domenica 10 luglio 2016

LE RADICI STORICO-ANTROPOLOGICHE DELLA NOZIONE DI FETICISMO*- Alessandra Ciattini


La nozione di feticismo nasce all'interno della riflessione sulla “religiosità primitiva” ma da questa è trasferita ad altri ambiti culturali. Contiene in sé una prospettiva critica che consente di scomporre i nostri “feticci” nel sistema di relazioni che in essi si cristallizzano.

In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno. Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da HegelMarxComteFreud per citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza - per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due punti: 1) cosa suscita l'interesse per leforme religiose extra-occidentali ? 2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni elementi costitutivi della propria società e cultura?

L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al concetto di tabù - reso noto da James Cooknei suoi diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”. Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato, altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale, la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non fosse stato scoperto. Nell'analisi freudiana tale processo, contrassegnato dalla contraddizione tra l'impulso a realizzare un desiderio proibito e il terrore di cedere ad esso, conduce all'insorgere del senso di colpa e alla creazione di pratiche ossessive che soddisfano in qualche maniera la pulsione proibita. Ma torniamo al feticismo e a colui che ha elaborato questo termine, ossia Charles de Brosses (1709- 1777).

Questi era presidente del Parlamento di Borgogna, un illuminista di provincia che coltivava numerosi interessi che vanno dallo studio delle nuove forme di vita sociale e culturale scoperte fino a quel momento, dalla storia comparativa delle religioni al problema dell'origine del linguaggio. È anche noto per le brillanti lettere che scrisse durante un viaggio in Italia, esperienza fondamentale degli intellettuali europei interessati alla scoperta degli antichi monumenti e al godimento delle opere d'arte presenti nel nostro paese (Viaggio in Italia, Bari 1992).

Benché in un opera precedente egli già menzioni il termine feticismo, a questa nozione dedica una ricerca specifica intitolata Sul culto degli dei feticci o parallelo dell'antica religione egiziana con la religione attuale della Nigrizia, parola con la quale si intende l'Africa subsahariana. Questo libro, il cui scopo principale è polemizzare con le credenze e le pratiche religiose del tempo, viene pubblicato anonimo a Ginevra nel 1760, perché de Brosses non voleva rischiare la Bastiglia, e successivamente viene ripubblicato durante la Rivoluzione Francese. Non esisteva di esso una versione italiana, fino a quando nel 2000 è uscita l'edizione curata daStefano Garroni e da me con l'aggiunta di un'introduzione e di un apparato di note (Bulzoni, Roma 2000), il cui scopo è quello di identificare tutti gli autori (antichi e moderni) che de Brosses cita e che hanno dato un significativo contributo alla millenaria riflessione sulla religione.

venerdì 8 luglio 2016

Pace: una storia lunga e tormentata, tra idee e realtà*- Emiliano Alessandroni intervista Domenico Losurdo

*In un’intervista esclusiva per il nostro sito (http://www.marx21.it/), Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo libro, “Un mondo senza guerre”.


Iniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?

Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.


Nel tuo libro presenti, in relazione al tema della pace, un quadro della storia più complesso e intrecciato di quello che, di consuetudine, tende ad offrire il manicheismo della logica binaria: il cammino dell'umanità più che da scontri tra ideali di pace e ideali di guerra, appare scandito, soprattutto dopo l'avvento dell'età moderna, da conflitti tra diversi ideali di pace. Potresti illustrarci concretamente questo tipo di dialettica?

