La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
martedì 12 luglio 2016
domenica 10 luglio 2016
LE RADICI STORICO-ANTROPOLOGICHE DELLA NOZIONE DI FETICISMO*- Alessandra Ciattini

In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di
rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno
ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno.
Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da Hegel, Marx, Comte, Freud per
citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi
differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza
- per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due
punti: 1) cosa suscita l'interesse per leforme religiose extra-occidentali ?
2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni
elementi costitutivi della propria società e cultura?
L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza
storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali
extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al
concetto di tabù - reso noto da James Cooknei suoi
diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un
parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”.
Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato,
altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale,
la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non
fosse stato scoperto. Nell'analisi freudiana tale processo, contrassegnato
dalla contraddizione tra l'impulso a realizzare un desiderio
proibito e il terrore di cedere ad esso, conduce
all'insorgere del senso di colpa e alla creazione di pratiche
ossessive che soddisfano in qualche maniera la pulsione proibita. Ma torniamo
al feticismo e a colui che ha elaborato questo termine, ossia Charles
de Brosses (1709- 1777).
Questi era presidente del Parlamento di Borgogna, un
illuminista di provincia che coltivava numerosi interessi che vanno dallo
studio delle nuove forme di vita sociale e culturale scoperte fino a quel
momento, dalla storia comparativa delle religioni al problema dell'origine del
linguaggio. È anche noto per le brillanti lettere che scrisse durante un
viaggio in Italia, esperienza fondamentale degli intellettuali europei
interessati alla scoperta degli antichi monumenti e al godimento delle opere
d'arte presenti nel nostro paese (Viaggio in Italia, Bari 1992).
Benché in un opera precedente egli già menzioni il termine
feticismo, a questa nozione dedica una ricerca specifica intitolata Sul
culto degli dei feticci o parallelo dell'antica religione egiziana con la
religione attuale della Nigrizia, parola con la quale si intende l'Africa
subsahariana. Questo libro, il cui scopo principale è polemizzare con le
credenze e le pratiche religiose del tempo, viene pubblicato anonimo a Ginevra
nel 1760, perché de Brosses non voleva rischiare la Bastiglia, e
successivamente viene ripubblicato durante la Rivoluzione Francese.
Non esisteva di esso una versione italiana, fino a quando nel 2000 è uscita
l'edizione curata daStefano Garroni e da me con l'aggiunta di
un'introduzione e di un apparato di note (Bulzoni, Roma 2000), il cui scopo è
quello di identificare tutti gli autori (antichi e moderni) che de Brosses cita
e che hanno dato un significativo contributo alla millenaria riflessione sulla religione.
sabato 9 luglio 2016
La crisi nell'analisi di Marx - R.Bellofiore, L.Casarini, D.del Bello
venerdì 8 luglio 2016
Pace: una storia lunga e tormentata, tra idee e realtà*- Emiliano Alessandroni intervista Domenico Losurdo
*In un’intervista esclusiva per il nostro sito (http://www.marx21.it/), Domenico Losurdo,
Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo
libro, “Un mondo senza guerre”.
Iniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D.
Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle
tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel
lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a
cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza
(cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010).
Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?
Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.
Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.
Nel tuo libro presenti, in relazione al tema della pace, un quadro della storia più complesso e intrecciato di quello che, di consuetudine, tende ad offrire il manicheismo della logica binaria: il cammino dell'umanità più che da scontri tra ideali di pace e ideali di guerra, appare scandito, soprattutto dopo l'avvento dell'età moderna, da conflitti tra diversi ideali di pace. Potresti illustrarci concretamente questo tipo di dialettica?
