venerdì 13 marzo 2015

FUNZIONI DELLO STATO - DISTINZIONE FORMALE LOGICA ANALITICA - Stefano Garroni


"L'essenza dello Stato è l'universale in sé e per sé, la razionalità del volere. Ma, come tale che è consapevole di sé e si attua, essa è senz'altro soggettività; e, come realtà, è un individuo. La sua opera in genere, - considerata in relazione con l'estremo dell'individualità come moltitudine degli individui, - consiste in una doppia funzione. Da una parte, deve mantenerli come persone, e, per conseguenza, fare del diritto una realtà necessaria; e poi promuovere il loro bene, che dapprima ciascuno cura per sé, ma che ha un lato universale: proteggere la famiglia e guidare la società civile. Ma, d'altra parte, deve ricondurre entrambi, - e l'intera disposizione d'animo e attività dell'individuo, come quello che aspira ad essere un centro per sé, - nella vita della sostanza universale; e, in questo senso, come potere libero, deve intervenire nelle sfere subordinate e conservarle in immanenza sostanziale." (Hegel)


Nella “Critica alla filosofia del diritto pubblico di Hegel. Introduzione.” Marx, per la prima volta, individua nel proletariato l’unica classe capace di sovvertire l’intero ordinamento della società e dello Stato (la Germania, in quel caso).  Nel linguaggio fortemente dialettico delle sue opere giovanili, Marx così mette a fuoco la condizione proletaria e le potenzialità che ne derivano: “Dov’è dunque la possibilità effettiva   della emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti.”
Contro questa classe “viene esercitata non un ‘ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro”, essa è “in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico” e non può “ emancipare se stessa  senza…emancipare  tutte le rimanenti sfere della società”. Il proletariato è “la perdita completa dell’uomo,  e può dunque  guadagnare nuovamente se stessa  attraverso il completo recupero dell’uomo”.

Nel momento in cui scrive questo articolo per gli “Annali  franco- tedeschi” Marx non ha  ancora intrapreso gli studi di economia cui si dedicherà anima e corpo negli anni successivi: non ha ancora messo a fuoco sul piano scientifico la struttura antinomica della società capitalistica né la centralità della contraddizione capitale – lavoro. In più, è da notare come egli, consapevole della condizione di arretratezza economica e sociale della Germania dei suoi tempi,  parli di “formazione” di una classe: significa che questa classe ancora non è pienamente sviluppata e che solo il suo sviluppo porrà le condizioni perché essa possa svolgere il ruolo storico che Marx le riconosce.
Voglio dire che il problema centrale, con cui Marx si confronta qui, non è ancora quello del superamento di un determinato sistema socio-economico fondato sulla separazione del lavoro dai mezzi di produzione: il tema dell’assoggettamento umano  appare, dunque,  non come  conseguenza   di particolari rapporti di produzione, bensì nella forma dell’opposizione fra l’uomo e lo Stato, fra “società civile” e Stato, fra l’“essenza umana”  e la sua negazione nello Stato – qualsiasi Stato.
E’ nozione di tutti come su questi temi  ( il “giovane Marx”, i suoi rapporti con l’hegelismo, il suo “umanesimo”, la successiva cosiddetta “rottura epistemologica ecc.) siano state scritte moltissime pagine – è sufficiente ricordare Althusser.

Ma è fuor di dubbio, a mio avviso, che in questo breve e difficile testo si possa scorgere un elemento in grado di illuminare un aspetto del pensiero – o meglio, del modo  di pensare – di Marx, che non solo non verrà meno nell’opera successiva, ma che ne costituirà, sempre, lo sfondo e il presupposto: mi riferisco all’originaria vocazione etico- morale di Marx, la stessa che lo avvicina, ma anche lo differenzia,  ad altri scrittori  socialisti o “comunisti” del suo tempo.

Nel parlare di  “vocazione etico- morale “, però, non intendo indicare qualcosa di assimilabile a un sentimento o a un “astratto furore” – per dirla col Vittorini di “Conversazione in Sicilia”: c’è sicuramente del sentimento in Marx, e senz’altro anche del furore e una genuina indignazione, che spesso si scaricano in ironia e sarcasmo, ma non sono questi i fondamenti della sua posizione etica.
Piuttosto Marx, a partire dai suoi primi scritti,  si presenta come il più coerente prosecutore della linea che dall’Illuminismo porta alla Rivoluzione  Francese. Quella linea, cioè, che riconosce nell’uomo (ma c’era già in Vico) l’unico costruttore della propria storia e, dunque, anche dello Stato della società in quanto prodotti storici. La novità di Marx (ma rintracciabile anche in altri) sta però nel suo scorgere che lo stesso Stato che nasce dalla Rivoluzione giacobina, lo Stato ispirato dal “Contratto sociale di Rousseau e portato alle estreme conseguenze dal Robespierrismo di sinistra e dal radicalismo piccolo- borghese di Saint- Just, una volta rovesciati i tiranni si rovescia poi a sua volta al punto da diventare egli stesso un nuovo tiranno. Non per un errore degli uomini: ma per sua intrinseca natura, per una “legge” storica.

