La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
martedì 10 marzo 2015
domenica 8 marzo 2015
sabato 7 marzo 2015
MARX - Gabriella Giudici
"...il punto centrale riguarda l’economia politica in quanto scienza, e dunque la sua capacità di comprendere la realtà. Il suo vizio di fondo, infatti, consiste nel presupporre ciò che deve spiegare, cioè nel partire dalla proprietà privata come se fosse un dato naturale, facendone valere le leggi come fossero leggi naturali. [...]
«l’opposizione tra non proprietà e proprietà» non assume il carattere di contraddizione se non viene concepita come «opposizione di lavoro e capitale», cioè se non si comprende che il capitale stesso è lavoro, lavoro espropriato dell’operaio. L’emancipazione operaia sarà dunque la riappropriazione di quanto si è perduto per effetto dell’alienazione ed essa significherà la generale emancipazione umana», perché «l’intera servitù umana è coinvolta nel rapporto dell’operaio alla produzione»".
Sta, forse, proprio in questa 'contraddizione', in questa 'negazione' potente che 'blocca', se non superata, il lungo e faticoso cammino dell'emancipazione umana, la chiave di lettura di tutto il pensiero e l'opera di Marx. In perfetta continuità con Hegel Marx pone il problema, la negazione, che ha da essere risolto, superato, pena l'arrestarsi di quel movimento al tempo stesso contraddittorio e risolutore che caratterizza il 'modus operandi' dello Spirito umano, nel suo lento e faticoso passaggio ad un gradino superiore di civiltà. Il grande processo evolutivo dell'umanità, del formarsi del genere umano, del
divenir uomo dell'uomo.
Con questa interpretazione accogliamo il bellissimo lavoro di Gabriella Giudici. Perché è cosi che riconosciamo il 'nostro' Marx...
- Il collettivo di formazione marxista Stefano Garroni -
- Il collettivo di formazione marxista Stefano Garroni -
giovedì 5 marzo 2015
lezioni di volo - Aristide Bellacicco
l gesto di battere le ali presuppone la flessione delle ginocchia: questa è la prima e unica regola che i maestri ci hanno trasmesso. Molti di noi hanno perso il sonno e la serenità nel tentativo estenuante di trovarne una motivazione razionale. Non ve n’è alcuna: i maestri avevano scoperto il come, non il perché. Vi ricordate le prime riunioni – ancora clandestine, a quei tempi – che si tennero subito dopo il ritrovamento del Libro dei Voli? C’era un enorme entusiasmo, tutti eravamo giovani e disposti a dare la vita perché quelle parole si avverassero. Quanti morti! Ventidue soltanto nella prima settimana di tentativi. Raccoglievamo i corpi senza vita sui marciapiedi e, nel buio, li trasportavamo in quello che ora è diventato un monumento nazionale, il Sacrario dei Caduti per Sbaglio (SCS). All’epoca era solo una vecchia rimessa abbandonata all’estrema periferia della città, che aveva il vantaggio di non essere distante dal luogo dove si tenevano le lezioni e si effettuavano i lanci: il tetto della Torre di Kan.
martedì 3 marzo 2015
PARTITO E TEORIA* - Stefano Garroni, Mauro Casadio
*Atti del seminario promosso dal Forum dei Comunisti
"Bisogna che l'eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante." (Gramsci, 'Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce')
"io non sono nulla e dovrei essere tutto"
(http://gabriellagiudici.it/karl-marx-introduzione-a-per-la-critica-della-filosofia-politica-di-hegel/)
lunedì 2 marzo 2015
Il capitale «apre» i confini: accumulazione e crisi del globale in Rosa Luxemburg - MICHELE CENTO e ROBERTA FERRARI
Un’estrazione che non cessa di affermarsi anche quando il capitalismo sembra ormai privo di un «fuori», di un «non-capitale» da piegare alla sua logica. Nel momento in cui il capitale esercita un dominio esclusivo sul globo, l’accumulazione deve dunque riuscire nella funambolica impresa di creare un «fuori» all’interno del sistema capitalistico.
