La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
“Ho sempre
pensato che se non riesci a spiegare le grandi questioni economiche in un
linguaggio comprensibile anche agli adolescenti, vuol dire semplicemente che
non le hai capite”
Non si può dire che i fautori delle politiche neo-liberali
non abbiano avuto pazienza: hanno smontato pezzo per pezzo il cosiddetto Stato
sociale, affermatosi in Europa dopo la seconda guerra mondiale in un contesto
mondiale diviso in due blocchi antagonistici, anche per effetto del
protagonismo di una parte importante della popolazione, che aveva partecipato alla
sconfitta del nazi-fascismo.
Ovviamente mi limiterò a descrivere per sommi capi come
questo processo di smantellamento abbia riguardato anche l'università pubblica
italiana, il cui compito avrebbe dovuto essere quello di contribuire, insieme
alla scuola, alla formazione di un cittadino consapevole delle proprie scelte
politiche e in grado valutare criticamente i diversi punti di vista, che si
scontrano nella dialettica sociale. Avrebbe anche dovuto favorire l'ascesa di
almeno alcuni appartenenti alle classi popolari, allo scopo di attutire le
forti differenze sociali e culturali presenti in Italia e di rafforzare le basi
democratiche del paese. Non per caso ho usato il condizionale, perché di fatto
tali compiti non sono mai stati assolti dall'università italiana prima delle
cosiddette “riforme”, ma certamente dopo di esse tali obiettivi vengono
completamente abbandonati ed etichettati come “ideologici”.
*Da "Trattato di economia marxista", Ernest Mandel, Capitolo III, Samonà e Savelli
"La
differenza tra la circolazione delle merci
M/1 - D - M/2
e la circolazione del
denaro
D - M - D/1
consiste dunque in questo: nella circolazione delle merci,
l'equivalenza delle merci M/1 e M/2 che
si trovano ai due poli della circolazione, è la condizione necessaria perché le
due operazioni possano effettuarsi. Nessun produttore semplice di merci può
acquistare merci di un valore superiore a quello delle merci che, per parte
sua, ha prodotto e venduto.
Nella circolazione del denaro, invece, la comparsa
di un plusvalore (D/1-D) è la condizione necessaria perché la circolazione
possa effettuarsi; nessun proprietario di capitale monetario farà 'circolare', 'lavorare', 'rendere' il suo denaro
per vedersi ritornare in tasca esattamente lo stesso ammontare che ne era
uscito!
... Il capitale
ed il plusvalore fanno la loro comparsa solo con lo sviluppo degli scambi e del denaro, e con l'impiego di una
maggiore produttività media del lavoro, non più per consentire a tutta la società di realizzare una
economia di tempo di lavoro, ma per assicurare a una parte della società i prodotti di questa accresciuta
produttività, sottoponendo a uno sforzo di lavoro sempre più duro l'altra parte
della società. Il capitale è il punto d'arrivo della storia dell'appropriazione
del sovrapprodotto sociale ad opera di una parte della società a spese di
un'altra, e non il punto d'arrivo della storia dell'economia del lavoro umano effettuata
a profitto della società umana nel suo insieme.
L'appropriazione del plusvalore prodotto durante il
processo di produzione presuppone un'economia mercantile, la vendita di merci
prodotte da produttori non proprietari dei prodotti del lavoro." Il plusvalore
è, in questo senso, la forma monetaria
del sovrapprodotto sociale."
*Da "Trattato di economia marxista", Ernest Mandel, Capitolo II, Samonà e Savelli
"Il sistema di scambio
generalizzato coincide con gli inizi dell'artigianato professionale
all'interno del villaggio o della tribù. Ma questa specializzazione è una
specializzazione in seno a una comunità
di villaggio. Gli artigiani che abbandonano sempre più il lavoro agricolo
ricevono la sussistenza come ricompensa dei loro servizi. Lo scambio
all'interno del villaggio o della tribù resta dunque rudimentale.
Il produttore di merci non vive più direttamente dei prodotti
del suo lavoro; al contrario, non può sostentarsi che a condizione di disfarsi di questi prodotti. Vive, come dice Glotz degli artigiani
greci dell'epoca omerica, esclusivamente
del suo lavoro.
L'incremento del sovrapprodotto al di là di un limite ristretto
(riserva di viveri) non è il risultato di uno sviluppo autonomo dell'economia.
E' il risultato dell'intervento di pressioni
esterne, economiche (scambio) o sociali (appropriazione del surplus da parte di un potere centrale o
di una classe dominante.