Alcuni decenni prima della rivoluzione francese a parlare di «pace perpetua» era l’abate di Saint-Pierre, che però intendeva far valere tale ideale solo per le potenze civili e cristiane dell’Europa. Esse erano chiamate a rappacificarsi e ad allearsi in modo da fronteggiare meglio i «turchi», i «corsari d'Africa» e i «tartari»; combattendo contro i barbari, esse potevano persino trovare «le occasioni per coltivare il genio e i talenti militari». Facciamo un salto di quasi due secoli. Nel 1907 il Premio Nobel per la pace era assegnato a Ernesto Teodoro Moneta (l’unico italiano insignito di tale riconoscimento), che quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», Moneta aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», che legittimamente scaricavano «le loro energie esuberanti nel continente africano», e ciò «nell’interesse stesso della pace europea» (e occidentale). Ecco la prima distinzione che s’impone: si tratta di vedere se l’ideale della pace perpetua sia declinato in modo universalistico. In caso contrario esso può divenire una micidiale ideologia della guerra: negli USA della seconda metà dell’Ottocento, i campioni del Manifest Destiny e dell’espansionismo coloniale nel Far West si sentivano legittimati a decimare o annientare i nativi, considerati razze inguaribilmente bellicose che ostacolavano l’avvento della pace perpetua. Non si tratta di un capitolo di storia remota e senza alcun rapporto con il presente: ancora ai giorni nostri le infami guerre coloniali o neocoloniali che in Medio Oriente hanno distrutto interi paesi, provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono state presentate come operazioni di «peace-keeping» ovvero di «polizia internazionale»! Ma per avere un’idea di cosa si tratta, vediamo in che modo un filosofo di fama internazionale (Todorov) ha descritto il regime change imposto in Libia nel 2011: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverate al regime che i macellai della NATO erano decisi a rovesciare. Una brillante operazione di «mantenimento della pace»!

mercoledì 6 luglio 2016

Il programma minimo. Per la classe e i comunisti in una fase non rivoluzionaria* - Enzo Gamba, Gianfranco Pala


Il Programma minimo indica quali elementi possa contenere un programma di partito comunista per l’intera classe, reputato e definito minimo giacché è impensabile raggiungere, al momento, la costruzione della società comunista (ma nemmeno la transizione a un modo di produzione socialistico), poiché tutto ciò compete al
programma massimo del comunismo. Oggi è palese la mancanza di ogni presa di conoscenza di massa dell’analisi marxiana, pratica e teorica; questo è il significato da dare alla perdurante fase non rivoluzionaria, in un’attesa di lotta profonda per ritrovare tempi meno bui.
Qui si mette implicitamente a confronto la strategia del programma massimo del “partito” comunista, per cui è essenziale l’appendice che include la Critica al programma di Gotha di Marx, perché quel partito aveva progettato una strategia “operaia” con un programma inadeguato. Similmente, Engels, elaborò una critica di opportunismo che riaffiorava nell’incoerente programma del partito operaio tedesco di Erfurt. La distinzione fra un programma strategico comunista e uno tattico di rivendicazioni così“minime”che sono tutte interne alle regole capitalistiche borghesi, ma che nonostante ciò sono irrealizzabili con i rapporti di forza esistenti, è quindi centrale. Marx e Engels chiamarono “minimo” quello del Partito operaio francese del 1880, scrivendone le considerazioni introduttive: in tale circostanza Marx – di fronte alle parole di un “massimalista” ante litteram, Guesde, che negava l’importanza delle lotte per le riforme da parte dei comunisti, entro e contro il potere borghese – sbottò spazientito esclamando che se quella politica rappresentava il marxismo, “tutto quel che so, è che io non sono marxista”.