Non si tratta più un dentro e un fuori geografico, o di un dentro e un fuori temporale, ma di spazi di accumulazione creati sulle possibilità ulteriori di sfruttamento. Una volta diventato globale, il capitale si ritrova infatti con lo stesso problema che segnala Luxemburg: il suo fuori oggi è necessariamente un dentro ma la dinamica di devastazione necessaria per la sua accumulazione rimane la stessa. Ciò di cui Luxemburg sembra consapevole è il fatto che il capitale crea il suo “fuori” innanzitutto impoverendo e immiserendo spazi ulteriori.
Non si tratta qui di una questione geografica, ma di rapporti sociali che il capitale è costretto a riprodurre al suo interno per accumulare. Possiamo dire che l’impoverimento è oggi il nome dell’accumulazione capitalistica, così come lo è la coazione al lavoro di fabbrica in ampie regioni del pianeta.
La violenza politica è qui il veicolo del processo economico: è nel continuo rimando tra queste due facce che si compie il ciclo storico del capitale.
Portare dentro il «fuori» non capitalistico non significa quindi per Luxemburg solamente valorizzarlo, ma piuttosto spremerlo, usarlo: è proprio la devastazione e l’impoverimento il modo di valorizzazione del capitale.
Questo meccanismo perfetto, oliato di sangue e fango, incontra un ostacolo proprio nelle condizioni che esso stesso ha determinato, proprio nel suo processo di valorizzazione distruttiva.
Un campo di battaglia, un luogo di conflitto, dove le resistenze all’introduzione dello sfruttamento capitalistico nei paesi non capitalistici possono saldarsi alle lotte contro gli oliati meccanismi dell’accumulazione nei paesi pienamente capitalistici.
Se la forza del capitalismo risiede nella sua mutevole fenomenologia, la sua debolezza sta nell’inflessibile ostinazione della sua logica. Ed è in questa crepa che nuovi spazi di soggettivazione potranno mettere in crisi la realizzazione dello sfruttamento.
E' anche in questo senso che la rivoluzione è sempre un problema dell’oggi o, se non altro, di quel presente assoluto che la narrazione neoliberale ha estorto alla storia.
(Michele Cento e Roberta Ferrari)
giovedì 26 febbraio 2015
IL "PROBLEMA" MACCHINA. CENNI STORICI* - Stefano Garroni
*Da "Tracciati dialettici (Note di politica e cultura)" Stefano Garroni, Edizioni Kappa
"Nella critica al sillogismo, quindi, è presente non solo il rifiuto di certe regole logiche come le uniche, si anche un'enfatizzazione nuova della 'cultura' (intuizione, percezione, evidenza), come elemento costitutivo della trama logica."
mercoledì 25 febbraio 2015
Corso sul "Capitale" (6/7) - Riccardo Bellofiore
Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).
https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL
LA LOTTA DI CLASSE DOPO LA LOTTA DI CLASSE - Luciano Gallino
D. Top manager e
leader politici, anche da sinistra, sono di recente tornati ripetutamente
sull’idea che parlare degli operai, ovvero dei lavoratori dipendenti in genere,
come se fossero una classe sociale sia un ritornello frusto e che la lotta di
classe sia un residuo arcaico della rivoluzione industriale. Occorre dunque
ragionare sulla società italiana e sulla società globale in termini del tutto
nuovi, prendendo atto del fatto che le classi sociali, con riferimento alle
quali sono state descritte e analizzate le società sin dalla metà
dell’Ottocento, non esistono più?
R. Bisogna cominciare con una distinzione.
Chi afferma che le classi sociali non esistono più muove in genere dalla
constatazione che non si vedono più manifestazioni di massa che siano
chiaramente attribuibili ad una data classe. Oppure intende dire che non vi
sono più partiti di un certo peso elettorale che per il loro statuto o
programma si rifanno chiaramente all’idea di classe sociale. In questi casi si
può convenire che negli ultimi decenni le classi sociali, e con esse la lotta
di classe, sono diventate assai meno visibili. Il che pare dar ragione a chi
arriva a concludere che, non essendo le classi visibili e la lotta di classe
chiaramente discernibile, non esistono più le classi.
