D. Top manager e
leader politici, anche da sinistra, sono di recente tornati ripetutamente
sull’idea che parlare degli operai, ovvero dei lavoratori dipendenti in genere,
come se fossero una classe sociale sia un ritornello frusto e che la lotta di
classe sia un residuo arcaico della rivoluzione industriale. Occorre dunque
ragionare sulla società italiana e sulla società globale in termini del tutto
nuovi, prendendo atto del fatto che le classi sociali, con riferimento alle
quali sono state descritte e analizzate le società sin dalla metà
dell’Ottocento, non esistono più?
R. Bisogna cominciare con una distinzione.
Chi afferma che le classi sociali non esistono più muove in genere dalla
constatazione che non si vedono più manifestazioni di massa che siano
chiaramente attribuibili ad una data classe. Oppure intende dire che non vi
sono più partiti di un certo peso elettorale che per il loro statuto o
programma si rifanno chiaramente all’idea di classe sociale. In questi casi si
può convenire che negli ultimi decenni le classi sociali, e con esse la lotta
di classe, sono diventate assai meno visibili. Il che pare dar ragione a chi
arriva a concludere che, non essendo le classi visibili e la lotta di classe
chiaramente discernibile, non esistono più le classi.
Però una classe sociale,
come disse qualcuno tempo fa, distinguendo tra la classe in sé e la classe per
sé, non è delimitata o costituita soltanto dal fatto di dar forma ad azioni
collettive in quanto espressioni di un conflitto, o da una forte presenza
pubblica di partiti che fanno delle classi e magari della lotta di classe la
loro bandiera. Una classe sociale esiste indipendentemente dalle formazioni
politiche che ne riconoscono o meno l’esistenza, e perfino da ciò che i suoi
componenti pensano o credono di essa. Ricorrendo ad un’espressione che risale
anch’essa a parecchio tempo addietro, far parte di una classe sociale significa
appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le
conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori possibilità
di passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa ad una classe più
alta; avere maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di risorse,
di beni materiali e immateriali, sufficienti a rendere la vita più gradevole e
magari più lunga; disporre oppure no, in qualche modo, del potere di decidere
il proprio destino, di poterlo scegliere. Per definire una classe, insomma, è
necessario ma non basta dire che è una comunità di destino: rientra nella
definizione anche la possibilità per chi vi appartiene di poter influire sul
destino stesso, di poterlo in qualche misura cambiare.
Ci sono poi altri motivi
che inducono molti, da tempo, ad affermare che le classi sociali non esistono
più. Uno di essi è la relativa omogenizzazione dei consumi e dello stile di
vita della classe operaia, o classe lavoratrice, e delle classi medie. Le
famiglie degli operai e dei muratori, dei magazzinieri e dei conducenti di
autobus hanno in molti casi l’automobile, la tv a schermo piatto, il telefono
cellulare, la lavatrice, vivono in un alloggio di proprietà, mandano i figli a
scuola almeno sino alla fine delle superiori e fanno le vacanze al mare:
proprio come le famiglie dei dirigenti d’azienda, dei professionisti, dei
funzionari della pubblica amministrazione, dei commercianti, dei piccoli
imprenditori che formano la classe media ovvero la piccola e media borghesia,
come si chiamava una volta. Qui occorre naturalmente precisare: un conto è lo
stile di vita o il consumo di massa visivamente osservabile; altra cosa è la
qualità del lavoro che un individuo svolge, la possibilità di crescita
professionale, la probabilità di salire nella scala sociale, il fatto di avere
o non avere qualcuno sulla testa che dice ad ogni momento che cosa devi fare.
In questa prospettiva le differenze di classe rimangono cospicue, anche se a
causa della Grande Crisi esplosa nel 2007, e diventata una Grande Recessione
che durerà forse molti anni, una parte della classe media ha subito una sorta
di processo di proletarizzazione.
Un altro motivo per affermare che le classi
sociali non esistono, che risale ancor più lontano nel tempo, ma che anche oggi
si sente riproporre da politici di destra non meno che di centro-sinistra, è
grezzamente ideologico. Esso suona così: operai, dirigenti e proprietari hanno
tutti interesse a che un’impresa funzioni bene e faccia buoni utili. Sono, si
dice, nella stessa barca. Asserire che hanno interessi diversi e quindi
appartengono a classi obiettivamente contrapposte è un’idea priva di senso, si
sostiene, e anzi dannosa per tutte le parti in causa. Perciò operai e sindacati
devono essere “complici” dei manager e dei proprietari: è arrivato a dirlo
nientemeno che un ministro del Lavoro italiano, Maurizio Sacconi, rompendo una
tradizione che ha visto succedersi in tale carica politici dediti a trovare i
modi per regolare il conflitto strutturale tra le due parti, non a camuffarlo.
Quasi due secoli e mezzo fa, Adam Smith aveva spiegato perfettamente perché
l’idea che operai e padroni possano o debbano essere “complici” non sta in
piedi: gli operai, per la posizione che occupano, vorrebbero sempre ottenere
salari più alti; i padroni, per i mezzi di produzione che controllano,
vorrebbero pagare sempre salari più bassi.
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