[...]Come narrava il mito dell’Araba fenice, che risorse dalle proprie ceneri, è possibile che nel punto di maggiore arretramento dei rapporti di forza del proletariato mondiale, Marx stia assumendo un nuovo fascino? Già dal 2008 le vendite [per la lettura e lo studio è un altro affare – gli anni 1960-70 in Italia o Francia lo attestano] dei suoi testi più noti sono aumentate sensibilmente ovunque e, secondo un sondaggio del 2005 commissionato dalla Bbc, egli è risultato essere il filosofo-rivoluzionario più importante della storia nell’opinione degli interessati. Questo risultato, alquanto stupefacente [... sit venia verbo!] va analizzato tenendo anche in considerazione il fatto che, le nuove generazioni, nate dopo la fine dell’Urss, hanno svincolato gli scritti del tedesco dall’esperienza politica dei paesi appartenenti all’area ex sovietica. Peraltro, la recente pubblicazione del testo di Piketty – che, sia chiaro, del Capitale mantiene solamente il titolo, assumendo una impostazione teorica palesemente keynesiana – deve una gran parte del successo planetario proprio al mercanteggiamento (nei fatti ogni riferimento effettuale è del tutto insussistente) degli scritti del materialista dialettico di Treviri. [Nel nostro ambito, l’uscita del volume Perla critica – dell’economia politica, secondo Marx (a cura di Gianfranco Pala), ed. la Città del Sole, 2014, ha incontrato un interesse significativamente superiore alle attese, stimolando dibattiti e presentazioni in meno di un anno in decine di sedi, di partito, di collettivi varii, o anche attraverso emittenti radiofoniche].

La crisi e la sua negazione

lunedì 4 luglio 2016

Classi e lotta di classe dopo la “crisi del marxismo”?* - Alessandro Mazzone

Da:   http://www.proteo.rdbcub.it/ [1]  

1. In nessun Paese europeo quanto in Inghilterra il senso della gerarchia sociale è presente immediatamente nel medium di ogni incontro e comunicazione - la lingua. Non solo diversa ricchezza di sintassi, vocabolario, registri espressivi distinguono i ceti, ma già la pronuncia di ogni parola e frase (pronuncia, le cui differenze “verticali”, appunto di appartenenza a strati superiori o inferiori, sono più importanti di quelle “orizzontali”, di regione). Questo biglietto da visita che si manifesta col solo aprir bocca, immediatamente, è un tratto tipico, che, nel centro primo del capitalismo e del maggiore impero moderno (anche se ora subordinato al cugino-nemico statunitense), si chiama appunto class; e poiché è evidente e onnipresente, non c’è - di solito - alcun bisogno di dirlo.

Ma nello stesso tempo, l’uso della parola class, nell’inglese corrente, ricorda anche che in quel Paese il movimento operaio, pur forte e glorioso in certe fasi, è rimasto quasi sempre subalterno; e che il concetto e sentimento dell’autonomia di classe dei lavoratori, morale prima ancora che politica, è rimasto, colà, marginale. Il senso proprio di “classe”, che appunto non significa appartenenza a un certo gruppo, categoria, ambiente, ma si riferisce ai rapporti di produzione e alla forma capitalistica della riproduzione sociale complessiva [2], non è entrato, là, nel senso comune. [3] E proprio perciò, che ci siano “classi” - nel senso di stratificazioni, di un alto e un basso a lor volta graduati, e di una potenza e miglior qualità inerente all’ “alto” è, invece, fortissimamente, nel senso comune, (di cui massimo e miglior testimonio è appunto la lingua). Infatti, “class” tutto significa, dalla evidente e ammessa superiorità dei ricchi e potenti - la upper class (noi diciamo talvolta “i padroni”, ma quest’espressione non riconosce superiorità!), alle classificazioni più o meno fondate di varie teorie sociologiche, e poi anche giù giù fino a quelle vanità sciocchistico-pubblicitarie, per cui una certa automobile o un paio di scarpe esprimerebbe la vostra “classe” (buon pro’ vi faccia...) - E non è un caso, probabilmente, che sempre l’inglese corrente, solo fra le lingue europee (dall’italiano al francese al tedesco al russo...) non abbia due termini per dire “popolo” e, invece “gente”. Tutto quanto è people, “la gente” “gli individui al plurale” - in buona armonia, a pensarci bene, con quell’altro aspetto: poiché dove tutto è class, insieme gerarchia, strato, ceto, stile di vita, come può esserci e agire, ed esser soggetto politico in opposizione ai suoi dominatori, un’ entità che sia non lower class, o plebe, ma davvero “popolo”? [4] - Così. anche in questi tratti del linguaggio si manifesta la egemonia plurisecolare della borghesia inglese [5].