Però una classe sociale,
come disse qualcuno tempo fa, distinguendo tra la classe in sé e la classe per
sé, non è delimitata o costituita soltanto dal fatto di dar forma ad azioni
collettive in quanto espressioni di un conflitto, o da una forte presenza
pubblica di partiti che fanno delle classi e magari della lotta di classe la
loro bandiera. Una classe sociale esiste indipendentemente dalle formazioni
politiche che ne riconoscono o meno l’esistenza, e perfino da ciò che i suoi
componenti pensano o credono di essa. Ricorrendo ad un’espressione che risale
anch’essa a parecchio tempo addietro, far parte di una classe sociale significa
appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le
conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori possibilità
di passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa ad una classe più
alta; avere maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di risorse,
di beni materiali e immateriali, sufficienti a rendere la vita più gradevole e
magari più lunga; disporre oppure no, in qualche modo, del potere di decidere
il proprio destino, di poterlo scegliere. Per definire una classe, insomma, è
necessario ma non basta dire che è una comunità di destino: rientra nella
definizione anche la possibilità per chi vi appartiene di poter influire sul
destino stesso, di poterlo in qualche misura cambiare.
Ci sono poi altri motivi
che inducono molti, da tempo, ad affermare che le classi sociali non esistono
più. Uno di essi è la relativa omogenizzazione dei consumi e dello stile di
vita della classe operaia, o classe lavoratrice, e delle classi medie. Le
famiglie degli operai e dei muratori, dei magazzinieri e dei conducenti di
autobus hanno in molti casi l’automobile, la tv a schermo piatto, il telefono
cellulare, la lavatrice, vivono in un alloggio di proprietà, mandano i figli a
scuola almeno sino alla fine delle superiori e fanno le vacanze al mare:
proprio come le famiglie dei dirigenti d’azienda, dei professionisti, dei
funzionari della pubblica amministrazione, dei commercianti, dei piccoli
imprenditori che formano la classe media ovvero la piccola e media borghesia,
come si chiamava una volta. Qui occorre naturalmente precisare: un conto è lo
stile di vita o il consumo di massa visivamente osservabile; altra cosa è la
qualità del lavoro che un individuo svolge, la possibilità di crescita
professionale, la probabilità di salire nella scala sociale, il fatto di avere
o non avere qualcuno sulla testa che dice ad ogni momento che cosa devi fare.
In questa prospettiva le differenze di classe rimangono cospicue, anche se a
causa della Grande Crisi esplosa nel 2007, e diventata una Grande Recessione
che durerà forse molti anni, una parte della classe media ha subito una sorta
di processo di proletarizzazione.
Un altro motivo per affermare che le classi
sociali non esistono, che risale ancor più lontano nel tempo, ma che anche oggi
si sente riproporre da politici di destra non meno che di centro-sinistra, è
grezzamente ideologico. Esso suona così: operai, dirigenti e proprietari hanno
tutti interesse a che un’impresa funzioni bene e faccia buoni utili. Sono, si
dice, nella stessa barca. Asserire che hanno interessi diversi e quindi
appartengono a classi obiettivamente contrapposte è un’idea priva di senso, si
sostiene, e anzi dannosa per tutte le parti in causa. Perciò operai e sindacati
devono essere “complici” dei manager e dei proprietari: è arrivato a dirlo
nientemeno che un ministro del Lavoro italiano, Maurizio Sacconi, rompendo una
tradizione che ha visto succedersi in tale carica politici dediti a trovare i
modi per regolare il conflitto strutturale tra le due parti, non a camuffarlo.
Quasi due secoli e mezzo fa, Adam Smith aveva spiegato perfettamente perché
l’idea che operai e padroni possano o debbano essere “complici” non sta in
piedi: gli operai, per la posizione che occupano, vorrebbero sempre ottenere
salari più alti; i padroni, per i mezzi di produzione che controllano,
vorrebbero pagare sempre salari più bassi.
