e “Dieci Miti su Israele”. Pappé è definito come uno dei “nuovi storici” che, dopo la pubblicazione di documenti britannici e israeliani a partire dai primi anni ‘80, hanno riscritto la storia della fondazione di Israele nel 1948. 

Vedi anche: Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina - ILAN PAPPÉ 

Pagine Esteri, 26 maggio 2022 – «10 miti su Israele» di Ilan Pappé del 2017, da poco pubblicato in italiano dalla Tamu Edizioni, traduzione di Federica Stagni e con una postfazione di Chiara Cruciati, non è solo un ulteriore tassello del mosaico che lo storico israeliano in decenni di studi e ricerche ha composto sulla genesi dello Stato ebraico e delle sue politiche nei confronti dei palestinesi. Il testo approfondisce lo studio di miti, suggestioni e visioni che avvolgono lo Stato di Israele, prendendo in esame anni più vicini a noi, al periodo della «pace di Oslo», alla condizione attuale dei palestinesi sotto occupazione e di quelli con cittadinanza israeliana e allo sviluppo della colonizzazione. «10 miti su Israele» arricchisce la già vasta produzione storica di Pappé e allarga il solco tracciato in «The Birth of Israel. Myths and Realities» da Simha Flapan, uno dei primi «nuovi storici» israeliani. Offre elementi attuali per l’analisi dei rapporti tra israeliani e palestinesi.

«La leadership politica e strategica israeliana considera la memoria collettiva palestinese e la storiografia come strumenti pericolosissimi che possono rappresentare un’arma di erosione dell’immagine pubblica di Israele a livello internazionale, già peggiorata nel tempo», scrive Pappé nella prefazione all’edizione italiana del libro, affrontando uno degli sviluppi più significativi negli anni trascorsi dalla prima edizione del volume. La narrazione palestinese del conflitto, sottolinea, ha rivelato le sue potenzialità. Lo scorso anno, ad esempio, durante le proteste contro l’annunciata espulsione di 28 famiglie dal quartiere di Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est), i palestinesi furono in grado di riportare in superfice una pagina di storia rimasta sepolta come la confisca da parte dello Stato di Israele di terre e case palestinesi avvenuta dopo il 1948 e l’impossibilità per i proprietari di riaverle. Ai cittadini ebrei al contrario è permesso rivendicare beni ebraici precedenti anche alla nascita di Israele. Una pagina di storia che, grazie ai social, ha raggiunto e interessato la società civile a livello globale. Da qui la necessità, spiega lo storico, per i governi israeliani di offuscare la versione palestinese della storia che mette in discussione quella israeliana accettata in modo acritico dall’opinione pubblica occidentale.

Pappé spiega quanto siano stati decisivi per le politiche della destra israeliana più radicale, i quattro anni alla Casa Bianca di Donald Trump, il presidente Usa che, contro il diritto internazionale, nel 2017 ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e, in seguito, anche l’annessione allo Stato ebraico del Golan siriano occupato nel 1967. Trump ha anche messo a punto un «piano di pace» volto a trasformare i palestinesi da detentori di diritti nazionali in semplici fruitori di aiuti economici. Certo, tutte le Amministrazioni Usa, inclusa quella Biden, appoggiano lo Stato di Israele, principale alleato di Washington in Medio Oriente. Ma Trump e il suo entourage hanno svolto un ruolo concreto per la normalizzazione dell’occupazione israeliana dei Territori, lo dimostrano gli Accordi di Abramo del 2020 tra lo Stato ebraico e quattro paesi arabi. La colonizzazione israeliana della Cisgiordania e della zona araba di Gerusalemme ha ricevuto un impulso senza precedenti durante la presidenza Trump. L’ex Amministrazione Usa ha anche favorito l’approvazione nel 2018, da parte della Knesset, di una Legge Fondamentale, voluta dall’ex premier Netanyahu e la sua coalizione di destra che proclama Israele, nero su bianco, uno Stato che appartiene al popolo ebraico e non a tutti i suoi cittadini.