domenica 3 luglio 2016

Critica della retorica democratica - L. Canfora, A. Burgio

"Storia della democrazia tra la Rivoluzione francese e la fine dell'Unione Sovietica" 

Leggi anche:  http://www.linkiesta.it/it/article/2016/07/01/luciano-canfora-la-tentazione-dei-liberali-e-togliere-il-voto-alla-gen/31033/
                        http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/marx-e-la-rivoluzione-del-1848-irene.html

LA FORMA-VALORE - Stefano Garroni


Sul termine Erscheinung: manifestazione fenomenica. Sul termine Elementarform. La merce: valore e valore d'uso. Valore di scambio e merce in quanto cosa sociale. Il principio di non contraddizione aristotelico: perché Marx non viola questo principio? Kant e il problema del rapporto tra intelletto e tempo. Quando la merce diventa valore di scambio? Sincronia e diacronia: opposizione o equilibrio frutto di movimento? Kant e il termine Verstand, e gesund Verstand: differenza tra intelletto e sano intelletto. La scienza della natura come scienza dell'intelletto: la separazione degli ambiti. Hegel e il dominio del sano intelletto. Della Volpe e l'astrazione determinata. Merceologia e economia. L'oggettività delle merci. Valore relativo della merce. L'unità data dall'unione degli opposti. Tempo di lavoro e valore della cosa. 

Leggi anche:     https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/09/la-formavalore-capitale-libro-1.html
                             https://www.facebook.com/notes/ermanno-semprebene/denaro-capitale-plusvalore-ernest-mandel/997311033646495?pnref=story 

sabato 2 luglio 2016

Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève - Marco Filoni

Leggi anchehttps://www.academia.edu/9890147/Marco_Filoni_il_filosofo_della_domenica_la_vita_e_il_pensiero_di_Alexandre_Koj%C3%A8ve
Ascolta anche: BODEI E FILONI su Alexandre Kojève: un pensatore di confine ( https://www.youtube.com/watch?v=8sFjwDOS5Vk )

Alexandre Kojève (1902-1968), aristocratico russo rifugiatosi in Francia, entrò nell’amministrazione francese subito dopo la fine della guerra. Da quel momento dirà di aver tempo per la filosofia soltanto la domenica. E infatti “il filosofo della domenica” era il nome con il quale lo scrittore Raymond Queneau era solito chiamarlo, a partire dagli anni Cinquanta. Kojève passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’elite della diplomazia mondiale e dell’alta finanza. Così la sua fu un’attività filosofica
“semiclandestina”, riservata ai fine settimana, una circostanza che unitamente al fascino del personaggio ha determinato un singolare destino della ricezione kojèviana. 

Kojève è diventato una sorta di citazione obbligata per gli studi hegeliani, così come per gli esiti della fenomenologia e dell’esistenzialismo in Francia. Ma solo diversi anni dopo la sua morte, in seguito alla pubblicazione di molti suoi testi inediti, vennero alla luce opere con le quali il dibattito contemporaneo ancora si confronta. Il libro ricostruisce gli ambienti culturali di provenienza, gli studi, le scelte teoriche fondamentali e la rete intellettuale entro cui presero forma i primi scritti di Kojève.




venerdì 1 luglio 2016

L’imperialismo nel XXI secolo* - John Smith**

**John Smith insegna politica economica internazionale alla Kingston University di Londra. Il presente saggio è un estratto dal suo libro Imperialism in the Twenty-First Century, Monthly Review Press, 2016.