Freud e l'analogia Psichico-Statuale* - Stefano Garroni
*Da "Su Freud e la morale (L'uomo e la società)" Stefano Garroni, Bulsoni editore
"Il corpo politico, considerato nella sua individualità, può essere considerato come un corpo organizzato, vivente e simile a quello dell'uomo... La vita dell'uno e dell'altro è l'io comune al tutto, la reciproca sensibilità, la corrispondenza interna di tutte le parti. Se questa comunicazione viene a cessare, se viene meno l'unità formale, se le parti contigue mantengono unicamente un rapporto di giustapposizione, l'uomo è morto e lo stato dissolto" (J:J:Rousseau, Scritti politici, 1, Laterza 1971, pp280-281)
"Il corpo politico, considerato nella sua individualità, può essere considerato come un corpo organizzato, vivente e simile a quello dell'uomo... La vita dell'uno e dell'altro è l'io comune al tutto, la reciproca sensibilità, la corrispondenza interna di tutte le parti. Se questa comunicazione viene a cessare, se viene meno l'unità formale, se le parti contigue mantengono unicamente un rapporto di giustapposizione, l'uomo è morto e lo stato dissolto" (J:J:Rousseau, Scritti politici, 1, Laterza 1971, pp280-281)
giovedì 19 febbraio 2015
HEGEL - IL SISTEMA - Antonio Gargano
Il mondo fino alla Rivoluzione francese si è retto su
meccanismi automatici, che sostanzialmente implicano la prevalenza del più
forte, la prevalenza di chi riesce a raccogliere più potere. Hegel vede il
carattere nuovo della nostra epoca nata con la Rivoluzione francese nel fatto
che l’uomo prende nelle proprie mani il processo di sviluppo dei rapporti
sociali e si mette a dirigerlo secondo una progettualità, cioè secondo la
ragione: «Dacché il sole è nel firmamento e i pianeti gli ruotano intorno, non
si era visto che l’uomo poggia sulla testa, cioè sul pensiero, e, in base ad
esso, edifica la realtà [...]. Ora solo l’uomo è arrivato a conoscere che il pensiero deve governare la
realtà spirituale. Fu una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno festeggiato
quest’epoca». L’età contemporanea non si è ancora chiusa, noi viviamo ancora
nell’età aperta dalla Rivoluzione francese. Il processo che Hegel ha visto
iniziare con la Rivoluzione francese non si è ancora compiuto: il mondo umano
non è ancora plasmato, anzi purtroppo è ben lungi dall’essere plasmato dalle
forze della ragione, dalla progettualità razionale. In una filosofia così forte
l’uomo può conoscere tutta la realtà, l’uomo crea una seconda natura, questa
seconda natura può essere modellata pienamente dalla progettualità razionale: è
chiaro che si tratta di una filosofia ottimistica, possibile in un momento di
grande espansione degli orizzonti umani. Quando, nel 1830‑’48, tutto questo fulgore viene meno, si manifesta chiaramente che la
grande speranza dell’emancipazione complessiva dell’umanità non è stata
realizzata; nelle barricate del ’48 per la prima volta la borghesia si vede con
disappunto contrapposta un’altra classe sociale che le è ostile, il
proletariato, e perde la convinzione di poter essere la classe che ha
emancipato l’umanità e l’ha liberata definitivamente, inizia un ripiegamento
che dà luogo a forme di irrazionalismo, all’esistenzialismo, da cui non si è
ancora usciti. [...]
L’Illuminismo ha fallito perché pretendeva di calare ideali
dalla mente dei filosofi nella realtà, invece gli ideali li partorisce la
storia stessa: la storia è autocontraddittoria e genera da sé il nuovo. Questo
è l’aspetto che verrà sviluppato in particolare da Marx. «Ma la separazione
della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto». La tendenza a
separare reale da razionale è una delle funzioni dell’intelletto, cioè della
facoltà non pienamente matura dell’uomo che tende a vedere le cose come
separate, razionale da una parte e reale dall’altra: la mentalità
illuministica. [...]