Ilan Pappé in «10 miti su Israele» affronta pregiudizi e distorsioni che pervadono i resoconti tradizionali dei media. Analizza miti vecchi e soprattutto quelli nuovi che giustificano agli occhi del mondo la negazione dei diritti dei palestinesi. Israele, afferma Pappé, non ha mai cercato una soluzione giusta al conflitto. Piuttosto, spiega, ha lavorato a un semplice ridispiegamento militare in Cisgiordania e su Gaza. Lo Stato ebraico, aggiunge, è una potenza economica e militare, eppure si rappresenta come «David che combatte un Golia arabo». Ai lettori di orientamento progressista, ancora affascinati dall’immagine lontana del Kibbutz, Pappé dimostra che il socialismo come prassi e stile di vita in Israele è sempre stato condizionato al raggiungimento degli scopi fondamentali del movimento sionista: il controllo della terra e l’espulsione della popolazione palestinese. 

mercoledì 12 maggio 2021

I morti palestinesi, la censura di Facebook e l'ipocrisia di tutti - Alberto Negri

Da: https://www.lantidiplomatico.it - Articolo apparso su "Il Manifesto", 11 maggio 2021

Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)


Immagini forti e violente: la censura di Facebook è l'ipocrisia di tutti


Posto un video in cui si vedono i morti in Palestina e Facebook censura il video. Per 40 anni ho fatto l'inviato di guerra cercando come tanti altri giornalisti di raccontare la violenza della guerra, in ogni parte del mondo. Le immagini forti infastidiscono, lo posso capire. Ma l'ipocrisia della censura credo che sia vera pornografia. 

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Sì, la storia siamo noi. Come questa nuova Intifada. Ci eravamo dimenticati dei palestinesi? Eccoli, con le braccia al cielo davanti alla polizia. Il nostro corrispondente Michele Giorgio riferisce di 20 morti. Tra cui 9 bambini, nei raid israeliani seguiti al lancio di razzi verso Gerusalemme. Non abbiamo paura di morire, dicono, perché siamo morti e risorti mille volte. Il messaggio è duro, tragico vista la disparità delle forze, ma inequivocabile: non ci arrendiamo. Viene dai tempi dei tempi che vi piaccia o no, noi non alziamo le braccia verso questo mondo iniquo e ingiusto. Siamo masse e individui che non si arrendono…

Gli scontri nel «miglio sacro» di Gerusalemme, dove già iniziarono negli anni Ottanta e Duemila la prima e la seconda Intifada, rilanciano una terza rivolta innescata dagli sfratti nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah.

Ci sono le coincidenze e anche alcuni elementi di fondo per andare in questa direzione. Nelle prime rientrano le proteste cominciate mentre gli israeliani celebravano l’annessione di Gerusalemme nel 1967 e gli arabi si preparavano alla fine del Ramadan. Ma anche il quadro politico è agitato, da una parte e dell’altra. In Israele è in corso il tentativo di Lapid di formare un nuovo governo che significherebbe la fine dell’attuale premier Netanyahu, un evento che scuote la destra israeliana e anche il movimento dei coloni, più agguerrito che mai. Nel campo arabo c’è stata la decisione di del presidente dell’Anp Abu Mazen di rinviare le elezioni palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme, esacerbando così gli animi dei palestinesi, inferociti con una leadership accusata di essere sempre più succube di Israele.

Davanti all’esplosione degli scontri sulla spianata delle Moschee, vicino al Muro del Pianto e non lontano dal Santo Sepolcro – luoghi sacri a musulmani, ebrei e cristiani – le autorità israeliane hanno preferito rinviare ogni decisione sugli sfratti. La Corte Suprema israeliana ieri avrebbe dovuto emettere il suo verdetto in merito a un tentativo di espulsione di tredici famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, ma la decisione è stata rinviata a causa delle violenze degli ultimi giorni.

Questa non è l’unica causa delle tensioni ma ne è il detonatore. Gli argomenti di scontro sono tanti. In pieno Ramadan c’è prima di tutto l’accesso alla moschea Al Aqsa e alla Cupola della roccia, luoghi sacri dell’islam dove il 7 maggio ci sono stati violenti incidenti. Poi c’è la pressione costante delle autorità israeliane per separare il problema di Gerusalemme dal resto della questione palestinese.