Lo sviluppo di una classe dominante presuppone l'esistenza
di un sovrapprodotto sociale. Mentre un primo sviluppo del sovrapprodotto precede effettivamente qualsiasi costituzione
di una classe dominante, quest'ultima
assicura poi un'espansione maggiore di questo sovrapprodotto e un nuovo
sviluppo delle forze produttive.
...Un rapporto d'equivalenza tra due prodotti, tra due merci,
esige una misura comune, una quantità commensurabile comune. Il valore d'uso di una merce dipende
dall'insieme delle sue qualità fisiche, che ne determinano l'utilità.
L'esistenza di questo valore d'uso è una condizione indispensabile per la
comparsa del valore di scambio:
nessuno, infatti, accetterebbe in cambio del suo prodotto una merce senza
utilità, senza valore d'uso per nessuno. Ma il valore d'uso di due merci,
espresso nelle qualità fisiche , è incommensurabile; non si può misurare con
un'unità comune il peso del grano, la
lunghezza di una tela, il volume dei vasi, il colore dei fiori. Per consentire uno scambio reciproco tra questi
prodotti, bisogna cercare una qualità comune a tutti che possa al tempo stesso
essere misurata e quantitativamente espressa, e che dev'essere una qualità sociale, accettabile per tutti i
membri della società.
Ma se le merci sono il prodotto di un lavoro specifico
determinato, queste merci sono inoltre il prodotto del lavoro umano sociale, cioè di una parte del tempo globale
disponibile per una determinata società, e sulla cui economia la società è
basata, come abbiamo appena indicato. E' questo fatto che rende le merci
commensurabili; è il lavoro umano generale - definito astratto perché viene
fatta astrazione dal suo carattere specifico ... - che è la base del valore di scambio.
...Sul mercato in cui si incontrano i prodotti del lavoro di
villaggi diversi, se non di diverse regioni , i valori di scambio si
stabilizzano d'ora innanzi secondo medie
sociali. Non è il numero di ore di lavoro effettivamente spese per la
fabbricazione di un oggetto a determinarne il valore, ma il numero di ore di
lavoro necessarie per fabbricarlo nelle condizioni medie di produttività della società dell'epoca.
...Il lavoro umano nelle società primitive era un lavoro direttamente sociale. Nella piccola
società mercantile il lavoro individuale acquista il carattere di lavoro
sociale solo indirettamente,
attraverso il meccanismo dello scambio, il gioco della legge del valore.
Con la piccola produzione mercantile non raggiungiamo che
una fase transitoria tra una società retta coscientemente dalla cooperazione
del lavoro e una società in cui la completa dissoluzione dei legami comunitari
non lascia più posto se non a leggi 'obbiettive', cioè cieche, 'naturali',
indipendenti dalla volontà degli uomini, per reggere e governare le attività
economiche."
da sei mesi il governo greco combatte una battaglia in
condizioni di soffocamento economico senza precedenti, per
implementare il mandato che ci avete dato il 25 gennaio.
Il mandato che stavamo negoziando coi nostri partner
chiedeva di mettere fine all'austerità e permettere alla prosperità ed alla
giustizia sociale di tornare nel nostro paese.
Era un mandato per un accordo sostenibile che rispettasse la
democrazia e le regoli comuni europee, per condurre all'uscita finale dalla
crisi.
Durante questo periodo di negoziazioni, ci è stato chiesto
di mettere in atto gli accordi fatti col precedente governo nel
"memorandum", nonostante questi fossero stati categoricamente
condannati dal popolo greco nelle recenti elezioni.
Comunque, nemmeno per un momento abbiamo pensato di
arrenderci, cioè di tradire la vostra fiducia.
dopo cinque mesi di dure contrattazioni, i nostri partner,
sfortunatamente, hanno rilanciato all'eurogruppo di due giorni fa un ultimatum
alla democrazia greca ed al popolo greco.
Un ultimatum che è contrario ai principi fondanti ed ai
valori dell'europa, i valori del progetto comune europeo.
Hanno chiesto al governo greco di accettare una proposta che
accumula un nuovo insostenibile peso sul popolo ellenico e colpisce profondamente
le possibilità di recupero dell'economia e della società greche. Una proposta
che non soltanto perpetua lo stato di incertezza ma accentua persino le
disuguaglianze sociali.
La proposta delle istituzioni include: misure per
un'ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni,
ulteriori riduzioni nel salario minimo del settore pubblico e incremento
dell'IVA su cibo, ristorazione e turismo, eliminando inoltre le agevolazioni
fiscali per le isole greche.
Queste proposte violano direttamente fondamentali diritti
europei, mostrano che riguardo a lavoro, uguaglianza e dignità, lo scopo di
alcuni partners e istituzioni non è il raggiungimento di un buon accordo per
tutte le parti, ma l'umiliazione dell'intero popolo greco.