Introduzione

La globalizzazione della produzione e il suo spostamento verso i paesi a basso reddito costituiscono una delle più significative e dinamiche trasformazioni dell’era neoliberista. La sua forza trainante fondamentale consiste in quello che numerosi economisti chiamano “arbitraggio globale del lavoro”: lo sforzo compiuto dalle imprese in Europa, Nord America e Giappone al fine di tagliare i costi e aumentare i profitti rimpiazzando il relativamente ben pagato lavoro domestico con manodopera estera a basso costo, ciò sia attraverso l’emigrazione della produzione (la cosiddetta “esternalizzazione”) sia tramite l’emigrazione dei lavoratori. La riduzione dei dazi e la rimozione delle barriere ai flussi di capitali hanno stimolato la migrazione della produzione in direzione dei paesi a basso reddito, ma la militarizzazione delle frontiere e il crescere della xenofobia hanno creato l’effetto opposto sulla migrazione dei lavoratori provenienti da questi stessi paesi – non fermandoli del tutto, bensì inibendo il loro flusso e aggravando il già vulnerabile status di serie B dei migranti. 

Di conseguenza, le fabbriche attraversano liberamente il confine USA-Messico e passano agevolmente i muri della fortezza Europa, così come le merci in esse prodotte e i capitalisti  che le possiedono, mentre gli esseri umani che vi lavorano non godono del diritto di passaggio. Si tratta di una parodia di globalizzazione – un mondo senza frontiere per tutto e tutti a esclusione dei lavoratori.

I differenziali salariali globali, in larga misura derivanti dalla soppressione della libertà di movimento del lavoro, forniscono un riflesso distorto delle differenze globali nel tasso di sfruttamento (in parole semplici, la differenza tra il valore generato dai lavoratori e ciò che viene loro pagato). Lo spostamento verso sud della produzione significa che i profitti delle aziende con sede in Europa, Nord America e Giappone, il valore di tutte le tipologie di attività finanziarie provenienti da tali profitti, e i livelli di vita dei cittadini di queste nazioni, sono divenuti fortemente dipendenti dagli alti tassi di sfruttamento dei lavoratori nelle cosiddette “nazioni emergenti”. È necessario, dunque, riconoscere nella globalizzazione neo-liberale una nuova e imperialista fase dello sviluppo capitalistico, laddove “l’imperialismo” è caratterizzato dalla sua essenza economica: lo sfruttamento del lavoro vivo del Sud da parte dei capitalisti del Nord.

Nella prima parte verranno esposti i risultati di un’analisi empirica del trasferimento globale della produzione verso le nazioni a basso reddito, nonché identificato la sua caratteristica fondamentale: il super-sfruttamento imperialista (1); la seconda parte cercherà di spiegare tale fenomeno nei termini della teoria del valore di Marx, innanzitutto ripercorrendo il dibattito degli anni Sessanta e Settanta tra la teoria della dipendenza e i suoi critici marxisti “ortodossi”, successivamente riflettendo sulla teoria dell’imperialismo di Lenin e, per concludere, offrendo una rilettura critica delCapitale di Marx.

Prima parte: globalizzazione e imperialismo

DIALETTICA E TEMPORALITÀ, l’immagine di Hegel nella Dialettica della natura di Engels* - Vladimiro Giacché



1. Hegel secondo Engels: le “tre leggi della dialettica” e la dinamicità delle categorie
2. Dialettica e temporalità
3. Storia e concetto in Hegel un’alternativa teorica
4. Le ragioni di un equivoco (ipotesi per una ricerca)
5. Conclusioni su Hegel ed Engels

Lo scopo del presente lavoro è quello di seguire i momenti principali del dialogo che Friedrich Engels intrattiene con Hegel nella sua Dialettica della natura.. Il rapporto di Engels col pensiero hegeliano presenta un immediato motivo di interesse: la lettura engel­siana di Hegel è stata il canale principale della ricezione del pensiero di questo per buona parte della tradizione marxista (Lenin, Lukács e “diamat”, ma anche Gramsci e Bloch). Lo Hegel di Engels è il pensatore che ha formulato le “leggi della dialettica”, ed introdotto in filosofia un modo di pensare dinamico che si adatta perfettamente agli sviluppi delle scienze naturali e storiche, e può favorirne ulteriori progressi se consapevolmente adottato dagli scienziati. Ora, l’immagine della dialettica hegeliana che Engels trasmette ai suoi lettori ha come ingrediente fondamentale la dimensione della temporalità. È un’immagine, questa, che ha avuto un’enorme fortuna praticamente sino ai nostri giorni, e che Engels d’altronde condivide con molti esponenti della cultura filosofica del secondo Ottocento. Nelle prossime pagine tenterò di dimostrare che si tratta di un’immagine so­stanzialmente falsa, che pone in ombra aspetti decisivi del pensiero di Hegel.