In Israele operano forze politiche di estrema destra legate a Netanyahu e decise a espellere i palestinesi da Gerusalemme. Il mese scorso abbiamo assistito a una serie di cacce all’uomo condotte da estremisti religiosi israeliani al grido di “morte agli arabi” nella più totale impunità.

Questi incidenti mettono in luce che lo status quo è fragile mentre sbaglia chi ritiene ineluttabile la perdita di «centralità» della questione palestinese nei rapporti tra Israele e il mondo arabo. E forse si sbaglia ancora di più se pensa che il problema svanirà da sé. In più adesso c’è il fattore Biden. Il nuovo presidente non ha messo in discussione la decisione di Trump di riconoscere nel 2018 Gerusalemme capitale di Israele e di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv, ma l’amministrazione democratica ha qualche idea diversa sul Medio Oriente rispetto a quella repubblicana.

C’è voluto un po’ di tempo prima che le cancellerie internazionali si accorgessero che a Gerusalemme stava accadendo qualcosa. Una realtà che, agli occhi esterni, appare congelata, è invece in involuzione ed evoluzione.

Invece no: Gerusalemme è il cuore del conflitto internazionale, non solo mediorientale. Quella che sembrava una confisca come un’altra – le case palestinesi di Sheikh Jarrah a favore del movimento dei coloni – è diventata adesso un fattore assai preoccupante. L’espansione della protesta palestinese al cuore della città santa e ad altre città, sta svegliando dal torpore i governi arabi. A interessare di più però non è soltanto la reazione giordana, iraniana o tunisina ma quella che arriva dagli Usa. Mentre l’I’talia e l’Ue o tacciono o raccontano il mantra bugiardo del «no alla violenza da una parte e dall’altra», dimenticando che lì c’è una occupazione militare, quella d’Israele sui Territori palestinesi.

Biden finora non ha preso una posizione precisa e non ha messo in discussione nessuna delle decisioni incendiarie del predecessore Trump (da Gerusalemme capitale israeliana alla sovranità sul Golan siriano occupato) ma ha cominciato ad agitare il premier Netanyahu iniziando il dialogo con l’Iran per il rientro degli Usa nell’accordo sul nucleare.

Ma sugli scontri di Gerusalemme si è fatto sentire il Dipartimento di Stato che ha usato parole, come sottolinea Chiara Cruciati sul manifesto, che di solito l’amministrazione americana non utilizza. Nessun comunicato ufficiale ma la portavoce del segretario di Stato Blinken ha espresso «grande preoccupazione» per le azioni israeliane e per «l’eventuale sgombero di famiglie palestinesi dai quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, molte delle quali vivono in quelle case da generazioni». Mentre una lettera di deputati indirizzata a Blinken ha chiesto di esercitare pressione diplomatiche per impedire gli sgomberi e ribadire quello che il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu già prevedono: «Gerusalemme est è parte della Cisgiordania ed è sotto occupazione militare israeliana», realtà che rende «illegale la sua annessione da parte di Tel Aviv». Un linguaggio esplicito e diretto come forse non era mai venuto dai deputati americani. E noi? 

mercoledì 8 dicembre 2021

Il Truman Show della politica estera italiana - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - Alberto Negri  è un giornalista e reporter di guerra. Per «Il Sole 24 Ore» ha seguito dal 1987 al 2017 i principali eventi politici e bellici come inviato in Medio Oriente, Balcani, Asia Centrale e Africa. - https://www.facebook.com/alberto.negri. 


https://www.gogedizioni.it/prodotto/bazar-mediterraneo/ 


La politica estera italiana è un Truman show, dove non c’è nulla di vero e siamo stati tutti adottati da un’emittente televisiva. Bastava ascoltare i discorsi in diretta tv del presidente del Consiglio Draghi e del ministro degli esteri Di Maio al Med, secondo i quali l’Italia si «batte per i diritti umani» del Mediterraneo.

Due giocolieri, neppure troppo abili, che in due ore di sproloqui riescono a non pronunciare mai i nomi di Giulio Regeni, di Patrick Zaki e di Al Sisi. I loro flessibili consiglieri dicono che lo fanno per non irritare ulteriormente il generale egiziano che già di malavoglia tollera la presenza degli avvocati al processo Zaki, di cui sapremo la sorte in queste ore.