Marx, ovviamente, non nega il grande progresso costituito dalla Rivoluzione francese, al contrario:   egli contrappone nettamente lo Stato della Convenzione, e in generale gli Stati a costituzione democratico- rappresentativa, allo Stato  prussiano- tedesco“teologico”, autoritario, censore  e semi-feudale.

Ma, per usare un’espressione del linguaggio comune, quel progresso “non gli basta”. Un altro passo va compiuto sulla strada della liberazione umana, e questo passo corrisponde al superamento dello Stato in quanto tale, condizione sine qua non  perché l’uomo si ritrovi finalmente padrone assoluto di se stesso: non solo nei cieli della teoria ma nella concretezza della sua esistenza effettiva.
Si può parlare di Marx, almeno in questa  fase del suo pensiero, come di un  “anarchico razionale”? Forse a questa domanda si può rispondere affermativamente a patto di porre l’enfasi sul termine “razionale”, vale a dire sulla consapevolezza,  che in Marx è senz’altro presente, che non si tratta di distruggere fisicamente  un apparato più o meno oppressivo la cui semplice scomparsa restituirebbe magicamente agli uomini la completa libertà. Tutt’altro: la libertà umana è un  presupposto, non una conseguenza, del superamento dello Stato. Infatti, solo attraverso l’esercizio della libertà questo processo potrà compiersi: ma non della libertà formale, nemmeno di quella vigente nelle democrazie rappresentative, bensì di quella libertà  che Marx vede come propria dell’essenza umana e che fa degli uomini, in ogni circostanza, dei creatori di se stessi.

Marx, si può dire in anticipo su se stesso, individua  nel proletariato l’iniziatore e il catalizzatore di questo processo. Lo fa ancora prima di diventare propriamente “comunista”, il che comunque avverrà da lì a poco. Lo fa perché crede che l’uomo sia qualcosa per cui valga la pena spendersi: in questo  è un grande erede dell’Illuminismo e ancora in questo sta la sua originaria ispirazione etica.
 Aristide Bellacicco (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni)

L'audio dell'incontro:         https://www.youtube.com/watch?v=-ZEUew5oY3c

giovedì 12 marzo 2015

IL CONCETTO DI “CASO” NELLE LEZIONI SULLA FILOSOFIA DELLA STORIA DI HEGEL* - Vladimiro Giacchè


 Questo ottimo lavoro può spingere qualcuno a interessarsi a questioni difficili ma che sono presenti in modo determinante anche nel pensiero di Marx, come ben sappiamo.
Il progressivo affermarsi (secondo Hegel) della libertà come motore della storia non può avverarsi senza che l’uomo ne abbia coscienza (illuminismo). Ma è chiaro che questo concetto di libertà va tenuto ben distinto da qualsiasi connotazione arbitraria: insomma  non si tratta tanto del fatto che “l’uomo fa ciò che vuole” bensì del fatto che “l’uomo vuole ciò che fa”: e poiché, anche secondo Hegel, l’uomo è un essere razionale, questo permette di rintracciare i moventi razionali della storia stessa. Marx dirà, concordando con Hegel, che l’uomo è il creatore della propria storia, ma aggiungerà che  questa storia l’uomo la costruisce all’interno di condizioni date (limiti naturali, sviluppo delle forze produttive ecc.): sono questi ultimi elementi quelli che Hegel considererebbe “accidentali” o “contingenti”? Inoltre, dove noi scriviamo “uomo” Hegel scrive “Spirito del mondo” e questo va tenuto presente: perché  è proprio l’affermazione dell’essenza spirituale della storia che porta Hegel a dire che  “il reale è razionale ecc.” Ma sono questi i caratteri idealistici del pensiero di Hegel?
Certamente  la "costruzione" della Storia che fa Hegel, come storia di emancipazione umana non può fermarsi al suo sistema come Marx ha evidenziato. Ma è poi vero che Hegel intendesse realmente ciò - contraddicendo se stesso e la sua "opera"- ?
- Il collettivo di formazione marxista Stefano Garroni -     

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*Quaderni del Ponte, 1-2 , gennaio-giugno 1993