1. Hegel secondo Engels: le “tre leggi della dialettica” e la dinamicità delle categorie

mercoledì 29 giugno 2016

La merce* - Roberto Fineschi

*Da:    http://win.ospiteingrato.org/

Il concetto di merce è la chiave della teoria marxiana del “capitale”. La sua complessa definizione implica una serie di nozioni di carattere filosofico ed economico che trovano poi pieno sviluppo nello svolgimento della teoria nella sua interezza. Essa è, infatti, detta “forma economica cellulare”. 
La merce è unità immediata di valore d’uso e valore. Essa è, dunque, da una parte un oggetto utile, caratteristica che non la distingue dal più generico “prodotto”, in quanto l’utilità è presupposto comune a qualunque forma del risultato del processo lavorativo – il prodotto – in qualsiasi forma di organizzazione della riproduzione umana. Questo è il suo “contenuto materiale”, condizione necessaria ma non sufficiente alla definizione di merce.
L’indistinzione di prodotto e merce, ovvero di produzione in genere e forme storicamente determinate di essa, è uno dei limiti fondamentali dei pensatori che precedono Marx, nonché uno degli assiomi più controversi, ma più o meno indiscussi della dominante ideologia/teoria economica ufficiale.

Torniamo alla merce. Oltre che valore d’uso, essa deve essere anche valore, ovvero avere “forma sociale” storicamente specifica. Se pare meno controversa la definizione del valore d’uso, da sempre si discute su quella di valore. Marx la articola in tre passaggi: sostanza, grandezza e forma di valore. I primi due punti sono affrontati nel § 1 del I capitolo del I libro del Capitale, il terzo nel § 3. 

Una lunga traduzione interpretativa, che risale, in parte, allo stesso Engels, ha conferito maggiore importanza al § 1, dove Marx afferma essere il lavoro astrattamente umano la sostanza del valore ed il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di una merce la sua grandezza di valore. Lavoro astrattamente umano implica che non si tratti di un genere determinato di lavoro concreto a creare il valore, vale a dire che non sono la sartoria in quanto sartoria, o la tessitura in quanto tessitura a farlo; sartoria e tessitura pongono il valore in quanto figure particolari di lavoro astrattamente umano, di lavoro umano in genere. Sulla base di queste pagine parrebbe poter emergere una definizione puramente tecnica del valore, che si ridurrebbe a una certa quantità di “lavoro contenuto” nel prodotto, da misurarsi attraverso il dispendio di forza-lavoro ovvero il tempo di lavoro. Questo tipo di lettura era in qualche modo suggerito dal modo in cui Marx imposta la questione della “trasformazione dei valori in prezzi” nel IX capitolo (ma non nel X) del III volume. È più o meno questo che si intende comunemente con “teoria del valore-lavoro”.

martedì 28 giugno 2016

IL CAPITALE, LIBRO I* - Karl Marx



PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Quest'opera della quale consegno al pubblico il primo volume, costituisce il seguito del mio scritto Per la critica dell'economia politica, pubblicato nel 1859. Il lungo intervallo fra l'inizio e la continuazione è dovuto a una malattia durata molti anni, che ha interrotto a più riprese il mio lavoro.