Alcuni decenni prima della rivoluzione francese a parlare di «pace perpetua» era l’abate di Saint-Pierre, che però intendeva far valere tale ideale solo per le potenze civili e cristiane dell’Europa. Esse erano chiamate a rappacificarsi e ad allearsi in modo da fronteggiare meglio i «turchi», i «corsari d'Africa» e i «tartari»; combattendo contro i barbari, esse potevano persino trovare «le occasioni per coltivare il genio e i talenti militari». Facciamo un salto di quasi due secoli. Nel 1907 il Premio Nobel per la pace era assegnato a Ernesto Teodoro Moneta (l’unico italiano insignito di tale riconoscimento), che quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», Moneta aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», che legittimamente scaricavano «le loro energie esuberanti nel continente africano», e ciò «nell’interesse stesso della pace europea» (e occidentale). Ecco la prima distinzione che s’impone: si tratta di vedere se l’ideale della pace perpetua sia declinato in modo universalistico. In caso contrario esso può divenire una micidiale ideologia della guerra: negli USA della seconda metà dell’Ottocento, i campioni del Manifest Destiny e dell’espansionismo coloniale nel Far West si sentivano legittimati a decimare o annientare i nativi, considerati razze inguaribilmente bellicose che ostacolavano l’avvento della pace perpetua. Non si tratta di un capitolo di storia remota e senza alcun rapporto con il presente: ancora ai giorni nostri le infami guerre coloniali o neocoloniali che in Medio Oriente hanno distrutto interi paesi, provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono state presentate come operazioni di «peace-keeping» ovvero di «polizia internazionale»! Ma per avere un’idea di cosa si tratta, vediamo in che modo un filosofo di fama internazionale (Todorov) ha descritto il regime change imposto in Libia nel 2011: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverate al regime che i macellai della NATO erano decisi a rovesciare. Una brillante operazione di «mantenimento della pace»!
giovedì 7 luglio 2016
mercoledì 6 luglio 2016
Il programma minimo. Per la classe e i comunisti in una fase non rivoluzionaria* - Enzo Gamba, Gianfranco Pala

programma massimo del comunismo. Oggi è palese la
mancanza di ogni presa di conoscenza di massa dell’analisi marxiana, pratica e
teorica; questo è il significato da dare alla perdurante fase non
rivoluzionaria, in un’attesa di lotta profonda per ritrovare tempi meno bui.
Qui si mette implicitamente a confronto la strategia del
programma massimo del “partito” comunista, per cui è essenziale l’appendice che
include la Critica al programma di Gotha di Marx, perché quel partito aveva
progettato una strategia “operaia” con un programma inadeguato. Similmente,
Engels, elaborò una critica di opportunismo che riaffiorava nell’incoerente
programma del partito operaio tedesco di Erfurt. La distinzione fra un
programma strategico comunista e uno tattico di rivendicazioni così“minime”che
sono tutte interne alle regole capitalistiche borghesi, ma che nonostante ciò
sono irrealizzabili con i rapporti di forza esistenti, è quindi centrale. Marx
e Engels chiamarono “minimo” quello del Partito operaio francese del 1880,
scrivendone le considerazioni introduttive: in tale circostanza Marx – di
fronte alle parole di un “massimalista” ante litteram, Guesde, che negava l’importanza
delle lotte per le riforme da parte dei comunisti, entro e contro il potere
borghese – sbottò spazientito esclamando che se quella politica rappresentava
il marxismo, “tutto quel che so, è che io non sono marxista”.
[...]Come
narrava il mito dell’Araba fenice, che risorse dalle proprie ceneri, è
possibile che nel punto di maggiore arretramento dei rapporti di forza del
proletariato mondiale, Marx stia assumendo un nuovo fascino? Già dal 2008 le
vendite [per la lettura e lo studio è un altro affare – gli anni 1960-70 in
Italia o Francia lo attestano] dei suoi testi più noti sono aumentate
sensibilmente ovunque e, secondo un sondaggio del 2005 commissionato dalla Bbc,
egli è risultato essere il filosofo-rivoluzionario più importante della storia
nell’opinione degli interessati. Questo risultato, alquanto stupefacente [...
sit venia verbo!] va analizzato tenendo anche in considerazione il fatto che,
le nuove generazioni, nate dopo la fine dell’Urss, hanno svincolato gli scritti
del tedesco dall’esperienza politica dei paesi appartenenti all’area ex
sovietica. Peraltro, la recente pubblicazione del testo di Piketty – che, sia
chiaro, del Capitale mantiene solamente il titolo, assumendo una impostazione
teorica palesemente keynesiana – deve una gran parte del successo planetario
proprio al mercanteggiamento (nei fatti ogni riferimento effettuale è del tutto
insussistente) degli scritti del materialista dialettico di Treviri. [Nel
nostro ambito, l’uscita del volume Perla critica – dell’economia politica,
secondo Marx (a cura di Gianfranco Pala), ed. la Città del Sole, 2014, ha
incontrato un interesse significativamente superiore alle attese, stimolando
dibattiti e presentazioni in meno di un anno in decine di sedi, di partito, di
collettivi varii, o anche attraverso emittenti radiofoniche].