1. Cenni sul concetto hegeliano di contingenza

Nella sua Scienza della logica Hegel ci offre la seguente definizione di “contingente”:
“l’accidentale [Zufälliges] è un reale [Wirkliches], che in pari tempo è deter­minato solo come possibile, un reale di cui l’altro o l’opposto è anch’esso. Questa realtà è quindi semplice essere o esistenza, posti però nella loro verità, di avere cioè il valore di un esser posto o della possibilità” (HW 6.205 = tr. Moni-Cesa 614);
ad ideale completamento di questo passo possiamo aggiungere un luogo delle le­zioni hegeliane sulla logica:
“noi consideriamo il contingente come qualcosa che può essere o non essere, che può essere così o essere altrimenti, e il cui essere o non essere, essere così o essere altrimenti non è fondato in lui stesso, ma in altro” (E § 145 Z, HW 8.285= tr. Verra 357; cfr. Gdl § 15 e Handbemerkung);
è evidente in questo luogo la ripresa della trattazione aristotelica dell’argomento: si pensi soprattutto alla seconda delle tre accezioni di contingente distinte da Aristotele nella Metafisica, secondo cui “l’accidente si produce ed esiste, ma non in virtù di se stesso, bensì in virtù di un’altra cosa” (Metaph. D, 1025 a 27). Ma se il contesto del discorso aristotelico si riferiva a due catene causali indipendenti che danno luogo ad un risultato non voluto, H. attribuisce invece immediato va­lore ontologico al concetto di “contingenza”: in altre parole, esistono realtà ed enti che possono dirsi, a differenza di altri, “contingenti”, ossia imperfetti.
In pari tempo, H. stabilisce anche riguardo al problema della contingenza una precisa corrispondenza tra la gerarchia delle forme di natura e spirito e il procedere del conoscere. Infatti, da un lato nel corso del­l’e­sposizione del si­stema possiamo osservare una progressiva depurazione delle forme dalla casua­lità, ossia da isolamento, esteriorità e dipendenza da altro, insomma dalla fini­tezza; ciò risulta particolarmente evidente nel passare dalla natura inorganica alla natura organica, e da questa allo spirito. D’altro lato, ciò vale anche per quel che riguarda lo sviluppo dei momenti del conoscere: infatti anche il percorso che, attraverso la sensazione e la percezione, conduce all’intelletto e da ultimo alla ragione, vede un incremento progressivo della necessità, ossia una graduale liberazione dello “spirito” dalla casualità.

sabato 7 marzo 2015

MARX - Gabriella Giudici


"...il punto centrale riguarda l’economia politica in quanto scienza, e dunque la sua capacità di comprendere la realtà. Il suo vizio di fondo, infatti, consiste nel presupporre ciò che deve spiegare, cioè nel partire dalla proprietà privata come se fosse un dato naturale, facendone valere le leggi come fossero leggi naturali. [...]
«l’opposizione tra non proprietà e proprietà» non assume il carattere di contraddizione se non viene concepita come «opposizione di lavoro e capitale», cioè se non si comprende che il capitale stesso è lavoro, lavoro espropriato dell’operaio. L’emancipazione operaia sarà dunque la riappropriazione di quanto si è perduto per effetto dell’alienazione ed essa significherà la generale emancipazione umana», perché «l’intera servitù umana è coinvolta nel rapporto dell’operaio alla produzione»".
Sta, forse, proprio in questa 'contraddizione', in questa 'negazione' potente che 'blocca', se non superata, il lungo e faticoso cammino dell'emancipazione umana, la chiave di lettura di tutto il pensiero e l'opera di Marx.  In perfetta continuità con Hegel Marx pone il problema, la negazione, che ha da essere risolto, superato, pena l'arrestarsi di quel movimento al tempo stesso contraddittorio e risolutore che caratterizza il 'modus operandi' dello Spirito umano, nel suo lento e faticoso passaggio ad un gradino superiore di civiltà. Il grande processo evolutivo dell'umanità, del formarsi del genere umano, del divenir uomo dell'uomo.
Con questa interpretazione accogliamo il bellissimo lavoro di Gabriella Giudici. Perché è cosi che riconosciamo il 'nostro' Marx... 

- Il collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - 

giovedì 5 marzo 2015

lezioni di volo - Aristide Bellacicco



l gesto di battere le ali presuppone la flessione delle ginocchia: questa è la prima e unica regola che i maestri ci hanno trasmesso. Molti di noi hanno perso il sonno e la serenità  nel tentativo estenuante  di  trovarne una motivazione razionale. Non ve n’è alcuna: i maestri avevano scoperto  il come, non il perché. Vi ricordate le prime riunioni – ancora clandestine, a quei tempi –  che si tennero subito dopo il ritrovamento del Libro dei Voli? C’era un enorme entusiasmo, tutti  eravamo giovani e disposti a dare la vita perché quelle parole si avverassero. Quanti morti! Ventidue soltanto nella prima settimana di tentativi. Raccoglievamo i corpi senza vita sui marciapiedi e, nel buio, li trasportavamo in quello che ora è diventato un monumento nazionale, il Sacrario  dei Caduti per Sbaglio (SCS). All’epoca era solo una vecchia rimessa abbandonata all’estrema periferia della città, che aveva il vantaggio di non essere distante dal luogo dove si tenevano le lezioni e si effettuavano i  lanci: il tetto della Torre di Kan.

martedì 3 marzo 2015

PARTITO E TEORIA* - Stefano Garroni, Mauro Casadio



*Atti del seminario promosso dal Forum dei Comunisti


"Bisogna che l'eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante."                                                    (Gramsci, 'Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce')

 "io non sono nulla e dovrei essere tutto"
(http://gabriellagiudici.it/karl-marx-introduzione-a-per-la-critica-della-filosofia-politica-di-hegel/)

lunedì 2 marzo 2015

Il capitale «apre» i confini: accumulazione e crisi del globale in Rosa Luxemburg - MICHELE CENTO e ROBERTA FERRARI


Un’estrazione che non cessa di affermarsi anche quando il capitalismo sembra ormai privo di un «fuori», di un «non-capitale» da piegare alla sua logica. Nel momento in cui il capitale esercita un dominio esclusivo sul globo, l’accumulazione deve dunque riuscire nella funambolica impresa di creare un «fuori» all’interno del sistema capitalistico.

