martedì 17 febbraio 2015

HEGEL - LA FILOSOFIA DEL DIRITTO - Antonio Gargano

«Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell’universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o qualsiasi aspetto assuma la coscienza soggettiva, riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, allora essa si ritrova nel vuoto e, poichè soltanto nel presente v’è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l’idea passa per essere soltanto un’idea, una rappresentazione in un’opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l’idea. Si tratta allora di riconoscere nell’apparenza del temporaneo e del transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale. Invero il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell’esistenza esterna, si presenta in un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e figure; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle figure esterne».

«Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto, p. XIX si trovano queste proposizioni. Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi, e han trovato opposizioni anche da tali che non vogliono si metta in dubbio che essi posseggano filosofia, e di certo, almeno, religione. Per ciò che concerne la religione, non è necessario tirarla in mezzo in questo dibattito, giacché le sue dottrine sul divino reggimento del mondo esprimono quelle proposizioni in modo ben determinato. Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da presupporre tanta coltura che si sappia non solo che Dio è reale,  – che è la cosa più reale e che è la cosa veramente reale, –  ma anche, nel rispetto formale, che l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggiera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di pensare, un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: – l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile, che può non essere allo stesso modo che è. Ma, quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione, giacché in una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l’ho accuratamente distinta non solo dall’accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall’essere determinato, dall’esistenza e da altri concetti. – Alla realtà del razionale si contrappone, da una parte, la veduta che le idee e gli ideali non siano se non chimere, e la filosofia un sistema di questi fantasmi cerebrali; e dall’altra, che le idee e gli ideali siano alcunché di troppo eccellente per avere realtà, o anche di troppo impotente per procacciarsela. Ma la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto, che tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace, ed è tutto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come dev’essere, ma non è: che, se poi fosse come dev’essere, dove se n’andrebbe la saccenteria di quel dover essere? Allorché l’intelletto, col suo dover essere, si rivolge contro cose, istituzioni, condizioni, ecc., triviali, estrinseche e passeggiere, che possono anche serbare per un certo tempo e per certe particolari classi d’uomini una grande importanza relativa, avrà anche ragione, e troverà in quel caso molte cose che non rispondono ad esigenze giuste ed universali: chi non possederebbe la pazienza di scoprire, in ciò che lo circonda, molte cose che in fatto non sono come debbono essere? Ma questa sapienza ha torto quando immagina di aggirarsi, con siffatti oggetti e col loro dover essere, nella cerchia degli interessi della scienza filosofica. Questa ha da fare solo con l’idea, che non è tanto impotente da restringersi a dover essere solo, e non essere poi effettivamente: ha da fare perciò con una realtà, di cui quegli oggetti, istituzioni, condizioni, ecc., sono solo il lato esterno e superficiale».

«Così dunque questo trattato in quanto contiene la scienza dello Stato, deve essere null’altro se non il tentativo di intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico esso deve restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come deve essere. L’ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere ad insegnare allo Stato come deve essere, ma piuttosto in qual modo esso deve essere riconosciuto come universo etico. Intendere ciò che è, è il compito della filosofia, quindi non dare il dover essere, ma intendere ciò che è, poichè ciò che è è la ragione, del resto, per quel che si riferisce all’individuo ciascuno è senz’altro figlio del suo tempo ed anche la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. È altrettanto folle pensare che una qualche filosofia precorra il suo mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci indietro il suo tempo e salti oltre su Rodi. Se la sua teoria nel fatto oltrepassa questo, se si costruisce un mondo come deve essere, esso esiste bensí, ma soltanto nella sua intenzione, in un elemento duttile col quale si lascia plasmare ogni qualsiasi cosa».

«Ma il bene, che qui è il fine universale, deve non restare semplicemente nel mio interno, cioè puramente soggettivo e interiore come nella morale, ma deve anche realizzarsi. La volontà soggettiva cioè esige che il suo interno, ossia il suo fine, consegua esistenza esterna, che quindi il bene debba essere compiuto nell’esistenza esterna».


«Non c’è alcun pretore, arbitro supremo e mediatore fra gli Stati, e anche questi sono soltanto in modo accidentale, cioé secondo la volontà particolare. La concezione kantiana d’una pace perpetua, mediante una lega degli Stati, la quale appiani ogni controversia, e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni dissenzione, e quindi renda impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone l’umanità degli Stati, che dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura, in generale, sempre da una volontà sovrana particolare, e, quindi, resta affetta da accidentalità». (Hegel, Lineamenti, par. 333, aggiunta).

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