lo spirito è l’autoconsapevolezza di sé che la natura
acquisisce nell’uomo, lo spirito è l’uomo razionale. «Questo possesso di sé
dello spirito, questo suo venire a se stesso può dirsi il suo scopo supremo,
assoluto, questo soltanto è il suo ruolo e nient’altro. Tutto ciò che avviene
in cielo ed in terra, che eternamente avviene, la vita di Dio e tutto ciò che
si opera nel tempo, tende soltanto a far sì che lo spirito riconosca se stesso,
che si oggettivi a se stesso, che trovi se stesso, che divenga per sé, che si
ricongiunga con sé. Lo spirito è sdoppiamento, è estraniamento, ma soltanto per
poter ritrovare se stesso». [...]
l’assoluto si rivela nella storia della filosofia, la storia
della filosofia culmina nel pensiero hegeliano, Hegel quindi ha la pretesa di
essere il momento di autorivelazione dell’assoluto. Hegel in qualche modo
questa pretesa l’aveva: lo spirito assoluto culmina nella filosofia e con Hegel
l’assoluto arriva all’autocomprensione di sé, quindi il circolo in qualche modo
si chiude, il sistema hegeliano ha una sua chiusura. Però Hegel non era ignaro
del fatto che altri materiali empirici, altri elementi vitali sarebbero emersi
e avrebbero avuto bisogno di una sintesi ulteriore: si può dire 170 anni dopo
la sua morte che una sintesi ulteriore poi non c’è stata, quindi finora la
filosofia hegeliana rimane la filosofia suprema, cioè la filosofia che è
riuscita meglio a sintetizzare in una strutturazione logica coerente tutto il
pensiero precedente, tutta la comprensione che l’umanità ha avuto della realtà
e del corso storico stesso. Ma si deve rilevare che, se il sistema hegeliano si
può considerare una sintesi, è pur vero che il metodo dialettico implica che
ogni sintesi si riproduce sempre come tesi e dà luogo a un ulteriore sviluppo
storico: Hegel, che è il filosofo del divenire, non pretende di chiudere col
proprio pensiero il divenire, Hegel è un filosofo aperto invece sullo sviluppo
ulteriore della realtà.
mercoledì 18 febbraio 2015
Una risposta alle "Confessioni di un marxista eccentrico" - Aristide Bellacicco
Confesso – ammetto, è meglio dire – di non aver letto
integralmente, fino ad oggi, le “Confessioni” del ministro Varoufakis. Oggi ho
avuto tempo e l’ho fatto. In effetti, queste pagine in cui Varoufakis pone se
stesso al centro di una vicenda storico-esistenziale con risonanze epocali mi
hanno fatto sorgere più di una perplessità.
Le sintetizzo – parzialmente e per punti - qui di seguito.
- 1 Scrive Varoufakis: “Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che
deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente,
la scoperta di un’…opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due
‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un
valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò
è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il
numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’
questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come
l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria.”
Ora, per quanto mi è noto, la doppia natura del lavoro in
Marx oppone il lavoro in quanto produttore di “ricchezza” (valori d’uso) al
lavoro in quanto produttore di “valore” (rintracciabile nel valore di scambio).
E’ chiaro che il “lavoro come attività di creazione di un valore” non può mai
essere quantificato in anticipo, perché è solo nella realizzazione del
plusvalore (e non nella sua produzione) che viene in chiaro quanto profitto il
capitale sia riuscito o meno a realizzare. D’altra parte, è proprio nella
riduzione del “lavoro” (ma sarebbe meglio dire della “forza- lavoro”) ad una
entità quantificabile che trova la sua ragion d’essere la produzione di valore
(e di plusvalore). E ciò, in Marx, è vero sia sotto il profilo logico che sotto
il profilo storico. Risparmio a tutti, e al buon Varoufakis soprattutto, le
citazioni arcinote in cui questa affermazione trova riscontro.
martedì 17 febbraio 2015
L'ILLUMINISMO DI FREUD* (2)** - Stefano Garroni
*Da "Su Freud e la morale (L'uomo e la società)" Stefano Garroni, Bulsoni editore
**Prima parte:
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/lilluminismo-di-freud-stefano-garroni.html
HEGEL - LA FILOSOFIA DEL DIRITTO - Antonio Gargano
«Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale.
Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa
persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell’universo
spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o
qualsiasi aspetto assuma la coscienza soggettiva, riguarda il presente come
cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, allora essa si ritrova nel vuoto
e, poichè soltanto nel presente v’è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa,
l’idea passa per essere soltanto un’idea, una rappresentazione in un’opinione,
la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non
l’idea. Si tratta allora di riconoscere nell’apparenza del temporaneo e del
transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale. Invero il
razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell’esistenza esterna,
si presenta in un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e figure; e circonda il
suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma
dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per
sentirlo appunto ancora palpitante nelle figure esterne».
«Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto, p. XIX si
trovano queste proposizioni. Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è
razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi, e han
trovato opposizioni anche da tali che non vogliono si metta in dubbio che essi
posseggano filosofia, e di certo, almeno, religione. Per ciò che concerne la
religione, non è necessario tirarla in mezzo in questo dibattito, giacché le
sue dottrine sul divino reggimento del mondo esprimono quelle proposizioni in
modo ben determinato. Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da
presupporre tanta coltura che si sappia non solo che Dio è reale, – che è la cosa più reale e che è la cosa
veramente reale, – ma anche, nel
rispetto formale, che l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte
realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio,
l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi
difettiva e passeggiera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di
pensare, un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: –
l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile,
che può non essere allo stesso modo che è. Ma, quando io ho parlato di realtà,
si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione,
giacché in una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l’ho
accuratamente distinta non solo dall’accidentale, che pure ha esistenza, ma
altresì dall’essere determinato, dall’esistenza e da altri concetti. – Alla
realtà del razionale si contrappone, da una parte, la veduta che le idee e gli
ideali non siano se non chimere, e la filosofia un sistema di questi fantasmi
cerebrali; e dall’altra, che le idee e gli ideali siano alcunché di troppo
eccellente per avere realtà, o anche di troppo impotente per procacciarsela. Ma
la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto, che
tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace, ed è tutto gonfio
del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai
volentieri; quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come
dev’essere, ma non è: che, se poi fosse come dev’essere, dove se n’andrebbe la
saccenteria di quel dover essere? Allorché l’intelletto, col suo dover essere,
si rivolge contro cose, istituzioni, condizioni, ecc., triviali, estrinseche e
passeggiere, che possono anche serbare per un certo tempo e per certe
particolari classi d’uomini una grande importanza relativa, avrà anche ragione,
e troverà in quel caso molte cose che non rispondono ad esigenze giuste ed
universali: chi non possederebbe la pazienza di scoprire, in ciò che lo
circonda, molte cose che in fatto non sono come debbono essere? Ma questa
sapienza ha torto quando immagina di aggirarsi, con siffatti oggetti e col loro
dover essere, nella cerchia degli interessi della scienza filosofica. Questa ha
da fare solo con l’idea, che non è tanto impotente da restringersi a dover
essere solo, e non essere poi effettivamente: ha da fare perciò con una realtà,
di cui quegli oggetti, istituzioni, condizioni, ecc., sono solo il lato esterno
e superficiale».
«Così dunque questo trattato in quanto contiene la scienza
dello Stato, deve essere null’altro se non il tentativo di intendere e
presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico
esso deve restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come deve essere.
L’ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere ad insegnare allo
Stato come deve essere, ma piuttosto in qual modo esso deve essere riconosciuto
come universo etico. Intendere ciò che è, è il compito della filosofia, quindi
non dare il dover essere, ma intendere ciò che è, poichè ciò che è è la
ragione, del resto, per quel che si riferisce all’individuo ciascuno è
senz’altro figlio del suo tempo ed anche la filosofia è il proprio tempo
appreso col pensiero. È altrettanto folle pensare che una qualche filosofia
precorra il suo mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci indietro il
suo tempo e salti oltre su Rodi. Se la sua teoria nel fatto oltrepassa questo,
se si costruisce un mondo come deve essere, esso esiste bensí, ma soltanto
nella sua intenzione, in un elemento duttile col quale si lascia plasmare ogni
qualsiasi cosa».