Non si tratta più un dentro e un fuori geografico, o di un dentro e un fuori temporale, ma di spazi di accumulazione creati sulle possibilità ulteriori di sfruttamento. Una volta diventato globale, il capitale si ritrova infatti con lo stesso problema che segnala Luxemburg: il suo fuori oggi è necessariamente un dentro ma la dinamica di devastazione necessaria per la sua accumulazione rimane la stessa. Ciò di cui Luxemburg sembra consapevole è il fatto che il capitale crea il suo “fuori” innanzitutto impoverendo e immiserendo spazi ulteriori.

Non si tratta qui di una questione geografica, ma di rapporti sociali che il capitale è costretto a riprodurre al suo interno per accumulare. Possiamo dire che l’impoverimento è oggi il nome dell’accumulazione capitalistica, così come lo è la coazione al lavoro di fabbrica in ampie regioni del pianeta.

La violenza politica è qui il veicolo del processo economico: è nel continuo rimando tra queste due facce che si compie il ciclo storico del capitale.

Portare dentro il «fuori» non capitalistico non significa quindi per Luxemburg solamente valorizzarlo, ma piuttosto spremerlo, usarlo: è proprio la devastazione e l’impoverimento il modo di valorizzazione del capitale.

Questo meccanismo perfetto, oliato di sangue e fango, incontra un ostacolo proprio nelle condizioni che esso stesso ha determinato, proprio nel suo processo di valorizzazione distruttiva.

Un campo di battaglia, un luogo di conflitto, dove le resistenze all’introduzione dello sfruttamento capitalistico nei paesi non capitalistici possono saldarsi alle lotte contro gli oliati meccanismi dell’accumulazione nei paesi pienamente capitalistici.

Se la forza del capitalismo risiede nella sua mutevole fenomenologia, la sua debolezza sta nell’inflessibile ostinazione della sua logica. Ed è in questa crepa che nuovi spazi di soggettivazione potranno mettere in crisi la realizzazione dello sfruttamento.

E' anche in questo senso che la rivoluzione è sempre un problema dell’oggi o, se non altro, di quel presente assoluto che la narrazione neoliberale ha estorto alla storia.
(Michele Cento e Roberta Ferrari)

giovedì 26 febbraio 2015

IL "PROBLEMA" MACCHINA. CENNI STORICI* - Stefano Garroni



*Da "Tracciati dialettici (Note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa




"Nella critica al sillogismo, quindi, è presente non solo il rifiuto di certe regole logiche come le uniche, si anche un'enfatizzazione nuova della 'cultura' (intuizione, percezione, evidenza), come elemento costitutivo della trama logica."

mercoledì 25 febbraio 2015

Corso sul "Capitale" (6/7) - Riccardo Bellofiore



    Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).




https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL

LA LOTTA DI CLASSE DOPO LA LOTTA DI CLASSE - Luciano Gallino

1. ESISTONO ANCORA LE CLASSI SOCIALI?


 D. Top manager e leader politici, anche da sinistra, sono di recente tornati ripetutamente sull’idea che parlare degli operai, ovvero dei lavoratori dipendenti in genere, come se fossero una classe sociale sia un ritornello frusto e che la lotta di classe sia un residuo arcaico della rivoluzione industriale. Occorre dunque ragionare sulla società italiana e sulla società globale in termini del tutto nuovi, prendendo atto del fatto che le classi sociali, con riferimento alle quali sono state descritte e analizzate le società sin dalla metà dell’Ottocento, non esistono più?