La crisi e la sua negazione
martedì 5 luglio 2016
La Nakba - Joseph Halevi
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/07/israelepalestina-alle-radici-del.html
http://177ermanno.blogspot.it/2013/07/intervista-dellism-ilan-pappe.html
https://invictapalestina.wordpress.com/2016/07/12/stato-attuale-ed-origine-del-conflitto-tra-israele-e-la-palestina-breve-riassunto-per-le-scuole-medie/
lunedì 4 luglio 2016
Classi e lotta di classe dopo la “crisi del marxismo”?* - Alessandro Mazzone
Da: http://www.proteo.rdbcub.it/ [1]
1. In nessun Paese europeo quanto in Inghilterra
il senso della gerarchia sociale è presente immediatamente nel medium di
ogni incontro e comunicazione - la lingua. Non solo diversa ricchezza di
sintassi, vocabolario, registri espressivi distinguono i ceti, ma già
la pronuncia di ogni parola e frase (pronuncia, le cui differenze
“verticali”, appunto di appartenenza a strati superiori o inferiori, sono più
importanti di quelle “orizzontali”, di regione). Questo biglietto da visita che
si manifesta col solo aprir bocca, immediatamente, è un tratto tipico, che, nel
centro primo del capitalismo e del maggiore impero moderno (anche se ora
subordinato al cugino-nemico statunitense), si chiama appunto class;
e poiché è evidente e onnipresente, non c’è - di solito - alcun bisogno di
dirlo.

Ma nello stesso tempo, l’uso della parola class, nell’inglese
corrente, ricorda anche che in quel Paese il movimento operaio, pur forte e
glorioso in certe fasi, è rimasto quasi sempre subalterno; e che il concetto e
sentimento dell’autonomia di classe dei lavoratori, morale prima ancora che
politica, è rimasto, colà, marginale. Il senso proprio di “classe”, che appunto
non significa appartenenza a un certo gruppo, categoria, ambiente, ma si
riferisce ai rapporti di produzione e alla forma capitalistica della
riproduzione sociale complessiva [2], non è entrato, là, nel
senso comune. [3] E proprio perciò, che ci siano “classi” - nel
senso di stratificazioni, di un alto e un basso a lor volta graduati, e
di una potenza e miglior qualità inerente all’ “alto” è, invece,
fortissimamente, nel senso comune, (di cui massimo e miglior testimonio è
appunto la lingua). Infatti, “class” tutto significa,
dalla evidente e ammessa superiorità dei ricchi e potenti - la upper
class (noi diciamo talvolta “i padroni”, ma quest’espressione non
riconosce superiorità!), alle classificazioni più o meno fondate di varie
teorie sociologiche, e poi anche giù giù fino a quelle vanità
sciocchistico-pubblicitarie, per cui una certa automobile o un paio di scarpe
esprimerebbe la vostra “classe” (buon pro’ vi faccia...) - E non è un caso,
probabilmente, che sempre l’inglese corrente, solo fra le lingue europee
(dall’italiano al francese al tedesco al russo...) non abbia
due termini per dire “popolo” e, invece “gente”. Tutto quanto è people,
“la gente” “gli individui al plurale” - in buona armonia, a pensarci bene, con
quell’altro aspetto: poiché dove tutto è class, insieme gerarchia,
strato, ceto, stile di vita, come può esserci e agire, ed esser soggetto
politico in opposizione ai suoi dominatori, un’ entità che sia non lower
class, o plebe, ma davvero “popolo”? [4] - Così. anche in questi tratti del linguaggio
si manifesta la egemonia plurisecolare della borghesia inglese [5].