Queste proposte sottolineano in particolare l'insistenza del
Fondo Monetario Internazionale in una dura e punitiva austerity, e sottolineano
più che mai la necessità per i grandi poteri europei di prendere iniziative che
conducano al termine della crisi del debito sovrano ellenico. Una crisi che
colpisce altri paesi europei e che sta minacciando il futuro prossimo
dell'integrazione continentale.
Amici greci,
in questo momento pesa sulle nostre spalle, attraverso le
lotte ed i sacrifici, la responsabilità storica del popolo greco per il
consolidamento della democrazia e della sovranità nazionale. La nostra
responsabilità per il futuro del nostro paese.
E la nostra responsabilità ci richiede di rispondere
all'ultimatum sulla base del mandato del popolo greco.
Pochi minuti fa alla riunione di gabinetto ho proposto
l'organizzazione di un referendum, perché il popolo greco possa decidere in
maniera sovrana.
Questa proposta è stata accettata all'unanimità.
Domani la la camera dei rappresentanti sarà convocata
d'urgenza per ratificare la proposta del gabinetto per un referendum la
prossima domenica, 5 luglio, sull'accettazione o il rigetto della proposta
delle istituzioni.
Ho già informato della mia decisione il presidente francese
e la cancelliera tedesca, il presidente della BCE e domani una mia lettera
chiederà formalmente ai leader della UE ed alle istituzioni di estendere per
pochi giorni il programma attuale in modo da permettere al popolo greco di
decidere, libero da ogni pressione e ricatto, come richiesto dalla costituzione
del nostro paese e dalla tradizione democratica europea.
Amici greci,
al ricatto dell'ultimatum che ci chiede di accettare una
severe e degradante austerità senza fine e senza prospettive di ripresa
economica, vi chiedo di risponde in maniera sovrana e orgogliosa, come la
nostra storia ci chiede.
Ad una austerità autoritaria e violenta, risponderemo con la
democrazia, con calma e decisione.
La Grecia, il luogo di nascita della democrazia, manderà una
forte e sonora risposta all'Europa ed al mondo.
Mi impegno personalmente al rispetto dei risultati della
vostra scelta democratica, qualsiasi essi siano.
Sono assolutamente fiducioso che la vostra scelta onorerà la
storia del nostro paese e manderà un messaggio di dignità al mondo.
In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che
l'europa è la casa comune dei popoli. Che in europa non ci sono proprietari ed
ospiti.
La Grecia è e rimarrà una parte fondamentale dell'europa, e
l'europa è una parte della Grecia. Ma senza democrazia, l'europa sarebbe
un'europa senza identità e senza bussola.
Vi invito a mostrare unità nazionale e calma e fare la
scelta giusta.
Per noi, per le generazioni future, per la storia dei greci.
Per la sovranità e la dignità del nostro popolo." (Alexis Tsipras)
*Da "Trattato di economia marxista", Ernest Mandel, Capitolo I, Samonà e Savelli
"...né l'agricoltura né l'allevamento procurano istantaneamente il cibo necessario al mantenimento della tribù e occorre una riserva di viveri per coprire il periodo che separa la semina dal raccolto. Per queste ragioni, né l'agricoltura né l'allevamento hanno potuto essere adottati sulle prime come principale sistema di produzione di un popolo, ma fanno la loro comparsa a tappe, sono anzitutto considerati come attività secondaria rispetto alla caccia e alla raccolta di frutta, e per lunghissimo tempo continuano a essere integrati da queste attività, anche quando costituiscono già la base della sussistenza popolare. ...La 'rivoluzione neolitica', per la prima volta dagli albori dell'umanità, sottopone la produzione dei mezzi di sussistenza al controllo diretto dell'uomo: ecco la sua importanza capitale. La raccolta di frutta, la caccia e la pesca sono metodi 'passivi' di rifornimento. Riducono o, nel migliore dei casi, mantengono a un livello dato la somma delle risorse che la natura mette a disposizione dell'uomo su un territorio determinato. L'agricoltura e l'allevamento, viceversa, sono metodi 'attivi' di rifornimento, perché accrescono le risorse naturali disponibili per l'umanità e ne creano di nuove. Con l'impiego dello stesso lavoro, la quantità di viveri a disposizione degli uomini può essere decuplicata. Questi metodi rappresentano dunque un accrescimento enorme della produttività sociale del lavoro umano."