Quale delicatezza per il macellaio golpista del Cairo, che tiene in carcere e ammazza gli oppositori.

L’Italia si batte così a bassa voce e in maniera talmente generica per i diritti umani perché in realtà è un Paese dalla coscienza sporca assai. All’Egitto vendiamo miliardi di euro di armamenti, quindi non bisogna disturbare il manovratore anche quando insulta le nostre istituzioni, dalla magistratura al Parlamento. 

Come se difendere i diritti umani precludesse dal fare affari: è difendendoli che ci si fa valere come interlocutori, ribadendo i propri ideali, posto che ne siano rimasti.

domenica 10 ottobre 2021

LA LOTTA CONTRO L’ORTODOSSIA - GIORGIO PARISI

Da: https://fisicamente.blog  - Giorgio Parisi è un fisico e accademico italiano, premio Nobel per la fisica nel 2021 per i suoi studi sui sistemi complessi. Attivo in fisica teorica, soprattutto nel campo della fisica statistica e in teoria dei campi, con Carlo Rubbia e Michele Parrinello è uno dei tre fisici italiani membri della National Academy of Sciences degli Stati Uniti d'America. 

Leggi anche: The Nobel Prize ln Physics 2021 - Luca Perri


Questo scritto di Giorgio Parisi (caro amico, come del resto Ciccotti e De Maria, oggi Presidente dell’Accademia dei Lincei) compare, come nuovo contributo, su la riedizione de L’Ape e l’Architetto. Giorgio Parisi mostra, come sempre, la sua acutezza di analisi che unisce alla capacità di farsi capire. Credo sia molto utile una lettura di questo scritto che dovrebbe accompagnare l’altro, quello di Ciccotti e De Maria. Vi sono molte cose da capire e ripensare dopo tanti anni e tutti gli autori di questi scritti ci aiutano. (Roberto Renzetti - https://fisicamente.blog


Quando mi fu chiesto di scrivere una presentazione per la ristampa, da tempo attesa, di L’Ape e l’architetto, pensai tra me e me: “Facile: è un libro che conosco perfettamente e che ho letto molte volte. Basta che gli dia uno sguardo veloce, trovo qualche citazione e so già che cosa dire”. Detto fatto: abbastanza velocemente scrissi una prima stesura che cominciava con: “Ricordo quando ho letto questo libro la prima volta: era il 1973 e mi trovavo nel mio ufficio a New York alla Columbia University…”. Tuttavia in un successivo sprazzo di lucidità mi venne lo scrupolo di controllare la data di pubblicazione e con mio grande stupore scoprii che L’Ape e l’architetto era stato stampato per la prima volta nel 1976. Mi domando ancora che cosa avessi letto a New York nel 1973: forse uno dei saggi degli autori che a queltempo circolava come preprint in forma separata. In ogni caso buttai via quello che avevo scritto e rilessi il libro molto attentamente (come se fosse la prima volta), cercando di non sovrapporre i miei ricordi a quello che leggevo, cercando di capire quale fosse adesso il suo messaggio e quale impressione potesse lasciare al lettore.

Forse la prima sensazione che si ha adesso è di spaesamento. Quando un libro viene scritto – e questo è vero in particolar modo per una serie di saggi – gli autori hanno molto bene in mente il pubblico con cui cercano di comunicare. Una delle preoccupazioni che risultano molto chiare, specialmente nella prima parte di alcuni dei saggi che compongono L’Ape e l’architetto, è dimostrare che le tesi degli autori sono completamente in linea con i testi originali marxiani e ne sono la naturale conseguenza, e che se mostri sacri del marxismo (in un caso anche Lenin) affermano tesi contrarie, sono questi ultimi a uscire dalla corretta strada. L’origine di questa preoccupazione si capiva benissimo nel 1976: da molto tempo si era andata costruendo un’ortodossia marxista per la quale c’erano alcune verità indiscutibili; a questa rigidità ideologica corrispondevano partiti comunisti che nella loro enorme varietà di prassi politica, erano spesso caratterizzati da una forte repressione del dissenso interno: gli avversari della linea vincente erano tipicamente accusati di essere devianti (in genere verso destra) dalla linea corretta. Il grande prestigio ottenuto dall’Unione Sovietica per il suo contributo decisivo a sconfiggere il nazifascismo, la guerra fredda che divideva il mondo in due parti e la conseguente necessità di schierarsi, avevano contribuito moltissimo a questa cristallizzazione. La sinistra in Italia per anni era stata dominata dal PCI e l’egemonia culturale del PCI si faceva sentire pesantemente in tutta l’area della sinistra progressista.