«Ma il bene, che qui è il fine universale, deve non restare
semplicemente nel mio interno, cioè puramente soggettivo e interiore come nella
morale, ma deve anche realizzarsi. La volontà soggettiva cioè esige che il suo
interno, ossia il suo fine, consegua esistenza esterna, che quindi il bene
debba essere compiuto nell’esistenza esterna».
«Non c’è alcun
pretore, arbitro supremo e mediatore fra gli Stati, e anche questi sono soltanto
in modo accidentale, cioé secondo la volontà particolare. La concezione
kantiana d’una pace perpetua, mediante una lega degli Stati, la quale appiani
ogni controversia, e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato,
componga ogni dissenzione, e quindi renda impossibile la decisione per mezzo
della guerra, presuppone l’umanità degli Stati, che dipende da ragioni e
riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura, in generale, sempre da una
volontà sovrana particolare, e, quindi, resta affetta da accidentalità».
(Hegel, Lineamenti, par. 333, aggiunta).
sabato 14 febbraio 2015
venerdì 13 febbraio 2015
Sigmund Freud - Antonio Gargano
Il pensiero freudiano può essere interpretato come una «mappa delle interferenze che deformano la coscienza» (come afferma il filosofo Remo Bodei). La psicanalisi, cioè, è un tentativo di prendere in considerazione le stratificazioni, le interferenze, le intermittenze, i piani di frattura del pensiero logico. Il concetto di razionalità deve essere ampliato, fino a comprendere anche ciò che apparentemente è refrattario alla logica e alla coscienza: le credenze, le superstizioni, ma anche i sogni, i contenuti fantastici dell’arte, i quali non presentano verosimiglianza, devono essere sottoposti ad analisi per scoprirvi i nuclei di verità che contengono. La razionalità cui siamo abituati è quella cartesiana, fondata sul principio di evidenza e sulla “chiarezza” e “distinzione” delle idee, che viene articolata mediante il ragionamento e la rigorosa deduzione. Emblema della razionalità occidentale è l’atteggiamento illuministico: la ragione è equiparata alla luce, che si diffonde sulle tenebre dell’ignoranza e della superstizione e le dissipa. Per Freud invece anche all’interno delle tenebre si celano nuclei di verità, anche se di una verità deformata, che si può manifestare nella fantasia o nella patologia, e che va decodificata, trasponendola dal linguaggio dell’inconscio in quello della coscienza. Per Freud la verità non è qualcosa che si presenta con evidenza, bensí qualcosa che «nasce da forze in lotta e da forme di compromesso: non vi è una evidenza puntuale della verità, bensí questa viene sagomata in un processo non lineare, si profila al termine di un tragitto tortuoso», come afferma ancora Remo Bodei.
http://www.iisf.it/scuola/freud/freud.htm
giovedì 12 febbraio 2015
Confessioni di un marxista eccentrico - Yanis Varoufakis
...Se la mia prognosi è corretta e la crisi europea non è soltanto un altro crollo ciclico che sarà superato presto con la ricrescita dei profitti conseguente all’inevitabile stretta sui salari, la domanda che sorge per i radicali è la seguente: dovremmo accogliere questo vasto cedimento del capitalismo europeo come un’occasione per sostituire il capitalismo con un sistema migliore? O dovremmo essere così preoccupati al riguardo da imbarcarci in una campagna per stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta negli ultimi tre anni è stata inequivocabile ed è disattesa dalla lista citata più sopra dei diversi uditori che ho cercato di influenzare. La crisi dell’Europa è, a mio parere, gravida non solo di un’alternativa progressista, ma anche di forze radicalmente regressive che hanno la capacità di causare un bagno di sangue umanitario cancellando la speranza di un qualsiasi passo avanti progressiste per generazioni a venire.
Per queste idee sono stato accusato, da voci radicali benintenzionate, di essere un ‘disfattista’, un menscevico dell’ultimo giorno che instancabilmente si batte a favore di piani lo scopo dei quali è salvare l’attuale indifendibile sistema socio-economico europeo. Un sistema che rappresenta tutto ciò che contro cui un radicale dovrebbe ammonire e lottare: un’Unione Europa antidemocratica, irreversibilmente neoliberista, fortemente irrazionale, transnazionale che non ha quasi alcuna capacità di evolvere in una comunità genuinamente umanistica in cui le nazioni dell’Europa possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa critica, lo confesso, ferisce. E ferisce perché contiene più di un nocciolo di verità.