Come certamente sapete, un luogo comune è una frase fatta,
un argomento banale e non motivato. Sapete anche che cos’è uno stereotipo? Le
definizioni che ne danno due dizionari della lingua italiana sono: “Opinione
precostituita, non acquisita sulla base di un’esperienza diretta, e scarsamente
suscettibile di modifica” (Garzanti); “Percezione o concetto rigido e
semplificato o distorto di un aspetto della realtà, in particolare di persone o
gruppi sociali” (Zingarelli). Anche se non ce ne rendiamo conto, viviamo in
mezzo a luoghi comuni e stereotipi che seguiamo senza rendercene conto,
semplicemente perché sono comodi. Ci consentono infatti di avere opinioni su
tante cose, anche senza conoscerle. Capita che, anche quando facciamo
un’esperienza diretta, questa venga falsata dagli stereotipi che abbiamo già in
mente (e che diventano perciò pregiudizi). Gli stereotipi riguardano gli
argomenti più diversi: le donne e gli uomini, le categorie sociali (ad esempio
i carabinieri, bersagli di tante barzellette…), le popolazioni di determinate
regioni (l’avarizia dei genovesi…), paesi e popoli (l’ordine e la disciplina
dei tedeschi…). Luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi, in un certo senso sono
altrettanti gradini di una scala che ci allontana da una conoscenza corretta e
scientifica. La storia – come tutte le altre scienze, sia quelle sociali che
quelle della natura, ciascuna nei suoi campi di pertinenza –può e deve servire
anche a riconoscere e a rimuovere gli stereotipi, un po’ come fal’anticalcare
contro le incrostazioni in bagno e in cucina. In entrambi i casi, ovviamente,
l’efficacia dipende anche dalla durezza delle incrostazioni!
Tra i molti temi sui quali gli stereotipi abbondano, vi è
quello delle migrazioni: tema che nell’Italia di oggi significa soprattutto
l’immigrazione dalla sponda opposta del Mediterraneo, oltre che da altre parti
del mondo.
Nel mondo del XXI secolo è ormai comune l’idea che le grandi
migrazioni non siano un motore primario della società, ma piuttosto una
componente anarchica del cambiamento sociale, la tessera deformata di un
mosaico che non trova la sua appropriata collocazione, un “rumore” di fondo che
disturba il regolare ronzio della vita sociale. In realtà le migrazioni hanno
sempre assolto un ruolo fondamentale nella storia.
L’ultimo secolo, dalla prima guerra mondiale a oggi, è stato
segnato da un percorso irregolare, da politiche contradditorie, dall’impatto
dei grandi shock bellici sui trasferimenti di persone, dalla separazione
dell’oriente europeo dal resto del continente (durante la guerra fredda),
dall’inversione del ciclo migratorio – con l’Europa che da esportatrice diventa
nuovamente importatrice di risorse umane – e dall’impatto profondo del ciclo
demografico. Negli ultimi decenni, dagli anni 70 del Novecento, le politiche
migratorie si sono fatte più restrittive e più selettive, mentre le pressioni
aumentano per ragioni sia demografiche che economiche generate dai divari
Nord-Sud.
La demografia depressa del continente rende dunque
inevitabile un forte aumento dell’immigrazione, che ha sia una funzione di
rimpiazzo generazionale, sia una funzione di risposta alle esigenze del mercato
del lavoro. Nonostante l’attuale crisi economica, infatti, c’è una domanda del
mercato per le qualifiche più modeste, poco remunerate (edilizia, lavori
stagionali agricoli, lavoro manuale nell’industria e nei servizi, come le
pulizie, assistenza agli anziani, ecc.) e scarsamente appetite dalla manodopera
nazionale.
In questo contesto, senza una rilevante immigrazione, le
forze di lavoro scenderebbero dal 226 milioni nel 2005 a 160 nel 2050. Anche
riassorbendo l’attuale disoccupazione e aumentando i tassi di occupazione
femminile, bisognerebbe alzare di 10 anni l’età del pensionamento, in modo che
alla metà del XXI secolo dovrebbero essere al lavoro tre persone su quattro tra
i 60 e i 75 anni (oggi, in quella classe di età è attiva solo una persona su
sette).