venerdì 14 ottobre 2016

OTTAVA BOLGIA INFERNALE*- Gianfranco Pala

 Ottavo cerchio dell’inferno dantesco in fondo a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino. Poi la strada non la trovi da te, sprofonda all’inferno, che però non c’è.

Solo un <buzzurro> {*} come Salvini che nella sua ignoranza non sa nemmeno l’italiano, giacché “traditore” è chi consegna libri e pensieri ai loro avversarî e il fellone che ha commesso tradimento nei confronti della patria; della causa,o dei compari di una lotta merita una dura punizione, fino alla morte, o per dirla con la severità di Dante “se le mie parole esser dien seme, che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo”. Ma i libri o i pensieri di Carlo Azeglio Ciampi per chi e di chi erano? Certamente non per proletari e comunisti, ma per banchieri e capitalisti internazionali, cui semmai gli italiani si fossero omologati. E parimenti ciò è vero altresì per il silente <convitato-di-pietra> Giorgio Napolitano, che qui non dovrebbe entrare direttamente in gioco (ma che, come si dirà, <tomo tomo, cacchio cacchio> si è dedicato e plasmato sugli stessi padroni e opposto ai medesimi nemici). Quindi è palese l’ipocrisia del legaiolo – con il suo <cesso di anima>, per dirla come il diavolo di Altàn – di manifestare “preghiera e cordoglio” per la non prematura morte di Ciampi; lo storico e politico analfabetismo del disumano guitto <ruspista> lombardo ne delinea le magnifiche sorti, e regressive. Ossia definire Ciampi “uno dei traditori dell’Italia e degli italiani, come Napolitano, Prodi e Monti” non sono “parole choc, a caldo”, di Matteo Salvini sulla morte del presidente emerito della repubblica, il quale a dire del legaiolo “si porta sulla coscienza il disastro di 50 milioni di italiani, e come per Napolitano è uno da processare come traditore”. E neppure sono “parole miserevoli” come esclamano le anime-beninten­zionate del Pd, anche dell’asinistra di coloro-che-lastricano-le-vie-dell’inferno. Poiché costoro fingono di non sapere mentre Salvini – è chiaro – non sa proprio chi siano realmente, da decenni, né Ciampi né Napolitano e via con coloro che sempre <osservano-gli-ordini-supe­riori>. 

{* per spiegare alcuni termini, per chi non lo sapesse, non è male apprendere che buzzurro viene dal tedesco antico Butzen (moderno Putzer), in linguaggio popolare riferito agli immigrati che decisero di fermarsi tra l’Esquilino e la zona ex Macao del rione Castro pretorio, come ancora oggi; allora erano circa il 10% della popolazione romana dell’epoca. Vennero perciò chiamati spazzacamini; caldarrostari, ambulanti castagnari, montanari alpini semianalfabeti che nella stagione autunnale delle castagne scendono in pianura, per venderle fresche o arrostite (per cui preliminarmente pulivano le canne fumarie) e pulitori in genere; in Italia centrale equivale, estensivamente in senso figurato, a termini dialettali quali <ciafrujoni>, confusionari, casinisti, pasticcioni, ingarbugliatori, che confondono le idee; a parti invertite, è il corrispettivo dell’epiteto terroni che i <nordici> affibbiano con violenza verbale analoga all’uso di <buzzurro>, ma provocatore di doppiosenso rivolto ai <sudici> [non si dimentichi che <tombini-di-ghisa> uscendo coperto di merda dalle fogne, nel 2009 a Pontida; cantò stonando "senti che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani"; e adesso, per catturare un pugno di voti ... <sudici>, dopo la felpa per <lampedusa> si è fatto sùbito stampare un’altra felpa con su scritto <amatrice>!!], La parola <terroni> (e varianti dialettali) proviene dallo spagnolo terrones (zolle di terra, zappate dai <contadini>), che in un più remoto passato in Toscana non era riferita ai <lavoratori agricoli> servi della gleba, ma invece riguardava originariamente una disputa tutta interna alla classe padronale tra i <proprietari terrieri>, <latifondisti>, che con la terra avevano solo un <rapporto di proprietà> non avendola mai lavorata, zappata, e i <bottegai> che si ritevano dominati e vessati da quegli altri, proprietari privati della natura}.