domenica 3 luglio 2016
Critica della retorica democratica - L. Canfora, A. Burgio
"Storia
della democrazia tra la Rivoluzione francese e la fine dell'Unione Sovietica"
Leggi anche: http://www.linkiesta.it/it/article/2016/07/01/luciano-canfora-la-tentazione-dei-liberali-e-togliere-il-voto-alla-gen/31033/
http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/marx-e-la-rivoluzione-del-1848-irene.html
Leggi anche: http://www.linkiesta.it/it/article/2016/07/01/luciano-canfora-la-tentazione-dei-liberali-e-togliere-il-voto-alla-gen/31033/
http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/marx-e-la-rivoluzione-del-1848-irene.html
LA FORMA-VALORE - Stefano Garroni

Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/09/la-formavalore-capitale-libro-1.html
https://www.facebook.com/notes/ermanno-semprebene/denaro-capitale-plusvalore-ernest-mandel/997311033646495?pnref=story
sabato 2 luglio 2016
Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève - Marco Filoni
Leggi anche: https://www.academia.edu/9890147/Marco_Filoni_il_filosofo_della_domenica_la_vita_e_il_pensiero_di_Alexandre_Koj%C3%A8ve
Ascolta anche: BODEI E FILONI su Alexandre Kojève: un pensatore di confine ( https://www.youtube.com/watch?v=8sFjwDOS5Vk )
Alexandre Kojève (1902-1968), aristocratico russo
rifugiatosi in Francia, entrò nell’amministrazione francese subito dopo la fine
della guerra. Da quel momento dirà di aver tempo per la filosofia soltanto la
domenica. E infatti “il filosofo della domenica” era il nome con il quale lo
scrittore Raymond Queneau era solito chiamarlo, a partire dagli anni Cinquanta.
Kojève passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’elite della
diplomazia mondiale e dell’alta finanza. Così la sua fu un’attività filosofica
Ascolta anche: BODEI E FILONI su Alexandre Kojève: un pensatore di confine ( https://www.youtube.com/watch?v=8sFjwDOS5Vk )

“semiclandestina”, riservata ai fine settimana, una circostanza che unitamente
al fascino del personaggio ha determinato un singolare destino della ricezione
kojèviana.
Kojève è diventato una sorta di citazione obbligata per gli studi
hegeliani, così come per gli esiti della fenomenologia e dell’esistenzialismo
in Francia. Ma solo diversi anni dopo la sua morte, in seguito alla
pubblicazione di molti suoi testi inediti, vennero alla luce opere con le quali
il dibattito contemporaneo ancora si confronta. Il libro ricostruisce gli ambienti
culturali di provenienza, gli studi, le scelte teoriche fondamentali e la rete
intellettuale entro cui presero forma i primi scritti di Kojève.
Marco Filoni (http://www.ilfattoquotidiano.it/libri/filosofo-della-domenica-vita-pensiero-alexandre-kojeve/)
Ascolta tutto: http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-6ef7cb0a-6ad6-4187-89e7-5abed26aef3b.html
venerdì 1 luglio 2016
L’imperialismo nel XXI secolo* - John Smith**
**John Smith
insegna politica economica internazionale alla Kingston University di Londra.
Il presente saggio è un estratto dal suo libro Imperialism in the Twenty-First Century, Monthly Review
Press, 2016.
Introduzione
La globalizzazione della produzione e il suo spostamento
verso i paesi a basso reddito costituiscono una delle più significative e
dinamiche trasformazioni dell’era neoliberista. La sua forza trainante
fondamentale consiste in quello che numerosi economisti chiamano “arbitraggio
globale del lavoro”: lo sforzo compiuto dalle imprese in Europa, Nord America e
Giappone al fine di tagliare i costi e aumentare i profitti rimpiazzando il
relativamente ben pagato lavoro domestico con manodopera estera a basso costo,
ciò sia attraverso l’emigrazione della produzione (la cosiddetta
“esternalizzazione”) sia tramite l’emigrazione dei lavoratori. La riduzione dei
dazi e la rimozione delle barriere ai flussi di capitali hanno stimolato la
migrazione della produzione in direzione dei paesi a basso reddito, ma la
militarizzazione delle frontiere e il crescere della xenofobia hanno creato
l’effetto opposto sulla migrazione dei lavoratori provenienti da questi stessi
paesi – non fermandoli del tutto, bensì inibendo il loro flusso e aggravando il
già vulnerabile status di serie B dei migranti.