Come il Novecento è stato il secolo della grande crescita
della popolazione mondiale, il Duemila sarà quello del suo invecchiamento, con
tempi diversi nelle differenti parti del mondo. Forse dal prossimo secolo si
avrà una decrescita generalizzata, ma nel futuro prossimo la decrescita, se non
corretta da immigrazioni, porterà problemi che saranno tanto maggiori nei paesi
(come l’Italia) ove essa è più intensa.
la proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’ ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Insomma, Bergoglio-Francesco ha la sua originaria ed onesta
ispirazione gesuitico-francescana, abbastanza sociale, la Chiesa cattolica
cerca il riposizionamento in un mondo che cambia con estrema rapidación, come
dice Francesco stesso e in termini di marketing della evangelizzazione i
protestanti usano gli scandali sessuali dei cattolici ed i cattolici censurano
il loro smodato amore per il denaro. Il senso finale dell’enciclica infatti, è
quello che il denaro ordina ciò che dovrebbe ordinare l’etica della relazione
alla luce di una concezione complessa dell’uomo e del mondo. Questo i giornali,
più di tanto non lo sottolineano e così Obama può plaudire il papa verde
riducendone la policromia delle tesi ad una frequenza sola. (P. Fagan)
(Questo discorso è stato tenuto da Yanis Varoufakis al Forum
Ambrosetti il 14 marzo 2015)
Marzo 1971. L’Europa si prepara al ‘Nixon Gold Shock’, e
comincia a progettare una unione monetaria europea, più vicina al Gold Standard
che al sistema di Bretton Woods, ormai al tramonto. È in questo clima che
l’economista Nicholas Kaldor, dell’Università di Cambridge, pubblica un
articolo su The New Statesman. Cito:
… sarebbe un errore pericoloso credere che un’unione monetaria
ed economica possa precedere un’unione politica; o illudersi che l’unione
monetaria funzionerà (secondo i termini del rapporto Werner) “da catalizzatore
per l’evoluzione dell’unione politica, della quale nel lungo termine non potrà
comunque farne a meno”. La creazione di una unione monetaria e di una aurorità
comunitaria di controllo sui bilanci nazionali genererà infatti pressioni tali
da portare il sistema al collasso; questo condurrà ad una brusca frenata del
processo d’integrazione politica, invece di accelerarla.
Purtroppo, il lungimirante avvertimento di Kaldor fu
ignorato; si preferì un retorico ottimismo sul tema dell’unione monetaria
capace di creare legami più profondi fra le nazioni europee. Anche un’eventuale
crisi del settore finanziario (come quella del 2008), avrebbe costretto i
dirigenti europei a pervenire all’unione politica, comunque necessaria.
*Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole
Contrapposta ad una versione 'naturalistica' del marxismo, la concezione kantiana - così difficilmente riconducibile alla compattezza di un unico disegno - poteva offrire ad un ambiente politico-culturale, scosso in alcune sue convinzioni fondamentali (valga per tutte la fiducia che lo svolgersi del sistema capitalistico avrebbe funzionato quale 'naturale' introduzione all'evoluzione in senso socialista dei rapporti sociali), la possibilità di un ancoraggio teorico più duttile, più articolato.
In questo senso, l'enfasi kantiana sulle 'dissonanze' dell'esperienza poteva servire assai bene a combattere le sicurezze di certo materialismo, che in realtà appiattiva sia la lezione di Darwin che quella della tradizione dialettica.
(S. G.)
"da una lettera...del 12 maggio 1895, apprendiamo ... che già Engels (attribuiva) all'influenza (dell') ambiente neokantiano ... l'incapacità dei giovani socialisti tedeschi di 'estrazione intellettuale' a capire il modo di validità delle categorie e i concatenamenti dimostrativi del Capitale."
(B. Besnier, "Conrad Schimidt e l'inizio della letteratura economica marxista")
"La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere
dello Stato, e ne fa uso, per "regolare" il salario, cioè per
costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per
prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado
normale di dipendenza. E’ questo un momento essenziale della cosiddetta
accumulazione originaria" [...]
"I vari momenti dell’accumulazione originaria si
distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra
Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII
quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema
coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico
moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come p. es. il
sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza
concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il
processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione
capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni
vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza
economica"
[Marx, Il capitale. Critica
dell’economia politica]
...Il mio Marx, è bene confessarlo subito, è sempre e ancora il
Marx della teoria del lavoro astratto, della teoria del valore e del
plusvalore, della teoria del denaro: più precisamente, della costituzione
monetaria del comando capitalistico sul lavoro vivo, e della lotta delle classi
innanzi tutto nel cuore della produzione. Ma, è bene confessare anche questo:
proprio questo Marx a cui mi riaggancio, e di cui non saprei fare a meno, è per
me un Marx problematico, un Marx pieno di questioni irrisolte cui occorre
sempre e di nuovo tentare di dare risposta. Un Marx, dunque, dove i lavori sono
perennemente in corso. E’ proprio per questo che fare la storia «a ritroso» è
utile ed essenziale, e apre prospettive inedite. Secondo una metafora che è
quella della spirale più che quella del circolo, qualcosa che ci consegna alla
responsabilità: non solo della nostra interpretazione, ma anche della nostra
ricostruzione in positivo della critica dell’economia politica. Fare la storia
a ritroso significa, in realtà, proprio questo: partire dai problemi che noi ci
troviamo squadernati davanti oggi, e significa partire dall’ipotesi di
soluzione che noi intendiamo sperimentare, per far così emergere quegli
interrogativi con cui interrogare gli autori del passato per aiutarci nella
ricerca. Da questo punto di vista, si deve dire, non conta tanto la fedeltà
«filologica» a quello che pensavano gli autori di se stessi. Contano mille
volte di più gli strumenti e le categorie e le piste che questi autori ci hanno
lasciato e che sta a noi saper sfruttare. Un metodo questo che non dovrebbe
risultare poi così strano, visto che è lo stesso impiegato da Marx nelle sue
Teorie sul plusvalore quando ingaggia un confronto con l’economia politica
classica di Smith e Ricardo.