mercoledì 28 novembre 2018

STORIA DEL SESSANTOTTO - Michele Brambilla

Da Storia del Sessantotto, Rizzoli, Milano 1994 - https://www.autistici.org/operaismo/Autonomi3/index.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/1978-la-svolta-delleur.html

      Una interpretazione tra altre... (Il collettivo)


"Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli"
Karl Barth

XIII - VERSO LA FINE

Il 1976 è l'anno in cui il Sessantotto entra in agonia. Certo, gran parte delle battaglie cominciate otto anni prima erano state vinte: il divorzio era diventato legge dello Stato, già dal 1970 era stato varato lo Statuto dei lavoratori, nel 1975 era stato riformato il diritto di famiglia, la scuola e l'università erano state sensibilmente modificate. E certo molti degli stili di vita e delle idee dei sessantottini si erano ormai radicati nella mentalità comune: dai comportamenti sessuali al linguaggio all'atteggiamento verso l'autorità. Persino il cosiddetto apparato era stato intaccato dalla «rivoluzione» sessantottina, e di questo l'esempio forse più rilevante è costituito dalla forte influenza, nel sistema giudiziario, della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica, e del fenomeno dei «pretori d'assalto». Di tutti questi cambiamenti nei costumi, del resto, è rimasta fino ai giorni nostri una traccia che appare indelebile. Ma per quanto riguarda il suo obiettivo principale, il Sessantotto è stato innegabilmente sconfitto. Il fine dichiarato dei contestatori, soprattutto dopo l'incanalamento ideologico della protesta, era una radicale trasformazione del sistema politico ed economico; un rinnegamento del capitalismo, l'instaurazione di una democrazia «dal basso». Molti sessantottini il potere l'hanno pure preso, come si può oggi facilmente constatare dando uno sguardo a molti organigrammi: ma per farlo hanno dovuto abiurare l'antica fede, e accettare di essere strumenti di quel capitalismo che volevano distruggere.

LA CRISI DEI GRUPPI

Di questa sconfitta, nel 1976 c'era già molto più di qualche semplice segno premonitore. L'avvisaglia principale fu la crisi dei gruppi rivoluzionari organizzati, che cominciarono allora la propria dissoluzione. I gruppi avevano fallito su tutti i fronti: non erano riusciti a sottrarre la classe operaia alla fedeltà al Partito comunista e al sindacato tradizionale; e, sul versante opposto, non erano stati in grado di interpretare fino in fondo lo spirito «movimentista» dell'ultima generazione. «I gruppi» ha scritto Paul Ginsborg «erano settari, dominati da modelli rivoluzionari terzomondisti, incapaci di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano dalla società italiana.»
Dicevano di combattere l'autoritarismo, ma cercarono di imporre a tutti le loro forme di lotta, i loro stili di vita e le loro idee politiche: «Il lavoratore» era scritto su un documento programmatico del Cub della Pirelli nel 1972, «deve concepire se stesso come produttore ed acquisire coscienza della sua funzione, deve aver coscienza di classe e diventare comunista, deve rendersi conto che la proprietà privata è un peso morto, è un ingombro che bisogna eliminare».
Dicevano di detestare la forma-partito, ma caddero quasi tutti nella tentazione di riprodurre in fotocopia l'organizzazione di quei partiti che volevano spazzare via. Uno degli esempi più eclatanti fu, nel 1973, la nomina di Adriano Sofri a segretario della «movimentista» Lotta continua. E fu proprio nel 1976 che Lotta continua, forse il più importante dei gruppi del Sessantotto, si sciolse.

mercoledì 22 marzo 2017

Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero di Gramsci*- Salvatore Tinè


Quello del rapporto tra internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione cosmopolitica del sistema di produzione capitalistica. Una vocazione  che gli appariva particolarmente evidente nei settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli  e delle nazioni e su quello della libertà degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918.