 R. Bisogna cominciare con una distinzione. Chi afferma che le classi sociali non esistono più muove in genere dalla constatazione che non si vedono più manifestazioni di massa che siano chiaramente attribuibili ad una data classe. Oppure intende dire che non vi sono più partiti di un certo peso elettorale che per il loro statuto o programma si rifanno chiaramente all’idea di classe sociale. In questi casi si può convenire che negli ultimi decenni le classi sociali, e con esse la lotta di classe, sono diventate assai meno visibili. Il che pare dar ragione a chi arriva a concludere che, non essendo le classi visibili e la lotta di classe chiaramente discernibile, non esistono più le classi.
 Però una classe sociale, come disse qualcuno tempo fa, distinguendo tra la classe in sé e la classe per sé, non è delimitata o costituita soltanto dal fatto di dar forma ad azioni collettive in quanto espressioni di un conflitto, o da una forte presenza pubblica di partiti che fanno delle classi e magari della lotta di classe la loro bandiera. Una classe sociale esiste indipendentemente dalle formazioni politiche che ne riconoscono o meno l’esistenza, e perfino da ciò che i suoi componenti pensano o credono di essa. Ricorrendo ad un’espressione che risale anch’essa a parecchio tempo addietro, far parte di una classe sociale significa appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori possibilità di passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa ad una classe più alta; avere maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di risorse, di beni materiali e immateriali, sufficienti a rendere la vita più gradevole e magari più lunga; disporre oppure no, in qualche modo, del potere di decidere il proprio destino, di poterlo scegliere. Per definire una classe, insomma, è necessario ma non basta dire che è una comunità di destino: rientra nella definizione anche la possibilità per chi vi appartiene di poter influire sul destino stesso, di poterlo in qualche misura cambiare.
 Ci sono poi altri motivi che inducono molti, da tempo, ad affermare che le classi sociali non esistono più. Uno di essi è la relativa omogenizzazione dei consumi e dello stile di vita della classe operaia, o classe lavoratrice, e delle classi medie. Le famiglie degli operai e dei muratori, dei magazzinieri e dei conducenti di autobus hanno in molti casi l’automobile, la tv a schermo piatto, il telefono cellulare, la lavatrice, vivono in un alloggio di proprietà, mandano i figli a scuola almeno sino alla fine delle superiori e fanno le vacanze al mare: proprio come le famiglie dei dirigenti d’azienda, dei professionisti, dei funzionari della pubblica amministrazione, dei commercianti, dei piccoli imprenditori che formano la classe media ovvero la piccola e media borghesia, come si chiamava una volta. Qui occorre naturalmente precisare: un conto è lo stile di vita o il consumo di massa visivamente osservabile; altra cosa è la qualità del lavoro che un individuo svolge, la possibilità di crescita professionale, la probabilità di salire nella scala sociale, il fatto di avere o non avere qualcuno sulla testa che dice ad ogni momento che cosa devi fare. In questa prospettiva le differenze di classe rimangono cospicue, anche se a causa della Grande Crisi esplosa nel 2007, e diventata una Grande Recessione che durerà forse molti anni, una parte della classe media ha subito una sorta di processo di proletarizzazione.
 Un altro motivo per affermare che le classi sociali non esistono, che risale ancor più lontano nel tempo, ma che anche oggi si sente riproporre da politici di destra non meno che di centro-sinistra, è grezzamente ideologico. Esso suona così: operai, dirigenti e proprietari hanno tutti interesse a che un’impresa funzioni bene e faccia buoni utili. Sono, si dice, nella stessa barca. Asserire che hanno interessi diversi e quindi appartengono a classi obiettivamente contrapposte è un’idea priva di senso, si sostiene, e anzi dannosa per tutte le parti in causa. Perciò operai e sindacati devono essere “complici” dei manager e dei proprietari: è arrivato a dirlo nientemeno che un ministro del Lavoro italiano, Maurizio Sacconi, rompendo una tradizione che ha visto succedersi in tale carica politici dediti a trovare i modi per regolare il conflitto strutturale tra le due parti, non a camuffarlo. Quasi due secoli e mezzo fa, Adam Smith aveva spiegato perfettamente perché l’idea che operai e padroni possano o debbano essere “complici” non sta in piedi: gli operai, per la posizione che occupano, vorrebbero sempre ottenere salari più alti; i padroni, per i mezzi di produzione che controllano, vorrebbero pagare sempre salari più bassi.

Freud e l'analogia Psichico-Statuale* - Stefano Garroni

*Da "Su Freud e la morale (L'uomo e la società)" Stefano Garroni, Bulsoni editore 


"Il corpo politico, considerato nella sua individualità, può essere considerato come un corpo organizzato, vivente e simile a quello dell'uomo... La vita dell'uno e dell'altro è l'io comune al tutto, la reciproca sensibilità, la corrispondenza interna di tutte le parti. Se questa comunicazione viene a cessare, se viene meno l'unità formale, se le parti contigue mantengono unicamente un rapporto di giustapposizione, l'uomo è morto e lo stato dissolto"     (J:J:Rousseau, Scritti politici, 1, Laterza 1971, pp280-281)


giovedì 19 febbraio 2015

HEGEL - IL SISTEMA - Antonio Gargano

Il mondo fino alla Rivoluzione francese si è retto su meccanismi automatici, che sostanzialmente implicano la prevalenza del più forte, la prevalenza di chi riesce a raccogliere più potere. Hegel vede il carattere nuovo della nostra epoca nata con la Rivoluzione francese nel fatto che l’uomo prende nelle proprie mani il processo di sviluppo dei rapporti sociali e si mette a dirigerlo secondo una progettualità, cioè secondo la ragione: «Dacché il sole è nel firmamento e i pianeti gli ruotano intorno, non si era visto che l’uomo poggia sulla testa, cioè sul pensiero, e, in base ad esso, edifica la realtà [...]. Ora solo l’uomo è arrivato a  conoscere che il pensiero deve governare la realtà spirituale. Fu una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno festeggiato quest’epoca». L’età contemporanea non si è ancora chiusa, noi viviamo ancora nell’età aperta dalla Rivoluzione francese. Il processo che Hegel ha visto iniziare con la Rivoluzione francese non si è ancora compiuto: il mondo umano non è ancora plasmato, anzi purtroppo è ben lungi dall’essere plasmato dalle forze della ragione, dalla progettualità razionale. In una filosofia così forte l’uomo può conoscere tutta la realtà, l’uomo crea una seconda natura, questa seconda natura può essere modellata pienamente dalla progettualità razionale: è chiaro che si tratta di una filosofia ottimistica, possibile in un momento di grande espansione degli orizzonti umani. Quando, nel 1830’48, tutto questo fulgore viene meno, si manifesta chiaramente che la grande speranza dell’emancipazione complessiva dell’umanità non è stata realizzata; nelle barricate del ’48 per la prima volta la borghesia si vede con disappunto contrapposta un’altra classe sociale che le è ostile, il proletariato, e perde la convinzione di poter essere la classe che ha emancipato l’umanità e l’ha liberata definitivamente, inizia un ripiegamento che dà luogo a forme di irrazionalismo, all’esistenzialismo, da cui non si è ancora usciti. [...]