Lo studio che
presento è la continuazione organica di una ricerca iniziata da alcuni anni che
ha dato i suoi primi frutti nel volume apparso alcuni anni fa dal titolo
Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del
“capitale”. Tenendo conto del legame esplicito valgono qui le stesse tre
premesse di carattere generale allora introdotte.
Nella voce Karl Marx per il dizionario enciclopedico Granat
Lenin scriveva: «Il Marxismo è il sistema delle concezioni e della dottrina di
Marx» [Lenin (1914): 9], proseguendo poi con un’esposizione dei principi
generali e concludendo con un capitolo sulla tattica del proletariato. Non intendo
certo pronunciarmi qui su Lenin come personaggio storico, politico o come
pensatore; limitandosi però a questa affermazione, mi pare si possa sostenere
che egli operi una forzatura che è stata poi propria di tutta una tradizione,
alla quale sono appartenuti anche gli oppositori di Lenin. Definirei, infatti,
più propriamente il marxismo come “una prassi politica ispirata alle concezioni
ed alla dottrina di Marx”. La teoria del modo di produzione capitalistico
elaborata da Marx non è infatti – né può essere – immediatamente una teoria
politica; si tratta piuttosto della ricostruzione, ad un altissimo livello di
astrazione, del funzionamento “epocale” della società borghese, che implica
delle linee di tendenza, delle forme di movimento, ma immediatamente non una
politica. Ciò non per negare le esplicite prese di posizione di Marx, né che si
possa utilizzare questa teoria con finalità politiche, ma per stabilire: (i)
che la politica, collocandosi ad un livello di astrazione molto più basso, per
essere raggiungibile ha innanzitutto bisogno di una serie di teorie cuscinetto
che il Moro non ha sviluppato, (ii) che quindi la politica non ha a che fare
solo con le forme – che rappresentano l’oggetto essenziale della teoresi di
Marx – ma anche con le “figure”, che sono via via quei soggetti che in
sottoperiodizzazioni della fase epocale si trovano ad incarnarne la forma di
moto. Così, per fare un esempio, lo “operaio massa” è stato legittimamente
ritenuto una figura di movimento della società capitalista, ma la forma di tale
movimento funziona in altre fasi anche con altre figure, proprio perché non c’è
identità fra forma e figura. Così, se facendo politica Marx si rivolgeva
giustamente all’operaio nella fabbrica, ciò non esaurisce lo spettro
d’applicabilità della sua teoria. Se da una parte si guadagna in ampiezza,
dall’altra si perde in precisione (necessità di teorie cuscinetto).[1] Più in
generale, si può sostenere che a livello politico si agisce inevitabilmente con
le figure, ma una cosa è la tattica ed altra la teoria del modo di produzione
come fase epocale.
Così, Marx ed il marxismo non possono essere la stessa cosa
ed è inevitabile che si debba parlare di “marxismi”, al plurale.[2] Questi
hanno la loro dignità storica e, nel bene e nel male, rappresentano un momento
importante – se non imprescindibile in certi casi – della storia recente, ma si
stia attenti a non operare fuorvianti appiattimenti. Gli oggetti d’indagine
sono, infatti, due. Non si deve d’altronde compiere l’errore opposto, ossia
credere che non sia lecito stabilire quanto i vari marxismi siano stati fedeli
alle indicazioni date da Marx: che non ci sia identità fra forma e figura non
significa neppure che ogni tentativo di applicazione politica vada bene. Come
sempre occorre mostrare le mediazioni (o eventualmente l’assenza di esse).
Credo che
per comprendere il significato profondo della beatificazione di Oscar Arnulfo
Romero (1917-1980), celebrata come un evento mediatico volto a rilanciare
l'immagine positiva della Chiesa cattolica in America Latina, dobbiamo partire
da una ben nota riflessione di Antonio Gramsci: "Ogni religione, anche la
cattolica (anzi specialmente la cattolica, appunto per i suoi sforzi di rimanere
unitaria “superficialmente”, per non frantumarsi in chiese nazionali e
stratificazioni sociali) è in realtà una molteplicità di religioni distinte e
contraddittorie..."