Il contenuto di quello scritto anteriore è riassunto nel primo capitolo di questo volume; e non solo per mantenere il nesso e per completezza: l'esposizione è migliorata; ogni volta che è stato possibile, molti punti, prima semplicemente accennati, ora sono stati ulteriormente sviluppati mentre, viceversa, cose che là erano state sviluppate per esteso qui sono solo accennate. Le sezioni sulla storia della teoria del valore e del denaro sono state ora soppresse del tutto, com'è ovvio; tuttavia il lettore dello scritto precedente troverà nelle note al primo capitolo nuove fonti per la storia di quella teoria.
Il detto « ogni inizio è difficile » vale per tutte le scienze. Perciò la comprensione del primo capitolo e specialmente della sezione che contiene l'analisi della merce presenterà maggior difficoltà degli altri. Però ho svolto nella maniera più divulgativa possibile ciò che riguarda più da vicino l'analisi della sostanza di valore e della grandezza di valore[1]La forma di valore, della quale la forma di denaro è la figura perfetta, è poverissima di contenuto e semplicissima. 

Tuttavia, invano l'umanità da più di duemila anni ha cercato di scandagliarla a fondo, mentre d'altra parte l'analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complicate è riuscita per lo meno approssimativamente. Perché? Perché il corpo già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. Inoltre, all'analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l'uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza d'astrazione. Ma per quanto riguarda la società borghese la forma di merce del prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma economica corrispondente alla forma di cellula. Alla persona incolta, l'analisi di tale forma sembra aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze: e di fatto si tratta di sottigliezze, soltanto che si tratta di sottigliezze come quelle dell'anatomia microscopica.

lunedì 27 giugno 2016

KARL MARX, ZUR KRITIK DER POLITISCHEN ÖKONOMIE* - Stefano Garroni

*Da:     http://www.terzapagina.eu/




L’analisi della merce, come lavoro in doppia forma, di valore d’uso – quale risultato di un lavoro reale o di una attività <produttiva> finalizzata – e di valore di scambio, o tempo lavoro o lavoro sociale indifferenziato, è il risultato critico finale della ricerca quasi secolare dell’economia politica classica, che in Inghilterra inizia con W. Petty, in Francia, con Boisguillebert e si chiude, in Inghilterra, con Ricardo, in Francia con Sismondi.
Solo apparentemente la pagina di Marx è chiara: che significa, infatti, lavoro produttivo o finalizzato? Non è questa la caratteristica di ogni lavoro, che non sia un mero passatempo?
In un senso generalissimo, certamente le cose stanno così, ma appunto alla condizione di attenersi ad un senso generalissimo dei termini, dunque, ad un senso impreciso, vago ed in questo senso estraneo ad un linguaggio, che si voglia almeno comprensibile, se non addirittura scientifico.

Ed allora cominciamo a notare che il lavoro, produttore di valore d’uso, è finalizzato a realizzare una situazione di jouissance o di Nutznißung, ovvero di piacere, godimento o utilità. Mentre il lavoro produttore di valore di scambio, sia pure en principe, ha lo scopo, mediante lo scambio, di realizzare profitto – ed alla nozione di profitto, si badi, non appartengono di necessità logica né quella di godimento/jouissance né quella di utilizzabilità immediata/Nutznißung.

Dunque, la distinzione a cui l’economia politica è giunta, appunto, è quella tra lavoro come produttore di jouisance o Nutznißung (lavoro concreto, reale, finalizzato) e lavoro come lavoro sociale indifferenziato[1], il quale, almeno en principe, è produttore di profitto (e, ripeto, nel concetto di profitto né è compreso quello di jouissance, né quello di utilità).Passiamo ora ad un’altra interessante notazione.
Petty, sottolinea Marx, non si interroga circa la condizionatezza materiale della natura creativa del lavoro, ma lo considera subito nella sua forma sociale generale, in quanto divisione del lavoro ed è da questa concezione che Petty può giungere a scrivere una Aritmetica politica, che è la prima forma in cui l’economia politica si distingue come scienza a se stante.

domenica 26 giugno 2016

Brexit e fine dell’euro. Il “monito degli economisti” aveva visto giusto* - Riccardo Realfonzo



L’affermazione dell’“exit” al referendum britannico apre una crisi che oggi vede uscire il Regno Unito dall’Unione Europea e che in breve tempo potrebbe vedere sgretolarsi l’eurozona. È il caso di dire che i nodi vengono sempre al pettine, e per una volta nessuno potrà dire che gli economisti non avevano avvertito.