Di conseguenza, le fabbriche
attraversano liberamente il confine USA-Messico e passano agevolmente i muri
della fortezza Europa, così come le merci in esse prodotte e i
capitalisti che le possiedono, mentre gli esseri umani che vi lavorano
non godono del diritto di passaggio. Si tratta di una parodia di
globalizzazione – un mondo senza frontiere per tutto e tutti a esclusione dei
lavoratori.
I differenziali salariali globali, in larga misura derivanti
dalla soppressione della libertà di movimento del lavoro, forniscono un
riflesso distorto delle differenze globali nel tasso di sfruttamento (in parole
semplici, la differenza tra il valore generato dai lavoratori e ciò che viene
loro pagato). Lo spostamento verso sud della produzione significa che i
profitti delle aziende con sede in Europa, Nord America e Giappone, il valore
di tutte le tipologie di attività finanziarie provenienti da tali profitti, e i
livelli di vita dei cittadini di queste nazioni, sono divenuti fortemente
dipendenti dagli alti tassi di sfruttamento dei lavoratori nelle cosiddette
“nazioni emergenti”. È necessario, dunque, riconoscere nella globalizzazione
neo-liberale una nuova e imperialista fase dello sviluppo capitalistico,
laddove “l’imperialismo” è caratterizzato dalla sua essenza economica: lo
sfruttamento del lavoro vivo del Sud da parte dei capitalisti del Nord.
Nella prima parte verranno esposti i risultati di un’analisi
empirica del trasferimento globale della produzione verso le nazioni a basso
reddito, nonché identificato la sua caratteristica fondamentale: il
super-sfruttamento imperialista (1); la seconda parte cercherà di spiegare tale
fenomeno nei termini della teoria del valore di Marx, innanzitutto
ripercorrendo il dibattito degli anni Sessanta e Settanta tra la teoria della
dipendenza e i suoi critici marxisti “ortodossi”, successivamente riflettendo
sulla teoria dell’imperialismo di Lenin e, per concludere, offrendo una
rilettura critica delCapitale di Marx.
Prima parte: globalizzazione e imperialismo
DIALETTICA E TEMPORALITÀ, l’immagine di Hegel nella Dialettica della natura di Engels* - Vladimiro Giacché
2. Dialettica e temporalità
3. Storia e concetto in Hegel un’alternativa teorica
4. Le ragioni di un equivoco (ipotesi per una ricerca)
5. Conclusioni su Hegel ed Engels
Lo scopo del presente lavoro è quello di seguire i
momenti principali del dialogo che Friedrich Engels intrattiene con Hegel nella
sua Dialettica della natura.. Il rapporto di Engels col pensiero
hegeliano presenta un immediato motivo di interesse: la lettura engelsiana di
Hegel è stata il canale principale della ricezione del pensiero di questo per
buona parte della tradizione marxista (Lenin, Lukács e “diamat”, ma anche
Gramsci e Bloch). Lo Hegel di Engels è il pensatore che ha formulato le “leggi
della dialettica”, ed introdotto in filosofia un modo di pensare dinamico che
si adatta perfettamente agli sviluppi delle scienze naturali e storiche, e può
favorirne ulteriori progressi se consapevolmente adottato dagli scienziati.
Ora, l’immagine della dialettica hegeliana che Engels trasmette ai suoi lettori
ha come ingrediente fondamentale la dimensione della temporalità. È
un’immagine, questa, che ha avuto un’enorme fortuna praticamente sino ai nostri
giorni, e che Engels d’altronde condivide con molti esponenti della cultura
filosofica del secondo Ottocento. Nelle prossime pagine tenterò di dimostrare
che si tratta di un’immagine sostanzialmente falsa, che pone in ombra aspetti
decisivi del pensiero di Hegel.
1. Hegel secondo Engels: le “tre leggi della dialettica”
e la dinamicità delle categorie
giovedì 30 giugno 2016
mercoledì 29 giugno 2016
La merce* - Roberto Fineschi
*Da: http://win.ospiteingrato.org/
L’indistinzione di prodotto e merce, ovvero di produzione in genere e forme storicamente determinate di essa, è uno dei limiti fondamentali dei pensatori che precedono Marx, nonché uno degli assiomi più controversi, ma più o meno indiscussi della dominante ideologia/teoria economica ufficiale.