L’Illuminismo ha fallito perché pretendeva di calare ideali dalla mente dei filosofi nella realtà, invece gli ideali li partorisce la storia stessa: la storia è autocontraddittoria e genera da sé il nuovo. Questo è l’aspetto che verrà sviluppato in particolare da Marx. «Ma la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto». La tendenza a separare reale da razionale è una delle funzioni dell’intelletto, cioè della facoltà non pienamente matura dell’uomo che tende a vedere le cose come separate, razionale da una parte e reale dall’altra: la mentalità illuministica. [...]

lo spirito è l’autoconsapevolezza di sé che la natura acquisisce nell’uomo, lo spirito è l’uomo razionale. «Questo possesso di sé dello spirito, questo suo venire a se stesso può dirsi il suo scopo supremo, assoluto, questo soltanto è il suo ruolo e nient’altro. Tutto ciò che avviene in cielo ed in terra, che eternamente avviene, la vita di Dio e tutto ciò che si opera nel tempo, tende soltanto a far sì che lo spirito riconosca se stesso, che si oggettivi a se stesso, che trovi se stesso, che divenga per sé, che si ricongiunga con sé. Lo spirito è sdoppiamento, è estraniamento, ma soltanto per poter ritrovare se stesso». [...]


l’assoluto si rivela nella storia della filosofia, la storia della filosofia culmina nel pensiero hegeliano, Hegel quindi ha la pretesa di essere il momento di autorivelazione dell’assoluto. Hegel in qualche modo questa pretesa l’aveva: lo spirito assoluto culmina nella filosofia e con Hegel l’assoluto arriva all’autocomprensione di sé, quindi il circolo in qualche modo si chiude, il sistema hegeliano ha una sua chiusura. Però Hegel non era ignaro del fatto che altri materiali empirici, altri elementi vitali sarebbero emersi e avrebbero avuto bisogno di una sintesi ulteriore: si può dire 170 anni dopo la sua morte che una sintesi ulteriore poi non c’è stata, quindi finora la filosofia hegeliana rimane la filosofia suprema, cioè la filosofia che è riuscita meglio a sintetizzare in una strutturazione logica coerente tutto il pensiero precedente, tutta la comprensione che l’umanità ha avuto della realtà e del corso storico stesso. Ma si deve rilevare che, se il sistema hegeliano si può considerare una sintesi, è pur vero che il metodo dialettico implica che ogni sintesi si riproduce sempre come tesi e dà luogo a un ulteriore sviluppo storico: Hegel, che è il filosofo del divenire, non pretende di chiudere col proprio pensiero il divenire, Hegel è un filosofo aperto invece sullo sviluppo ulteriore della realtà.

mercoledì 18 febbraio 2015

Una risposta alle "Confessioni di un marxista eccentrico" - Aristide Bellacicco


Confesso – ammetto, è meglio dire – di non aver letto integralmente, fino ad oggi, le “Confessioni” del ministro Varoufakis. Oggi ho avuto tempo e l’ho fatto. In effetti, queste pagine in cui Varoufakis pone se stesso al centro di una vicenda storico-esistenziale con risonanze epocali mi hanno fatto sorgere più di una perplessità.
Le sintetizzo – parzialmente e per punti - qui di seguito.
- 1 Scrive Varoufakis: “Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente, la scoperta di un’…opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due ‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’ questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria.”
Ora, per quanto mi è noto, la doppia natura del lavoro in Marx oppone il lavoro in quanto produttore di “ricchezza” (valori d’uso) al lavoro in quanto produttore di “valore” (rintracciabile nel valore di scambio). E’ chiaro che il “lavoro come attività di creazione di un valore” non può mai essere quantificato in anticipo, perché è solo nella realizzazione del plusvalore (e non nella sua produzione) che viene in chiaro quanto profitto il capitale sia riuscito o meno a realizzare. D’altra parte, è proprio nella riduzione del “lavoro” (ma sarebbe meglio dire della “forza- lavoro”) ad una entità quantificabile che trova la sua ragion d’essere la produzione di valore (e di plusvalore). E ciò, in Marx, è vero sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Risparmio a tutti, e al buon Varoufakis soprattutto, le citazioni arcinote in cui questa affermazione trova riscontro.