A mio
parere, in generale ciò significa che, se vuole restare un'istituzione
universale e continuare a giocare un ruolo internazionale, la Chiesa cattolica
deve accogliere in sé istanze diverse, anche contrastanti, provenienti dalle
diverse entità regionali, dai differenti strati sociali, dalle difformi
sensibilità culturali, benché non sempre abbia intenzione o alla fine non sia
in grado di dare ad essi risposte concrete.
Un altro
elemento importante e utile per approfondire l'argomento lo ricaviamo dal
concetto di “modello di santità”; concetto utilizzato dagli studiosi del
cristianesimo per contestualizzare storicamente e culturalmente le scelte
operate dall'istituzione ecclesiastica per individuare coloro che possano
rappresentare al meglio lo stile di vita santa, che essa propone e che si fonda
sull'imitazione della vicenda umana di Cristo.
Da "Dialettica e differenza", Stefano Garroni, La città del sole
"Ciò che qui [nella società civile, dunque nella sfera dei rapporti economici moderni o capitalistici] abbiamo di fronte è il mondo dell'apparizione, dell'apparire; Questa sfera è solo apparizione perché i principi non sono nella loro verità, non sono nella loro unità, identità, ma sono reciprocamente contrapposti nella loro diversità ed autonomia; e ciò non è il vero. Ma è al tempo stesso l'universalità che in essi appare, e questo apparire dell'universalità, nella particolarità è ciò che di interessante e di essenziale abbiamo da esaminare... Ciò che è meraviglioso [nell'ambito della società civile] è l'interiore necessità per cui ognuno crede di lavorare per sé, ma l'egoismo si rovescia, e nel lavoro per il proprio fine realizza i fini degli altri." (G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto)
...I margini del gioco, che si aprono alla determinata contrattazione nella compra-vendita della forza-lavoro, danno a me - singolo lavoratore -, che in essa son coinvolto, il senso che quella del salario sia una partita dall'esito non scontato, ché piuttosto è da me che esso dipende: dalle abilità che posseggo, dall'alacrità che testimonio, dalla disponibilità mia al sacrificio, alla costanza. Se, dunque, quella partita si chiude male per me, son io stesso chiamato in causa, è la solidità della mia personalità, che è in questione. Pur se in qualche zona della mia coscienza è presente la consapevolezza che i limiti, entro cui è contenuto il 'gioco' della contrattazione, prescindono da me e dipendono da vicende e situazioni, su cui non ho presa alcuna, proprio questa loro 'distanza', questa loro 'imprevedibilità', 'inafferrabilità', fanno sì, che essa resti sempre sullo sfondo - quasi un inefficace sottinteso.
Eppure, l'analisi economica - ma questo vuol dire l'assunzione di una prospettiva, che non è più quella del lavoratore in quanto singolo, in quanto coinvolto da persona determinata nell'esperienza della contrattazione - mi dice che è legge economica la sostanziale stabilità del salario medio e che, dunque, lo scacco dei miei sforzi è sostanzialmente pre-scritto.
Ma ciò significa due terribili conclusioni: che la realtà effettiva del mio impegno contrattuale prescinde da me, essendo orientata da forze, affatto estranee al mio controllo; e che, addirittura, quella media salariale sostanzialmente stabile è attraverso i miei sforzi - e quelli dei tanti singoli lavoratori -, che va affermandosi. Sono io stesso, insomma, che conduco i miei sforzi al loro scacco; paradossalmente, in quanto si inscrive nella cornice dell'organizzazione capitalistica, il senso di responsabilità scade a moralismo, ad illusoria prospettiva. Peggio: si riduce a momento di quell'hegeliano "universale brulichio", attraverso cui si realizza la regola o 'necessità' capitalistica.
...sviluppando l’analisi di Adam Smith, anche l’altro padre
nobile dell’economia liberale, David Ricardo, già agli albori del
diciannovesimo secolo non poteva più dare credito alla tesi
mitologico-religiosa della mano invisibile delle leggi del mercato le quali,
lasciate liberamente operare, avrebbero automaticamente risolto ogni
squilibrio. Tanto più che le contraddizioni dell’economia capitalistica
continuavano ad aumentare insieme allo sviluppo della moderna plebe.
Ciò porta
Ricardo alla celebre tesi che la ricchezza sociale è come una torta – la cui
grandezza è data in una certa epoca storica – che deve essere spartita fra le
tre componenti fondamentali della società capitalista: i rentiers, i
capitalisti e i lavoratori salariati.