L’economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo.[1] 

venerdì 15 marzo 2019

- Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero di Gramsci - Salvatore Tinè

Da: http://www.marx21.it - http://www.marxismo-oggi.it/ -
salvatoregiuseppe.tine, Università di Catania - http://musicasognata.blogspot.com/

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Quello del rapporto tra internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione cosmopolitica del sistema di produzione capitalistico. Una vocazione che gli appariva particolarmente evidente nei settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli e delle nazioni e su quello della libertà degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918

L’economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo.1

Di qui l’interesse della “borghesia liberista anglosassone” al superamento delle divisioni nazionali e dei contrasti politici e militari tra i vari stati in cui pure continuava ad articolarsi la struttura della politica e dell’economia mondiali.

Rappresenta, la Lega delle Nazioni, un superamento del periodo storico delle alleanze e degli accordi militari: rappresenta un conguagliamento della politica con l’economia, una saldatura delle classi borghesi nazionali in ciò che le affratella al di sopra delle differenziazioni politiche: l’interesse economico. Ecco perché l’ideologia si è affermata vittoriosamente nei due grandi Stati anglosassoni, liberisti e liberali.2

Si comprende allora la dura polemica del giovane Gramsci contro il “nazionalismo”: quest’ultimo rappresenta infatti per il pensatore sardo un fenomeno ideologico e politico caratteristico di borghesie deboli e arretrate ovvero di piccole borghesie retrive e reazionarie. 

La classe borghese, sul piano economico, è internazionale; deve, necessariamente, saldarsi, attraverso le differenziazioni nazionali; la sua dottrina di classe è il liberalismo in politica e il liberismo in economia. [...] Il nazionalismo, come dottrina politica e come dottrina economica, si restringe necessariamente agli interessi di categorie singole di produttori, sceglie, nella classe, i nuclei già formati e consolidati, e tenta perpetuarne il dominio e il privilegio.

sabato 2 gennaio 2021

Pandemia nel capitalismo del XXI secolo - A cura di Alessandra Ciattini, Marco Antonio Pirrone



Qui il video della presentazione di "Pandemia nel capitalismo del XXI secolo" (https://www.facebook.com/rifondazionepalermo/videos/3943359729021773

Coronavirus, un’opportunità per cambiare 

Geraldina Colotti (Fonte: Le monde diplomatique - https://ilmanifesto.it/edizione-pdf/le-monde-diplomatique)


In modo quanto mai opportuno, la casa editrice  PM (https://www.pmedizioni.it) manda in libreria il volume Pandemia nel capitalismo del XXI secolo, a cura di Alessandra Ciattini e Marco Antonio Pirrone.

Il profilo dei due autori – Alessandra Ciattini, già docente di Antropologia culturale presso l’Università Sapienza di Roma, è specializzata nello studio della vita religiosa latino-americana e della riflessione sulla religione; Marco Antonio Pirrone, ricercatore di sociologia generale presso il Dipartimento “culture e società” dell’Università degli studi di Palermo, si occupa prevalentemente di migrazioni internazionali, razzismo, capitalismo e globalizzazione, storia del pensiero sociologico e sociologia dello sviluppo – dà al volume un taglio multidisciplinare.

L’intento dichiarato della collana che ospita il lavoro, Strumenti per il servizio sociale, diretta da Michele Mannoia e Pirrone, è infatti quello di pubblicare riflessioni e ricerche che muovano da una visione critica della realtà sociale per favorire il dialogo tra varie discipline circa le trasformazioni della società globale e le conseguenze di tali mutamenti sulla vita e sulle relazioni di uomini e donne.