Già nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera pubblicata daeconomiaepolitica.it e sottoscritta da trecento economisti italiani e stranieri, lanciò un allarme sul modo in cui i governi europei reagivano alla crisi e soprattutto sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità” imposte dai Trattati, che avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Ma quell’allarme rimase inascoltato.
Nel novembre 2013 il Financial Times pubblicò il “monito degli economisti”, con il quale insieme ad alcuni celebri studiosi di tutto il mondo sostenevamo che in assenza di una svolta espansiva e di uno sforzo concertato per la ricomposizione dei crescenti squilibri macroeconomici, l’Unione Europea non avrebbe potuto reggere, e la stessa esperienza della moneta unica si sarebbe esaurita. Il “monito” sottolineava il “carattere asimmetrico” della crisi, evidenziava i processi di divergenza impetuosi tra Paesi che traevano vantaggio dal quadro di regole europee (Germania in testa) e paesi che invece ne subivano le conseguenze. Il “monito” puntava il dito anche contro “le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale, che hanno contribuito per anni all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi”.

Crisi si, ma quale teoria della crisi? - Marco Veronese Passarella

Vedi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/keynes-ma-chi-era-costui-marco-veronese.html




mercoledì 22 giugno 2016

«Una teoria generale del conflitto sociale». Lotte di classe, marxismo e relazioni internazionali.* - Matteo Gargani intervista Domenico Losurdo

*Da:    http://www.filosofia-italiana.net/ 



 Premessa
Rivolgeremo qui alcune domande a Domenico Losurdo, professore emerito presso l’Università degli Studi di Urbino, a partire dalle sue due più recenti pubblicazioni La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013 (abbreviato “LC” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola) e La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014 (abbreviato “SA” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola).


 Intervista

Gargani:
Nel marxismo italiano, dal secondo dopoguerra, si possono – con le dovute cautele storiografiche – rintracciare tre filoni fondamentali. Il primo è quello storicista, ossia il canone interpretativo del PCI, impostato nelle sue linee essenziali da Togliatti e ispirato a una lettura di Gramsci quale culmine di un’ideale linea De Sanctis-Labriola-Croce. Il secondo è quello operaista, la cui simbolica data d’inizio può esser fatta risalire alla fondazione nel 1961 della rivista «Quaderni Rossi» e che ha annoverato tra le sue fila personalità differenti per formazione e provenienza politica come Tronti, Panzieri, Asor Rosa, Negri e Cacciari. Il terzo è quello del cosiddetto “dellavolpismo” che, attraverso soprattutto la produzione di della Volpe e Colletti, ha cercato di dare una lettura in chiave scientifica della Critica dell’economia politica di Marx, marginalizzandone la produzione giovanile e accentuandone allo stesso tempo la distanza da Hegel. In che modo ha letto Marx negli anni della sua formazione? Come colloca la sua interpretazione di Marx rispetto a questi tre filoni?

Losurdo:
Non metterei sullo stesso piano i tre filoni. Il richiamo a Labriola e ancor prima al Risorgimento non impedisce a Togliatti di mettere l’accento sulla questione coloniale (ignorata da Labriola, che celebra l’espansione italiana in Libia) e di denunciare (con Lenin) la «barbara discriminazione tra le creature umane», propria del capitalismo e dello stesso liberalismo. Prendendo le mosse dal Risorgimento e dalle sue correnti più radicali, Togliatti per un verso respinge la visione cara a Gobetti per il cui il fascismo sarebbe «l’autobiografia di una nazione», per un altro verso critica la tesi di Croce, secondo cui l’avvento della dittatura fascista farebbe pensare a un’improvvisa e inspiegabile esplosione di barbarie e di follia, sarebbe da paragonare all’«invasione degli Hyksos».