Il concetto di merce è la chiave della teoria marxiana del
“capitale”. La sua complessa definizione implica una serie di nozioni di
carattere filosofico ed economico che trovano poi pieno sviluppo nello
svolgimento della teoria nella sua interezza. Essa è, infatti, detta “forma
economica cellulare”.
La merce è unità immediata di valore d’uso e valore. Essa è, dunque, da una
parte un oggetto utile, caratteristica che non la distingue dal più generico
“prodotto”, in quanto l’utilità è presupposto comune a qualunque forma del
risultato del processo lavorativo – il prodotto – in qualsiasi forma di
organizzazione della riproduzione umana. Questo è il suo “contenuto materiale”,
condizione necessaria ma non sufficiente alla definizione di merce.L’indistinzione di prodotto e merce, ovvero di produzione in genere e forme storicamente determinate di essa, è uno dei limiti fondamentali dei pensatori che precedono Marx, nonché uno degli assiomi più controversi, ma più o meno indiscussi della dominante ideologia/teoria economica ufficiale.
Torniamo alla merce. Oltre che valore d’uso, essa deve
essere anche valore, ovvero avere “forma sociale” storicamente specifica. Se
pare meno controversa la definizione del valore d’uso, da sempre si discute su
quella di valore. Marx la articola in tre passaggi: sostanza, grandezza e forma
di valore. I primi due punti sono affrontati nel § 1 del I capitolo del I libro
del Capitale, il terzo nel § 3.
Una lunga traduzione interpretativa, che
risale, in parte, allo stesso Engels, ha conferito maggiore importanza al § 1,
dove Marx afferma essere il lavoro astrattamente umano la sostanza del valore
ed il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di una merce la sua
grandezza di valore. Lavoro astrattamente umano implica che non si tratti di un
genere determinato di lavoro concreto a creare il valore, vale a dire che non
sono la sartoria in quanto sartoria, o la tessitura in quanto tessitura a
farlo; sartoria e tessitura pongono il valore in quanto figure particolari di
lavoro astrattamente umano, di lavoro umano in genere. Sulla base di queste
pagine parrebbe poter emergere una definizione puramente tecnica del valore,
che si ridurrebbe a una certa quantità di “lavoro contenuto” nel prodotto, da
misurarsi attraverso il dispendio di forza-lavoro ovvero il tempo di lavoro.
Questo tipo di lettura era in qualche modo suggerito dal modo in cui Marx
imposta la questione della “trasformazione dei valori in prezzi” nel IX capitolo
(ma non nel X) del III volume. È più o meno questo che si intende comunemente
con “teoria del valore-lavoro”.
martedì 28 giugno 2016
IL CAPITALE, LIBRO I* - Karl Marx
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
Quest'opera della quale consegno al pubblico il
primo volume, costituisce il seguito del mio scritto Per la critica
dell'economia politica, pubblicato nel 1859. Il lungo intervallo fra
l'inizio e la continuazione è dovuto a una malattia durata molti anni, che ha
interrotto a più riprese il mio lavoro.
Il contenuto di quello scritto anteriore è riassunto nel primo
capitolo di questo volume; e non solo per mantenere il nesso e per
completezza: l'esposizione è migliorata; ogni volta che è stato possibile,
molti punti, prima semplicemente accennati, ora sono stati ulteriormente
sviluppati mentre, viceversa, cose che là erano state sviluppate per esteso qui
sono solo accennate. Le sezioni sulla storia della teoria del valore e
del denaro sono state ora soppresse del tutto, com'è ovvio; tuttavia
il lettore dello scritto precedente troverà nelle note al primo capitolo nuove
fonti per la storia di quella teoria.
Il detto « ogni inizio è difficile » vale per tutte le
scienze. Perciò la comprensione del primo capitolo e
specialmente della sezione che contiene l'analisi della merce presenterà
maggior difficoltà degli altri. Però ho svolto nella maniera più divulgativa
possibile ciò che riguarda più da vicino l'analisi della sostanza di
valore e della grandezza di valore[1]. La forma
di valore, della quale la forma di denaro è la figura
perfetta, è poverissima di contenuto e semplicissima.