Pandemia nel capitalismo del XXI secolo è dunque uno strumento per comprendere, ma anche uno stimolo ad agire. Una ricerca in chiave marxista che, avvalendosi del contributo di vari specialisti (biologi, virologi, medici, sociologi, filosofi, economisti, giuristi), mette in relazione la sfera economica con quella ecologica e con gli altri aspetti della vita sociale, nella convinzione che vi sia una stretta relazione tra il modo di produzione capitalistico e la pandemia da coronavirus. Il Covid-19 sta infatti mietendo vittime in tutto il mondo, soprattutto tra gli strati sociali che, «per le loro stesse condizioni di vita, non sanno come difendersi ».

lunedì 24 maggio 2021

Dante nei “Quaderni del carcere”: il canto decimo dell’Inferno di Antonio Gramsci. - Giorgio Gattei

Da: Da: http://www.maggiofilosofico.it - Giorgio Gattei è uno storico del pensiero economico ed economista marxista italiano. Professore di Storia del Pensiero Economico presso la Facoltà di Economia dell'Università di Bologna. 


1. In epoca di celebrazioni dantesche commuove trovare nell’indice del primo Quaderno del carcere dell’8 febbraio1929 che Antonio Gramsci, fra gli argomenti privilegiati da trattare in prigionia per mantenere il cervello in attività, avesse messo al quinto posto «Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella economia [corretto: struttura] e nell’arte della Divina Commedia» (vedine l’immagine sopra riportata). Al tempo degli studi universitari a Torino Gramsci era stato attratto dalle lezioni di Umberto Cosmo, incaricato di Letteratura italiana, con cui aveva instaurato un rapporto di amicizia, e forse per quel tramite gli era nata la passione per lo studio della Divina Commedia e sulla quale, entrando in carcere, riteneva di poter dire qualcosa di nuovo essendo convinto (come aveva scritto in una lettera alla cognata Tatiana il 26 agosto 1929) che sul canto decimo dell’Inferno «ho fatto una piccola scoperta che credo interessante e che verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di Benedetto Croce. Non ti espongo l’argomento perché occuperebbe troppo spazio… ma nel decimo canto tutti sono tutti affascinati dalla figura di Farinata e si fermano solo a esaminare e a sublimare questa… Poi scriverò la mia “nota dantesca” e magari te la invierò in omaggio, scritta in bellissima calligrafia». 

La promessa venne ribadita il 7 settembre 1931 («in una delle prossime lettere ti riassumerò la materia di un saggio sul canto decimo dell’inferno dantesco perché trasmetta il prospetto al prof. Cosmo, il quale come specialista in danteria, mi saprà dire se ho fatto una falsa scoperta o se in realtà meriti la pena di compilare un contributo, una briccica da aggiungere ai milioni e milioni di tali note che sono state già scritte») ed infine verrà adempiuta nella lettera del 20 settembre 1931 (vedi allegato 1) dove veniva riassunto con esattezza l’argomento di quel “saggio dantesco” di Gramsci che i posteri hanno potuto leggere solo dopo la prima pubblicazione dei Quaderni del carcere (vedilo in A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi 1952, che adesso è in rete e da cui l’abbiamo tratto) (vedi allegato 2) e a cui farà seguito il commento autentico gramsciano nella lettera a Tatiana del 21 marzo 1932 (vedi allegato 3).

Ma di che si trattava? In breve, a Gramsci non pareva esatto considerare, come da tradizione interpretativa si faceva, il decimo canto dell’Inferno come il “canto di Farinata degli Uberti”, pur essendo costui certamente il personaggio centrale, perché «io sostengo che nel decimo canto sono rappresentati due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcante e non solo il dramma di Farinata. E’ strano che l’ermeneutica dantesca, pur così minuziosa e bizantina, non abbia mai notato che Cavalcanti è il vero punito tra gli epicurei delle arche infuocate, e dico il punito per punizione immediata e personale», sebbene per l’interposta persona del figlio Guido che Dante aveva considerato nella Vita Nova come il «primo de li miei amici» e a cui aveva dedicato il celeberrimo sonetto «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio…». La differenza tra la reazione di Farinata, peraltro suocero di Guido che gli aveva sposato la figlia, e Cavalcante stava in questo: che «Farinata sentendo parlare fiorentino ridiventa l’uomo di parte, l’eroe ghibellino; Cavalcante invece non pensa che a Guido e al sentir parlare fiorentino si solleva per sapere se Guido è vivo o morto a quel momento».