In verità io condivido la visione di questa Unione Europea come cartello fondamentalmente antidemocratico e irrazionale che ha posto i popoli dell’Europa su un sentiero di misantropia, conflitti e recessione permanente. E mi inchino anche alla critica di aver condotto una campagna fondata sul presupposto che la Sinistra sia, e rimanga, francamente sconfitta. Dunque sì, in questo senso mi sento obbligato a riconoscere che desidererei che la mia campagna fosse di un genere diverso; che promuoverei molto più volentieri un’agenda radicale la cui raison d’etre fosse sostituire il capitalismo europeo con un sistema diverso, più razionale, piuttosto che limitarmi a promuovere la stabilizzazione del capitalismo europeo, in contrasto con la mia definizione di Buona Società.
A questo punto è forse pertinente una confessione di secondo ordine: confessare che … le confessioni tendono a essere interessate. In effetti le confessioni sono sempre sull’orlo di quanto disse una volta John von Neumann a proposito di Robert Oppenheimer, dopo aver sentito che il suo ex direttore al Progetto Manhattan era diventato un attivista antinucleare e si era confessato colpevole del suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le caustiche parole di Von Neumann furono:
“Confessa il peccato per reclamare la gloria”.
Fortunatamente io non sono un Oppenheimer e perciò non sarà troppo difficile confessare vari peccati come mezzo di autopromozione bensì, piuttosto, come finestra da cui osservare un capitalismo europeo devastato dalla crisi, profondamente irrazionale e ripugnante la cui implosione, nonostante i suoi molti mali, andrebbe evitata a ogni costo. E’ una confessione mediante la quale convincere i radicali che abbiamo una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del capitalismo europeo al fine di guadagnare il tempo che ci è necessario per formulare l’alternativa a esso.
mercoledì 11 febbraio 2015
La scuola di Francoforte - Antonio Gargano
Vedi anche: http://www.sitocomunista.it/marxismo/altri/scuolafrancoforte.html
Max Horkheimer Intervista 1968:
http://www.filosofia.it/multimedia/gilles-deleuze-l-abecedario-filosofico
Max Horkheimer Intervista 1968:
http://www.filosofia.it/multimedia/gilles-deleuze-l-abecedario-filosofico
Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda - Manlio Dinucci
Il colpo di stato in Ucraina
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando
nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di
cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito
per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina –
il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è
attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato,
come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a
far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della
«Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei
Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e
il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005,
sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e
dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato
a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato
sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il
summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un
accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le
forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel
2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la
cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo.
Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami
all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a
corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi
riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello
stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina,
di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata
anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per
facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle
forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato.
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul
ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati
stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di
informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di
«rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. E
poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una
rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di
quella che appare.
Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi
segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti
neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti
ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che
insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi
e attentati. Lo stesso fece la Nato durante la guerra fredda per formare la
struttura paramilitare segreta di tipo «stay-behind», col nome in codice
«Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vennero
addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo
di stato.
È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza
Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno
l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti»
cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti
che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa). Il 20 febbraio 2014 il
segretario generale della Nato si rivolge, con tono di comando, alle forze
armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze
negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e
da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è
costretto alla fuga. La direzione delle forze armate viene assunta da Andriy
Parubiy, cofondatore del partito socialnazionalista ridenominato Svoboda,
divenuto segretario del Comitato di difesa nazionale, e, in veste di ministro
della difesa, da Igor Tenjukh, legato a Svoboda.
La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro
passo nella sua espansione ad Est, inglobando l’Ucraina. Lo conferma la
riunione dei ministri Nato della difesa, che si svolge il 26-27 febbraio 2014
al quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina,
con la quale – sottolineano i ministri
nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui
quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria
«la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina).
I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella
crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che
per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia
stabilmente sotto la Nato).
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