Tuttavia, invano
l'umanità da più di duemila anni ha cercato di scandagliarla a fondo, mentre
d'altra parte l'analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più
complicate è riuscita per lo meno approssimativamente. Perché? Perché il corpo
già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. Inoltre,
all'analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i
reagenti chimici: l'uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza
d'astrazione. Ma per quanto riguarda la società borghese la forma di merce del
prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma
economica corrispondente alla forma di cellula. Alla persona incolta, l'analisi
di tale forma sembra aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze: e di fatto si
tratta di sottigliezze, soltanto che si tratta di sottigliezze come quelle
dell'anatomia microscopica.
lunedì 27 giugno 2016
KARL MARX, ZUR KRITIK DER POLITISCHEN ÖKONOMIE* - Stefano Garroni
*Da: http://www.terzapagina.eu/
L’analisi della merce, come lavoro in doppia forma, di valore d’uso – quale risultato di un lavoro reale o di una attività <produttiva> finalizzata – e di valore di scambio, o tempo lavoro o lavoro sociale indifferenziato, è il risultato critico finale della ricerca quasi secolare dell’economia politica classica, che in Inghilterra inizia con W. Petty, in Francia, con Boisguillebert e si chiude, in Inghilterra, con Ricardo, in Francia con Sismondi.
L’analisi della merce, come lavoro in doppia forma, di valore d’uso – quale risultato di un lavoro reale o di una attività <produttiva> finalizzata – e di valore di scambio, o tempo lavoro o lavoro sociale indifferenziato, è il risultato critico finale della ricerca quasi secolare dell’economia politica classica, che in Inghilterra inizia con W. Petty, in Francia, con Boisguillebert e si chiude, in Inghilterra, con Ricardo, in Francia con Sismondi.
Solo apparentemente la pagina di Marx è chiara: che
significa, infatti, lavoro produttivo o finalizzato? Non è questa la caratteristica
di ogni lavoro, che non sia un mero passatempo?
In un senso generalissimo, certamente le cose stanno così, ma appunto alla condizione di attenersi ad un senso generalissimo dei termini, dunque, ad un senso impreciso, vago ed in questo senso estraneo ad un linguaggio, che si voglia almeno comprensibile, se non addirittura scientifico.
In un senso generalissimo, certamente le cose stanno così, ma appunto alla condizione di attenersi ad un senso generalissimo dei termini, dunque, ad un senso impreciso, vago ed in questo senso estraneo ad un linguaggio, che si voglia almeno comprensibile, se non addirittura scientifico.
Ed allora cominciamo a notare che il lavoro, produttore di
valore d’uso, è finalizzato a realizzare una situazione di jouissance o
di Nutznißung, ovvero di piacere, godimento o utilità. Mentre
il lavoro produttore di valore di scambio, sia pure en principe, ha
lo scopo, mediante lo scambio, di realizzare profitto – ed
alla nozione di profitto, si badi, non appartengono di necessità logica né
quella di godimento/jouissance né quella di utilizzabilità
immediata/Nutznißung.
Dunque, la distinzione a cui l’economia politica è
giunta, appunto, è quella tra lavoro come produttore di jouisance o Nutznißung (lavoro
concreto, reale, finalizzato) e lavoro come lavoro sociale
indifferenziato[1], il quale, almeno en principe, è produttore di
profitto (e, ripeto, nel concetto di profitto né è compreso quello di
jouissance, né quello di utilità).Passiamo ora ad un’altra interessante
notazione.
Petty, sottolinea Marx, non si interroga circa la condizionatezza materiale della natura creativa del lavoro, ma lo considera subito nella sua forma sociale generale, in quanto divisione del lavoro ed è da questa concezione che Petty può giungere a scrivere una Aritmetica politica, che è la prima forma in cui l’economia politica si distingue come scienza a se stante.
Petty, sottolinea Marx, non si interroga circa la condizionatezza materiale della natura creativa del lavoro, ma lo considera subito nella sua forma sociale generale, in quanto divisione del lavoro ed è da questa concezione che Petty può giungere a scrivere una Aritmetica politica, che è la prima forma in cui l’economia politica si distingue come scienza a se stante.
domenica 26 giugno 2016
Brexit e fine dell’euro. Il “monito degli economisti” aveva visto giusto* - Riccardo Realfonzo
*Da: http://www.economiaepolitica.it/
Leggi il Monito: http://www.theeconomistswarning.com/2013/09/il-monito-degli-economisti.html
Leggi il Monito: http://www.theeconomistswarning.com/2013/09/il-monito-degli-economisti.html
Già nel giugno 2010, ai primi segni di crisi
dell’eurozona, una
lettera pubblicata daeconomiaepolitica.it e sottoscritta da
trecento economisti italiani e stranieri, lanciò un allarme sul modo in cui
i governi europei reagivano alla crisi e soprattutto sui pericoli insiti nelle
politiche di “austerità” imposte dai Trattati, che avrebbero ulteriormente
depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi
dei debiti, pubblici e privati. Ma quell’allarme rimase inascoltato.
Nel novembre 2013 il Financial Times pubblicò
il “monito
degli economisti”, con il quale insieme ad alcuni celebri studiosi di tutto
il mondo sostenevamo che in assenza di una svolta espansiva e di uno sforzo
concertato per la ricomposizione dei crescenti squilibri macroeconomici,
l’Unione Europea non avrebbe potuto reggere, e la stessa esperienza della
moneta unica si sarebbe esaurita. Il “monito” sottolineava il “carattere
asimmetrico” della crisi, evidenziava i processi di divergenza impetuosi tra
Paesi che traevano vantaggio dal quadro di regole europee (Germania in testa) e
paesi che invece ne subivano le conseguenze. Il “monito” puntava il dito anche
contro “le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere
l’avanzo commerciale, che hanno contribuito per anni all’accumulo di enormi
squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi”.
mercoledì 22 giugno 2016
«Una teoria generale del conflitto sociale». Lotte di classe, marxismo e relazioni internazionali.* - Matteo Gargani intervista Domenico Losurdo
*Da: http://www.filosofia-italiana.net/
Premessa
Rivolgeremo qui alcune domande a Domenico Losurdo,
professore emerito presso l’Università degli Studi di Urbino, a partire dalle
sue due più recenti pubblicazioni La lotta di classe. Una storia politica e
filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013 (abbreviato “LC” e seguito dal numero di
pagina dopo la virgola) e La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo,
guerra, Carocci, Roma 2014 (abbreviato “SA” e seguito dal numero di pagina dopo
la virgola).
Intervista
Gargani:
Nel marxismo italiano,
dal secondo dopoguerra, si possono – con le dovute cautele storiografiche –
rintracciare tre filoni fondamentali. Il primo è quello storicista, ossia il
canone interpretativo del PCI, impostato nelle sue linee essenziali da
Togliatti e ispirato a una lettura di Gramsci quale culmine di un’ideale linea
De Sanctis-Labriola-Croce. Il secondo è quello operaista, la cui simbolica data
d’inizio può esser fatta risalire alla fondazione nel 1961 della rivista
«Quaderni Rossi» e che ha annoverato tra le sue fila personalità differenti per
formazione e provenienza politica come Tronti, Panzieri, Asor Rosa, Negri e
Cacciari. Il terzo è quello del cosiddetto “dellavolpismo” che, attraverso
soprattutto la produzione di della Volpe e Colletti, ha cercato di dare una
lettura in chiave scientifica della Critica dell’economia politica di Marx,
marginalizzandone la produzione giovanile e accentuandone allo stesso tempo la
distanza da Hegel. In che modo ha letto Marx negli anni della sua formazione?
Come colloca la sua interpretazione di Marx rispetto a questi tre filoni?
Losurdo:
Non metterei sullo
stesso piano i tre filoni. Il richiamo a Labriola e ancor prima al Risorgimento
non impedisce a Togliatti di mettere l’accento sulla questione coloniale
(ignorata da Labriola, che celebra l’espansione italiana in Libia) e di
denunciare (con Lenin) la «barbara discriminazione tra le creature umane»,
propria del capitalismo e dello stesso liberalismo. Prendendo le mosse dal
Risorgimento e dalle sue correnti più radicali, Togliatti per un verso respinge
la visione cara a Gobetti per il cui il fascismo sarebbe «l’autobiografia di
una nazione», per un altro verso critica la tesi di Croce, secondo cui
l’avvento della dittatura fascista farebbe pensare a un’improvvisa e
inspiegabile esplosione di barbarie e di follia, sarebbe da paragonare
all’«invasione degli Hyksos».
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