martedì 17 febbraio 2015

L'ILLUMINISMO DI FREUD* (2)** - Stefano Garroni



*Da "Su Freud e la morale (L'uomo e la società)" Stefano Garroni, Bulsoni editore 





**Prima parte:
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/lilluminismo-di-freud-stefano-garroni.html

HEGEL - LA FILOSOFIA DEL DIRITTO - Antonio Gargano

«Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell’universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o qualsiasi aspetto assuma la coscienza soggettiva, riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, allora essa si ritrova nel vuoto e, poichè soltanto nel presente v’è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l’idea passa per essere soltanto un’idea, una rappresentazione in un’opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l’idea. Si tratta allora di riconoscere nell’apparenza del temporaneo e del transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale. Invero il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell’esistenza esterna, si presenta in un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e figure; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle figure esterne».

«Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto, p. XIX si trovano queste proposizioni. Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi, e han trovato opposizioni anche da tali che non vogliono si metta in dubbio che essi posseggano filosofia, e di certo, almeno, religione. Per ciò che concerne la religione, non è necessario tirarla in mezzo in questo dibattito, giacché le sue dottrine sul divino reggimento del mondo esprimono quelle proposizioni in modo ben determinato. Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da presupporre tanta coltura che si sappia non solo che Dio è reale,  – che è la cosa più reale e che è la cosa veramente reale, –  ma anche, nel rispetto formale, che l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggiera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di pensare, un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: – l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile, che può non essere allo stesso modo che è. Ma, quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione, giacché in una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l’ho accuratamente distinta non solo dall’accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall’essere determinato, dall’esistenza e da altri concetti. – Alla realtà del razionale si contrappone, da una parte, la veduta che le idee e gli ideali non siano se non chimere, e la filosofia un sistema di questi fantasmi cerebrali; e dall’altra, che le idee e gli ideali siano alcunché di troppo eccellente per avere realtà, o anche di troppo impotente per procacciarsela. Ma la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto, che tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace, ed è tutto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come dev’essere, ma non è: che, se poi fosse come dev’essere, dove se n’andrebbe la saccenteria di quel dover essere? Allorché l’intelletto, col suo dover essere, si rivolge contro cose, istituzioni, condizioni, ecc., triviali, estrinseche e passeggiere, che possono anche serbare per un certo tempo e per certe particolari classi d’uomini una grande importanza relativa, avrà anche ragione, e troverà in quel caso molte cose che non rispondono ad esigenze giuste ed universali: chi non possederebbe la pazienza di scoprire, in ciò che lo circonda, molte cose che in fatto non sono come debbono essere? Ma questa sapienza ha torto quando immagina di aggirarsi, con siffatti oggetti e col loro dover essere, nella cerchia degli interessi della scienza filosofica. Questa ha da fare solo con l’idea, che non è tanto impotente da restringersi a dover essere solo, e non essere poi effettivamente: ha da fare perciò con una realtà, di cui quegli oggetti, istituzioni, condizioni, ecc., sono solo il lato esterno e superficiale».

«Così dunque questo trattato in quanto contiene la scienza dello Stato, deve essere null’altro se non il tentativo di intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico esso deve restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come deve essere. L’ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere ad insegnare allo Stato come deve essere, ma piuttosto in qual modo esso deve essere riconosciuto come universo etico. Intendere ciò che è, è il compito della filosofia, quindi non dare il dover essere, ma intendere ciò che è, poichè ciò che è è la ragione, del resto, per quel che si riferisce all’individuo ciascuno è senz’altro figlio del suo tempo ed anche la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. È altrettanto folle pensare che una qualche filosofia precorra il suo mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci indietro il suo tempo e salti oltre su Rodi. Se la sua teoria nel fatto oltrepassa questo, se si costruisce un mondo come deve essere, esso esiste bensí, ma soltanto nella sua intenzione, in un elemento duttile col quale si lascia plasmare ogni qualsiasi cosa».

«Ma il bene, che qui è il fine universale, deve non restare semplicemente nel mio interno, cioè puramente soggettivo e interiore come nella morale, ma deve anche realizzarsi. La volontà soggettiva cioè esige che il suo interno, ossia il suo fine, consegua esistenza esterna, che quindi il bene debba essere compiuto nell’esistenza esterna».


«Non c’è alcun pretore, arbitro supremo e mediatore fra gli Stati, e anche questi sono soltanto in modo accidentale, cioé secondo la volontà particolare. La concezione kantiana d’una pace perpetua, mediante una lega degli Stati, la quale appiani ogni controversia, e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni dissenzione, e quindi renda impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone l’umanità degli Stati, che dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura, in generale, sempre da una volontà sovrana particolare, e, quindi, resta affetta da accidentalità». (Hegel, Lineamenti, par. 333, aggiunta).