Dunque la parte della ricchezza sociale di cui si appropriano
i lavoratori è necessariamente inversamente proporzionale a quella che si
intascano i rentiers – oggi essenzialmente i finanzieri – e i capitalisti, con
buona pace degli odierni cantori della concertazione e del comune interesse
nazionale.
È, dunque, il conflitto sociale e non la presunta
concertazione a decidere come verrà spartita la torta e se si lascia fare alle
leggi del mercato ad avere la meglio saranno sempre coloro che possono
permettersi di acquistare la forza-lavoro e non coloro che sono costretti a
vendere, perché i primi possono attendere di trovare i migliori offerenti,
mentre i secondi hanno la necessità immediata e assoluta di vendere, pena
l’impossibilità di riprodursi come classe sociale.
*Da "tracciati dialettici (note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa
"<Da premesse contraddittorie, qualunque conclusione è inferibile> Interpreto questo enunciato come un divieto, come l'indicazione di una 'mossa' proibita: ed è proprio per questo, che lo indico con R - in quanto 'regola grammaticale' del calcolo logico. Insomma, attribuisco ad R questo senso: enunciati costruiti secondo il modello indicato, non sono corretti perché renderebbero impossibile il calcolo logico; il divieto implicito in R va rispettato, se l'obbiettivo è giocare quel gioco determinato, detto 'calcolo logico'. Ma rientra la dialettica dentro 'questo' gioco determinato?..."
L’espansione del capitale ha alterato equilibri precedenti,
e non è dimostrabile che costituisca un “progresso”, giacché dovunque arriva
produce sottosviluppo e povertà crescente, oltre che disintegrazione sociale e
distruzione di civiltà. Non solo, ma questi risultati sono necessari alla
sussistenza del meccanismo di accumulazione del capitale stesso. Tanto che al
periodo di rapina nelle regioni del mondo non capitalistiche succede al
presente una tendenziale riduzione al sottosviluppo di zone già capitalistiche,
all’interno delle società cosiddette avanzate o nel pianeta. Così vediamo
ridotti al rango di colonie grandi paesi già liberi e semicapitalistici, e
all’interno del cosiddetto Occidente si riproducono rapporti di lavoro che
credevamo appartenere al passato (sfruttamento dei minori) o addirittura al
lontano passato (riduzione in schiavitù). Non si tratta di fenomeni marginali,
ma della stessa essenza del sistema del capitale al livello più “sviluppato”. L’imperialismo
conduce oggi a una sorta di ricolonizzazione, che parte dalle sfere già
colonizzate ma tende ad allargarsi generalmente. La questione se questo
processo sia ulteriormente possibile è tutt’uno con la domanda se vi sia spazio
per una ulteriore sopravvivenza del sistema che lo postula.
In Italia,
nonostante la finanza,
la tecnologia e
la manodopera il
capitalismo non riuscì
a svilupparsi. Mancava ciò che
Machiavelli esortava a mettere in forma al più presto: uno Stato. È infatti lo
Stato ad operare una prima violenta sincronizzazione delle diverse temporalità
storiche, a produrre, come effetto della concentrazione della Gewalt (violenza
· autorità · potenza) e come reazione alle lotte di emancipazione dei serventi,
lavoratori formalmente liberi
e contrattualizzazione dei
rapporti di lavoro.
Prodotti gli individui
e trasformati in proletari una parte di essi, bisognava disciplinarli al
lavoro: distruggere i precedenti rapporti
consuetudinari e imporre
il diritto astrattamente
uguale in quella
che sarà la lunga
guerra dei Cent’anni contro i diritti collettivi.
Delle lotte operaie hanno così indirettamente messo in
essere una maggiore concentrazione operaia e
quindi anche una
maggiore potenza di
classe. Diversamente, lo
sviluppo tecnologico può permettere anche
una disintegrazione dei
grandi concentramenti operai,
dando luogo a una
centralizzazione finanziaria e
produttiva senza concentrazione di
operai. In questo
caso è il capitale a trovarsi in una posizione di forza,
complice l’ideologia del progresso e lo sviluppo tecnico.
«Questa è la
ragione – scrive ancora Marx
nella Prefazione (Das Kapital) – per
la quale in questo volume ho dato un posto così
esteso, fra l’altro, alla storia, al contenuto e ai risultati della
legislazione inglese sulle
fabbriche».
Se una massa
di proletari era così stata prodotta attraverso la dissoluzione del
sistema feudale, bisognava ora disciplinarla, farla muovere al tempo
cronometrico del mercato: