Confesso – ammetto, è meglio dire – di non aver letto
integralmente, fino ad oggi, le “Confessioni” del ministro Varoufakis. Oggi ho
avuto tempo e l’ho fatto. In effetti, queste pagine in cui Varoufakis pone se
stesso al centro di una vicenda storico-esistenziale con risonanze epocali mi
hanno fatto sorgere più di una perplessità.
Le sintetizzo – parzialmente e per punti - qui di seguito.
- 1 Scrive Varoufakis: “Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che
deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente,
la scoperta di un’…opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due
‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un
valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò
è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il
numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’
questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come
l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria.”
Ora, per quanto mi è noto, la doppia natura del lavoro in
Marx oppone il lavoro in quanto produttore di “ricchezza” (valori d’uso) al
lavoro in quanto produttore di “valore” (rintracciabile nel valore di scambio).
E’ chiaro che il “lavoro come attività di creazione di un valore” non può mai
essere quantificato in anticipo, perché è solo nella realizzazione del
plusvalore (e non nella sua produzione) che viene in chiaro quanto profitto il
capitale sia riuscito o meno a realizzare. D’altra parte, è proprio nella
riduzione del “lavoro” (ma sarebbe meglio dire della “forza- lavoro”) ad una
entità quantificabile che trova la sua ragion d’essere la produzione di valore
(e di plusvalore). E ciò, in Marx, è vero sia sotto il profilo logico che sotto
il profilo storico. Risparmio a tutti, e al buon Varoufakis soprattutto, le
citazioni arcinote in cui questa affermazione trova riscontro.
- 2 Scrive Varoufakis: “ L’Homo sapiens, nonostante abbia
inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza confronti di
inflizione di orrori indicibili ai nostri fratelli, non avrebbe mai potuto
immaginare il ruolo indegno che le macchine gli avrebbero assegnato in Matrix:
bloccati in marchingegni che ci immobilizzano per risparmiare energia, le
macchine ci alimentano a forza con una miscela di nutrienti nauseanti adatti
per la massima produzione di calore.”
Ora, molti di noi hanno visto “Matrix” per cui non mi
dilungo sul film. Ma è fuor di dubbio che, rispetto alle macchine e al loro
impatto sulla condizione umana – cioè, sul lavoro – Marx distingue nettamente
il loro uso in senso capitalistico da quello - possibile - in una società dove
le “macchine” siano sottratte al dominio della proprietà privata: nella prima
esse diventano uno strumento di progressivo asservimento del lavoro: nella
seconda potrebbero diventare uno strumento di progressiva liberazione dal
lavoro. In Marx, il problema non risiede mai nella natura in sé delle cose, ma
nei rapporti di produzione che assegnano alle cose – macchine comprese – il
loro effettivo ruolo sociale. Fra le due diverse condizioni si sviluppa il
tempo storico della rivoluzione socialista che non “facit saltus” ma si muove
dentro le contraddizioni ereditate dal passato (vedi “Critica al Programma di
Gotha”).
- 3 Scrive Varoufakis: “Il primo errore di Marx … fu
l’essere insufficientemente dialettico, insufficientemente riflessivo. Com’è
che non mostrò alcuna preoccupazione che i suoi discepoli … potessero usare il
potere donato loro…per abusare dei loro compagni, per costruire la propria base
di potere, per conquistare posizioni di influenza, per approfittare di studenti
impressionabili, eccetera?”
E poi: “Egli semplicemente non prese in considerazione la
possibilità che la creazione di uno stato dei lavoratori avrebbe spinto il
capitalismo a diventare più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe
stato infettato dal virus del totalitarismo”
Ora, qui si imputa a Marx di non aver avuto la preveggenza
necessaria a intravedere i caratteri del tutto particolari che avrebbe assunto
la Rivoluzione d’ottobre. Ma è un’imputazione legittima? Io penso di no e credo
che, sulla base del semplice buon senso, si possa concordare con la mia
posizione. A meno di non considerare Marx colpevole di tutto, compreso il
delirio di Pol Pot o gli eccessi di Stalin. Ma equivarrebbe a considerare
Democrito responsabile dell’invenzione e dell’utilizzo della bomba atomica.
Inoltre, è davvero strano usare il termine “discepoli” riferito alla
discendenza intellettuale di Marx, il quale una volta ebbe a dire, parlando di
se steso, “io non sono marxista”: ciò basti a chiarire la posizione
intellettuale di un uomo che si considerava – ed era - uno scienziato e non il
fondatore di una religione o di una setta iniziatica o gnostica. Infine, non
sono affatto sicuro di come Marx avrebbe valutato l’esperienza sovietica: ma,
certo, non in base alla fin troppo facile endiadi totalitarismo/democrazia (à
la Arendt) . Immagino che avrebbe indagato, in forma storico – materialistica,
le relazioni fra sottosviluppo industriale, società contadina e pregressa
autocrazia e le forme politiche conseguenti e “necessarie” scaturite dal
processo storico stesso.
- 4 Scrive Varoufakis: “Ci sono stati momenti in cui Marx si
rese conto, e confessò, di aver sbagliato sul lato del determinismo. Una volta
passato al terzo volume del Capitale…”(ecc.)
Ora, di quale determinismo si parla qui? Marx, per quanto ne
so, dedicò gran parte della sua vita al tentativo di fornire, all’intero genere
umano, un’analisi scientifica della forma di produzione capitalistica. Una
volta scrisse: “il futuro non è affar mio”. Non sono certo le parole di un
determinista. Questo non significa che tutte le affermazioni di Marx abbiano il
carattere di verità incontrovertibili né che ogni suo tentativo di previsione
si sia avverato: ma ciò deriva, appunto, dal carattere scientifico del suo
lavoro. Inoltre, bisogna tenere presente che, a detta degli studiosi, Marx
scrisse il primo libro de “Il capitale” per ultimo, e che successivamente non
pubblicò nulla del pur ingente materiale già prodotto per i successivi sviluppi
dell’opera. Per quale ragione? Forse stava osservando l’oggetto delle sue
indagini – già allora in preda a terribili convulsioni? Forse aveva dei dubbi?
In ogni caso, il lungo silenzio di Marx dopo la pubblicazione del primo libro
de “Il Capitale” (circa sedici anni) è una spia eloquente, a mio avviso, di
quanta attenzione egli rivolgesse all’effettivo dipanarsi storico del sistema
capitalistico e del valore puramente euristico delle formule e delle equazioni
a cui spesso fa ricorso.
- 5 Scrive Varoufakis: “Marx avvertì l’irreprimibile urgenza
di domare persone come Citizen Weston che osavano preoccuparsi che un aumento
del salario…potesse dimostrarsi una vittoria di Pirro se conseguentemente i
capitalisti avessero spinto al rialzo i prezzi. Invece di solo discutere con
persone come Weston, Marx era deciso a dimostrare con precisione matematica che
sbagliavano, che erano antiscientifiche, grossolane, immeritevoli di seria
attenzione”.
Esattamente: nel testo in questione (Salario, prezzo,
profitto) Marx ribatte al rigido meccanicismo del cittadino Weston con
argomenti che tendono a rintracciare la dinamica delle relazioni fra le diverse
variabili prese in esame e al loro reciproco influenzarsi. E’ questo, io credo,
il “modo serio” di discutere. E in effetti Marx aveva ragione: ma l’essenza del
suo aver ragione non sta solo nei “risultati” - che forse sono validi ancor
oggi – ma soprattutto nel metodo utilizzato, vale a dire nel non considerare
mai l’universo socio – economico capitalistico come regolato da “leggi”
trascendenti e assolute, valide magari, secondo l’economia volgare, per tutte
le forme di produzione precedenti e dotate, perciò, di una sorta di
universalità meta-storica. Al contrario, Marx pone in luce la dialettica
immanente al sistema capitalistico che, diciamo così, è “costretto” a
comportarsi secondo una logica dalla quale non può prescindere a meno di
diventare qualcosa che esso non è. Ma, cosa ancora più importante, non è vero
che Marx si “ostinasse a volere la storia, o il modello, ‘completa’,
‘conclusa’, l’’ultima parola”, come scrive Varoufakis. Non comprendo perché un
marxista cada in questo equivoco. Ma forse lo comprendo e non gliene faccio una
colpa: si tratta degli echi, presenti in noi tutti, di quel marxismo
novecentesco che ha perduto il meglio dell’elasticità e della fluidità del
pensiero di Marx sotto la spinta nefasta del dogmatismo e delle “Lezioni sul
leninismo “ di G. Stalin.
- 6 La parte più interessante delle “Confessioni” di
Varoufakis mi sembra, invece, quella relativa al periodo del tatcherismo. E’
lì, forse, che vengono in luce i nodi teorici più importanti che hanno via via
spinto la sinistra comunista in una impasse dalla quale è lungi dall’uscire. Si
potrebbe anche citare il Cile, ad esempio, o la Rivoluzione dei garofani in
Portogallo . Sono questi argomenti sui quali, ancor oggi, varrebbe la pena di
discutere approfonditamente a partire, io penso, dal tema della cosiddetta
“centralità operaia” che tanta risonanza ebbe negli anni ’70. Si tratta di una
fase nello sviluppo (o nell’inviluppo?) delle società capitaliste che forse, e
in tal caso per forza di cose, sfuggì non solo all’osservazione, ma anche ai
tentativi di previsione di Marx.
Mi sembra, infine, che Varoufakis leghi la riflessione sul
tatcherismo alla difficoltà – lealmente confessata – di proporre, oggi, un
‘agenda di sinistra “più radicale”. Non credo che nessuno di noi riesca a
dargli torto su questo punto. Vedremo quello che succederà. E’ pur vero che il
capitalismo è il modo più irragionevole e, insieme, più potente e maligno, che
l’uomo abbia inventato per produrre e riprodurre la sua esistenza sulla terra.
Ed è pur vero che la sua cecità è totale ed auto ed etero-distruttiva. Per
concludere – ma senza concludere veramente – credo che l’ ipotesi di “salvare
il capitalismo da se stesso” abbia una sua crepuscolare dignità. A patto però
che si parli del capitalismo europeo e delle sue peculiari contraddizioni, di
cui la Grecia paga attualmente il prezzo più alto. Ma è inutile nascondersi che
qualsiasi ipotesi di una “ristrutturazione razionale” del capitalismo europeo
deve fare i conti con la crisi del sistema di potere economico – militare
nordamericano che sembra ormai orientarsi sempre di più ad una logica di guerra
aperta economica e militare. Qui sta, io penso, la vera questione. Ed è
terribile e dura e, se me lo consentite, richiede strumenti e capacità di
analisi e organizzative che noi comunisti dobbiamo ancora, e di nuovo,
costruire.
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