venerdì 13 febbraio 2015

Sigmund Freud - Antonio Gargano





Il pensiero freudiano può essere interpretato come una «mappa delle interferenze che deformano la coscienza» (come afferma il filosofo Remo Bodei). La psicanalisi, cioè, è un tentativo di prendere in considerazione le stratificazioni, le interferenze, le intermittenze, i piani di frattura del pensiero logico. Il concetto di razionalità deve essere ampliato, fino a comprendere anche ciò che apparentemente è refrattario alla logica e alla coscienza: le credenze, le superstizioni, ma anche i sogni, i contenuti fantastici dell’arte, i quali non presentano verosimiglianza, devono essere sottoposti ad analisi per scoprirvi i nuclei di verità che contengono. La razionalità cui siamo abituati è quella cartesiana, fondata sul principio di evidenza e sulla “chiarezza” e “distinzione” delle idee, che viene articolata mediante il ragionamento e la rigorosa deduzione. Emblema della razionalità occidentale è l’atteggiamento illuministico: la ragione è equiparata alla luce, che si diffonde sulle tenebre dell’ignoranza e della superstizione e le dissipa. Per Freud invece anche all’interno delle tenebre si celano nuclei di verità, anche se di una verità deformata, che si può manifestare nella fantasia o nella patologia, e che va decodificata, trasponendola dal linguaggio dell’inconscio in quello della coscienza. Per Freud la verità non è qualcosa che si presenta con evidenza, bensí qualcosa che «nasce da forze in lotta e da forme di compromesso: non vi è una evidenza puntuale della verità, bensí questa viene sagomata in un processo non lineare, si profila al termine di un tragitto tortuoso», come afferma ancora Remo Bodei.



http://www.iisf.it/scuola/freud/freud.htm

giovedì 12 febbraio 2015

Confessioni di un marxista eccentrico - Yanis Varoufakis

...Se la mia prognosi è corretta e la crisi europea non è soltanto un altro crollo ciclico che sarà superato presto con la ricrescita dei profitti conseguente all’inevitabile stretta sui salari, la domanda che sorge per i radicali è la seguente: dovremmo accogliere questo vasto cedimento del capitalismo europeo come un’occasione per sostituire il capitalismo con un sistema migliore? O dovremmo essere così preoccupati al riguardo da imbarcarci in una campagna per stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta negli ultimi tre anni è stata inequivocabile ed è disattesa dalla lista citata più sopra dei diversi uditori che ho cercato di influenzare. La crisi dell’Europa è, a mio parere, gravida non solo di un’alternativa progressista, ma anche di forze radicalmente regressive che hanno la capacità di causare un bagno di sangue umanitario cancellando la speranza di un qualsiasi passo avanti progressiste per generazioni a venire.
Per queste idee sono stato accusato, da voci radicali benintenzionate, di essere un ‘disfattista’, un menscevico dell’ultimo giorno che instancabilmente si batte a favore di piani lo scopo dei quali è salvare l’attuale indifendibile sistema socio-economico europeo. Un sistema che rappresenta tutto ciò che contro cui un radicale dovrebbe ammonire e lottare: un’Unione Europa antidemocratica, irreversibilmente neoliberista, fortemente irrazionale, transnazionale che non ha quasi alcuna capacità di evolvere in una comunità genuinamente umanistica in cui le nazioni dell’Europa possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa critica, lo confesso, ferisce. E ferisce perché contiene più di un nocciolo di verità.
In verità io condivido la visione di questa Unione Europea come cartello fondamentalmente antidemocratico e irrazionale che ha posto i popoli dell’Europa su un sentiero di misantropia, conflitti e recessione permanente. E mi inchino anche alla critica di aver condotto una campagna fondata sul presupposto che la Sinistra sia, e rimanga, francamente sconfitta. Dunque sì, in questo senso mi sento obbligato a riconoscere che desidererei che la mia campagna fosse di un genere diverso; che promuoverei molto più volentieri un’agenda radicale la cui raison d’etre fosse sostituire il capitalismo europeo con un sistema diverso, più razionale, piuttosto che limitarmi a promuovere la stabilizzazione del capitalismo europeo, in contrasto con la mia definizione di Buona Società.
A questo punto è forse pertinente una confessione di secondo ordine: confessare che … le confessioni tendono a essere interessate. In effetti le confessioni sono sempre sull’orlo di quanto disse una volta John von Neumann a proposito di Robert Oppenheimer, dopo aver sentito che il suo ex direttore al Progetto Manhattan era diventato un attivista antinucleare e si era confessato colpevole del suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le caustiche parole di Von Neumann furono:
“Confessa il peccato per reclamare la gloria”.
Fortunatamente io non sono un Oppenheimer  e perciò non sarà troppo difficile confessare vari peccati come mezzo di autopromozione bensì, piuttosto, come finestra da cui osservare un capitalismo europeo devastato dalla crisi, profondamente irrazionale e ripugnante la cui implosione, nonostante i suoi molti mali, andrebbe evitata a ogni costo. E’ una confessione mediante la quale convincere i radicali che abbiamo una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del capitalismo europeo al fine di guadagnare il tempo che ci è necessario per formulare l’alternativa a esso.

A proposito di certe tendenze della letteratura psicoanalitica* - Stefano Garroni



*Da "Tracciati dialettici (Note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa