venerdì 17 marzo 2017

Marxismo e femminismo*- Simona De Simoni**

*La conferenza si è tenuta nell'ambito del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società dell'Università degli studi di Milano-Bicocca.
**   http://operaviva.info/schede/simona-de-simoni/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-giornata-internazionale-delle-donne.html#more

Una panoramica storica:


Dalla seconda metà del novecento: 
https://www.youtube.com/watch?v=3KGFH4Ie6kU 

giovedì 16 marzo 2017

Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?*- Karl Marx

*Da K. Marx “Lavoro salariato e capitale”   https://ildiariodellatalpa.wordpress.com/
 Tutto il testo:   https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/lavcap.htm


Passiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?

Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro salario?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un franco [22] al giorno dal mio borghese”, l’altro: “Io ricevo due franchi”, ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per un determinato tempo di lavoro [23] o per fare un determinato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa.

Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il borghese [24] paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro. Il borghese [25] compera, dunque, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro [26]. Con la stessa somma di denaro con la quale il borghese ha comperato il loro lavoro [27], per esempio con due franchi, avrebbe potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altra merce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbre di zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I due franchi con i quali egli ha comperato dodici ore di lavoro [28], sono il prezzo del lavoro di dodici ore. Il lavoro [29], dunque, è una merce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la bilancia.

Gli operai scambiano la loro merce, il lavoro [29], con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto lavoro [30]. Per tessere dodici ore, due franchi. E i due franchi, non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare per due franchi? Di fatto, quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro [29], contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due franchi esprimono dunque il rapporto in cui il lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suo lavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo del lavoro [31]; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo.

mercoledì 15 marzo 2017

America Latina: dal boom economico alla crisi* - Osvaldo Coggiola**

*seminario alla Biblioteca Popolare A. Gramsci del Tufello, via Monte Favino 10, Roma, 10/03/17
**Osvaldo Coggiola, prof di Storia presso la Università di San Paolo del Brasile (USP)

martedì 14 marzo 2017

Marx rivisitato (2): capitale, lavoro e sfruttamento*- Riccardo Bellofiore

*Da:   http://www.dialetticaefilosofia.it/   (pubblicato in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)  
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/marx-rivisitato-capitale-lavoro-e.html 


   Lavoro astratto, scambio e produzione capitalistica

[…] Secondo Marx, le merci si scambiano perché già eguali prima del loro confrontarsi sul mercato.

Le merci hanno cioè un valore di scambio, si pongono in certi rapporti relativi tra di loro, perché sono valori assoluti, prima della metamorfosi finale con il denaro, che pure è la loro destinazione essenziale. Dietro il valore assoluto Marx rinviene, appunto, nient’altro che lavoro astratto oggettivato [18].

Il modo di esposizione all’inizio del Capitale dà l’apparenza di svolgersi secondo un processo logico che va dal valore di scambio al valore al lavoro; e, perciò, di una progressiva espunzione dalle merci di tutte le caratteristiche diverse da quella di essere meri prodotti di lavoro.

Come è stato mille volte osservato, se si ragiona secondo questa procedura, non si vede perché oltre al lavoro, elemento attivo della produzione, non dovrebbe rimanere anche la natura, elemento passivo.

Quest’ultima, d’altra parte, entra nei processi produttivi come natura trasformata: include perciò, oltre alle quantità di lavoro passato coagulato nei mezzi di produzione, anche la scienza, la tecnica e l’innovazione. Non si vede allora perché anche questi ulteriori elementi non debbano essere considerati creatori del valore. Sarebbe inoltre, in questo caso, decisiva l’obiezione di Böhm- Bawerk: oltre all’essere prodotti di lavoro, le merci possiedono tutte la caratteristica dell’utilità – esistono, semmai, merci che non sono esito di processi di lavoro.

Il fatto è che la sequenza marxiana non va letta dal valore al lavoro ma in senso inverso, dal lavoro al valore [19]. La domanda che si pone Marx è in sostanza questa: quale è la condizione del lavoro in quella situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce nel momento in cui gli esseri umani producono, ma posteriormente, nello scambio di prodotti in quanto merci?

Qual è, dunque, la condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo impersonale del mercato – alle cose – invece che essere implicita già nella stessa attività?

Quando, insomma, la socialità di ciò che hanno prodotto si realizza post factum, e si incarna in un potere d’acquisto generale, indifferente a ogni determinazione specifica, il denaro?

lunedì 13 marzo 2017

«Concentrare tutte le forze» contro «il nemico principale»*- Domenico Losurdo




«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico».
(Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista) 


Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi

1. Democrazia e pace?

Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati eliminati» (Sherry 1995, p. 182).

Non si trattava di un sogno, raccapricciante quanto si voglia ma senza contatti con la realtà: in quegli anni l’arma atomica veniva ripetutamente brandita contro la Cina impegnata a completare la rivoluzione anticoloniale e a conseguire l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale. La minaccia risultava tanto più credibile a causa del ricordo, ancora vivido e terribile, di Hiroshima e Nagasaki: le due bombe atomiche lanciate sul Giappone agonizzante ma con lo sguardo rivolto – su questo concordano autorevoli storici statunitensi (Alperovitz 1995) – anche o in primo luogo all’Unione Sovietica. Del resto, a essere minacciati non erano solo l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese. Il 7 maggio 1954, a Dien Bien Phu, in Vietnam, un esercito popolare guidato dal partito comunista sconfiggeva le truppe di occupazione della Francia colonialista. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense Foster Dulles si era così rivolto al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente contro il Vietnam?) (Fontaine 1968, vol. 2, p. 118).

Nonostante non indietreggiassero neppure dinanzi alla prospettiva dell’olocausto nucleare pur di contenere la rivoluzione anticoloniale (essenziale elemento costitutivo della rivoluzione democratica), nonostante tutto ciò, in quegli anni gli Stati Uniti e i loro alleati propagandavano la NATO da loro fondata come un contributo alla causa della democrazia e della pace. È in questo contesto che va collocato il discorso nel marzo 1949 pronunciato da Togliatti alla Camera dei deputati, in occasione del dibattito relativo all’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica:

«La principale delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non fanno le guerre. Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente che non abbiamo un minimo di cultura politica o storica? Non è vero che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano come democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per conquistare determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù indigene dei pellerossa, per distruggerle, dando uno dei primi esempi di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente».

Non si doveva neppure dimenticare «la ‘crociata delle 19 nazioni’, come venne chiamata allora da Churchill» contro la Russia sovietica, ed era peraltro sotto gli occhi di tutti la guerra della Francia contro il Vietnam, in quel momento in pieno svolgimento (TO, 5; 496-97).

sabato 11 marzo 2017

La crisi dell'economia italiana all'interno della crisi dell'area euro - Marco Veronese Passarella

Seminario di Marco Veronese Passarella nell'ambito del corso di Economia Monetaria.

Un'interpretazione basata sul paradigma della riproducibilità.Una risposta critica di Riccardo Bellofiore. 

venerdì 10 marzo 2017

DEL FETICISMO*- Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione del 2/04/99 sul CAP. 24° DEL TERZO LIBRO DEL CAPITALE.   https://www.facebook.com/groups/
Qui l’audio di tutto l’incontro https://www.youtube.com/playlist?list=PLF3B95A47287B917B
Qui tutta la trascrizione dell'incontro:  https://www.facebook.com/mirko.bertasi.7/posts/10212727174763040 


Stefano Garroni: [...]L’affermazione “la dottrina marxista-leninista” è totalmente folle, perché non esiste empiricamente. 

Perché esiste una ricerca che non è conclusa, e sulla base di una non-conclusione Marx ne ha pubblicata una parte. Quindi è tutto un lavoro da fare ancora. E va sempre ricordato che Marx di libri ne ha pubblicati pochissimi. Ha pubblicato Miseria della filosofia, La sacra famiglia, e il primo libro de Il capitale. Il resto sono opuscoli e materiale enorme per libri che non vengono mai scritti.

Poi ovviamente con Lenin la cosa è ancora più evidente perché essendo un uomo politico interviene sempre sul “momento”, sostanzialmente: modifica, rettifica, cambia, e quindi il senso fondamentale è quello di una elaborazione in movimento, in sviluppo.

[...]I termini vanno intesi come schemi di ragionamento, come problematiche, come impostazione dei problemi. Voglio dire: c’è un’osservazione che fece Bertrand Russell, a proposito di Hegel. Russell dice che Hegel è un pensatore il cui intento è superare le contraddizioni, togliere le contraddizioni. Generalmente quando si parla di Hegel si parla del filosofo che mette in evidenza le contraddizioni. Russell sottolinea che Hegel vuole toglierle le contraddizioni. Questa osservazione è estremamente importante e giusta, nel senso che per Hegel è chiaro che se io metto in evidenza l’esistenza di una realtà contraddittoria, allora metto in evidenza anche l’esistenza di un processo oggettivo che tende al superamento di quella contraddizione. Hegel prende posizione per questo processo obiettivo che potenzialmente toglie le contraddizioni. La contraddizione per Hegel è scandalo che va tolto.

[...]Se io mi muovo per il superamento delle contraddizioni vuol dire che io ritengo sia che le contraddizioni debbano essere tolte, sia che le contraddizioni possono essere tolte.

giovedì 9 marzo 2017

Lavoro agile o smart working: il lavoro del futuro (o del presente?)*- Benedetta Gagliardoni**

**Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Macerata
Leggi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/smart-working-sfruttamento-illimitato.html   

Chi non sognerebbe di poter svolgere almeno parte del proprio carico lavorativo al di fuori del normale posto di lavoro?
Questa idea, fino a poco tempo fa un’utopia, sta prendendo piede anche nel nostro Paese, diventando una modalità di lavoro sempre più concreta.
Lavoro agile o smart working?

Il lavoro agile, detto anche “smart working”, nasce a seguito dell’avvertita esigenza di individuare strumenti in grado di rendere maggiormente flessibile la prestazione lavorativa e di aumentare, così, la produttività, riducendo i costi in capo al datore di lavoro e favorendo la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro del prestatore.
L’equiparazione linguistica tra l’espressione inglese “smart working” e la traduzione italiana “lavoro agile” ha suscitato diverse perplessità, dovute al fatto che, mentre la seconda sembra rimandare direttamente all’obiettivo di semplificare l’armonizzazione tra vita quotidiana e lavoro, evocando, così, una modalità lavorativa parzialmente indipendente, la prima, traducibile letteralmente come “lavoro intelligente” sembrerebbe volta maggiormente a sottolineare la volontà di trovarsi in una realtà lavorativa caratterizzata da tecnologia, efficienza, versatilità, creatività ed al passo con i tempi. Tuttavia, seppur le due espressioni assumano significati non propriamente coincidenti, si ritiene opportuno individuare l’essenza del lavoro agile o smart working per mezzo di un’operazione di bilanciamento tra quelle che sono le esigenze prettamente conciliative tra vita e sfera lavorativa e quello che è il mutamento del metodo di lavoro, sempre più tendente a modalità “smart” di svolgimento della prestazione lavorativa.

L’intervento del Ddl 2233: cosa si intende per lavoro agile?

mercoledì 8 marzo 2017

La giornata internazionale delle donne*- Aleksandra Kollontaj** 

*Tradotto da www.marxists.org. Prima pubblicazione: Mezhdunarodnyi den' rabotnitz (International Women's Day), Moscow 1920.      http://www.antiper.org/  
**(San Pietroburgo, 31 marzo 1872 – Mosca, 9 marzo 1952), è stata una rivoluzionaria russa, la prima donna nella storia che abbia avuto l'incarico di ministro e di ambasciatrice. 



 Una celebrazione militante 

La Giornata delle Donne (o Giornata delle donne lavoratrici) é una giornata di solidarietà internazionale e un giorno per ricordare la resistenza e l’organizzazione delle donne proletarie.
Ma questa non è una giornata speciale solo per le donne. L’8 marzo è una data storica e memorabile per gli operai e i contadini, russi e di tutto il mondo. Nel 1917, in questo giorno prese avvio la grande Rivoluzione di Febbraio [1]. Furono le operaie di Pietrogrado ad iniziare questa Rivoluzione; furono esse che decisero di innalzare la bandiera dell’opposizione allo zar e ai suoi sostenitori. E così questo giorno, per noi, è una doppia celebrazione.
Ma se questa è una festa per tutto il proletariato perché la chiamano Giornata della donna? Perché teniamo incontri e celebrazioni dedicate in modo particolare alle operaie e alle contadine? Non può questo, forse, offuscare l’unità e la solidarietà della classe lavoratrice?
Per rispondere a queste domande dobbiamo fare un passo indietro. A come e perché fu organizzata la Giornata della donna.

 Come e perché è stata organizzata la giornata della donna?

Non molto tempo fa, in effetti circa dieci anni fa, la questione dell’uguaglianza della donna e la questione della sua partecipazione al governo accanto agli uomini erano fortemente dibattute. La classe operaia in tutte le nazioni capitalistiche lottava per i diritti delle lavoratrici: la borghesia non voleva accettare queste rivendicazioni. Non era nel suo interesse rafforzare il voto della classe operaia nel parlamento; e in tutti i paesi i borghesi ostacolarono il passaggio di leggi che davano più diritti alle lavoratrici.
I socialisti del Nord America premevano sulla propria rivendicazione del voto con particolare insistenza.
Il 28 febbraio 1909 le donne socialiste degli Stati Uniti organizzarono grandi manifestazioni e incontri in tutto il paese, rivendicando i diritti politici per le donne lavoratrici. Questa fu la prima “Giornata della donna”. L’iniziativa per l’organizzazione di questa giornata spetta quindi alle operaie d’America.
Nel 1910 alla Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Operaie, Clara Zetkin portò avanti la proposta di organizzare una Giornata internazionale delle donne lavoratrici. La conferenza decise che ogni anno, in ogni paese, si sarebbe celebrata nello stesso giorno, una “Giornata della Donna” sotto lo slogan “Il voto alle donne unirà la nostra forza nella lotta per il socialismo”.
In quegli anni la richiesta di rendere il parlamento più democratico allargando appunto il suffragio ed estendendolo alle donne era una questione vitale. Precedentemente alla prima guerra mondiale gli operai avevano il diritto di voto in tutte le nazioni borghesi ad eccezione della Russia. Solo le donne, come i malati di mente, rimanevano senza questo diritto. Allo stesso tempo però, la dura realtà del capitalismo esigeva che la donna partecipasse all’economia della nazione. Ogni anno c’era un incremento nel numero di donne che lavoravano nelle fabbriche e nei negozi, o come domestiche o donne a ore. Queste donne lavoravano accanto agli uomini e producevano con le loro mani la ricchezza del paese. Ma restavano senza diritto di voto.
Ma negli ultimi anni prima della guerra l’aumento dei prezzi spinse anche le casalinghe più pacifiche ad interessarsi delle questioni politiche ed a protestare ad voce alta contro la politica di saccheggio della borghesia. Le “rivolte delle casalinghe” divennero sempre più frequenti, infiammandosi in momenti diversi in Austria, Inghilterra, Francia e Germania.
Le lavoratrici compresero che non era sufficiente fracassare i banchetti al mercato o minacciare qualche commerciante: capirono che queste azioni non abbassavano il costo della vita. Bisognava cambiare la politica del governo. E per realizzare questo, la classe lavoratrice doveva ottenere che fosse esteso il diritto di voto.
Fu deciso di istituire una Giornata delle donne in ogni nazione come forma di lotta per il diritto di voto. Questa giornata doveva essere una giornata di solidarietà internazionale nella lotta per obiettivi comuni e per misurare la forza delle donne lavoratrici organizzate sotto la bandiera del socialismo.

L'evoluzione della donna - Maria Turchetto

domenica 5 marzo 2017

Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista*- Enzo Pellegrin


Si sente spesso parlare della "proletarizzazione del ceto medio" come fenomeno sociale dell'attuale epoca economica. Recentemente, sull'Espresso, discorrendo dei recenti tumulti romani di tassisti e ambulanti, l'editorialista Gilioli aveva modo di notare come "con un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.[…] i conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. […] Poi però accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo per portare a casa un reddito. Ci saranno soluzioni più soddisfacenti per i consumatori di quanto siamo noi, a un costo minore. Nessuno, fuori, ci rimpiangerà."

Viene spontanea una riflessione: il progresso tecnologico non ha un effetto neutro: dipende dalle mani e dai cervelli che lo possiedono.

Personalmente non vedo affatto negativamente un mondo in cui un certo tipo di lavoro divenga obsoleto e vi siano dei mezzi tecnici per evitarlo. Se la produzione di ricchezza fosse collettivamente determinata, distribuita a ciascuno in base ai propri bisogni ed alle proprie aspirazioni e finalizzata alle necessità reali della collettività e dell'ambiente, non avrei nulla in contrario verso i mezzi che rendono obsoleta la fatica per produrla. In queste condizioni 
tutti ne avremmo un equo vantaggio. Lavoreremmo di meno per produrre un valore a vantaggio di tutti.


Perché ci si dovrebbe opporre al fatto che l'ente collettivo trasporti i passeggeri con una navetta ad intelligenza artificiale a tutte le ore anziché utilizzando la fatica di un'autista? Se quell'autista, per questo, non perde un lavoro, ma ci guadagna un vantaggio, potendo impiegare diversamente il proprio tempo ed il proprio lavoro altrove a vantaggio proprio e del collettivo, perché essere contrari?

Nel mondo nostro, all'interno del capitalismo globalizzato, 
non è però così.

Ogni innovazione tecnologica è - nel nostro sistema economico - finalizzata a produrre il maggior profitto per il capitalista privato che la promuove e ne sfrutta i vantaggi.

I vantaggi delle innovazioni tecnologiche consistono spesso nella possibilità di diminuire la quantità di lavoro umano necessaria per produrre una data quantità di ricchezza.

Ma non sempre.

sabato 4 marzo 2017

L'ultimo contadino (The Last Farmer) - Giuliano Girelli

L'agricoltura contadina produce cibo per oltre il 70% della popolazione del pianeta, mentre l'agricoltura industriale non provvede che al 30%; ciò nonostante 2.8 miliardi di persone nel mondo vivono con meno di 2 dollari al giorno, la maggioranza di queste persone sono contadini o ex contadini che ora vivono nelle baraccopoli di qualche grande città. 
Questo documentario parla di loro, della globalizzazione e dunque anche di noi. 

 Documentario sui danni della finanza al "3° mondo"...

venerdì 3 marzo 2017

ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO*- Stefano Garroni

 *Brevi passaggi dall’intervento nell’Incontro-Convegno tenutosi alla Sapienza di Roma il 18/03/99 su LE ILLUSIONI DEL POSTMODERNISMO di T. EAGLETON – A.Ciattini, A.Simonicca, A.Colajanni, N.Gasbarro, S.Garroni.   https://www.facebook.com/groups/276130642477707/?fref=ts  
        
 [...]C'è una sola illusione: quella di esistere. Il post-modernismo non esiste.

 [...]Immaginate un grande pittore che faccia un quadro, dopo un po' di anni questo quadro viene stampato, riprodotto e venduto al supermercato. Questo momento è il post-modernismo.

 [...]Colajanni descrive certe vicende delle università. Ma collega Colajanni questo è proprio l'emarginazione, la marginalità! Ha ragione Eagleton, non è che io non sono marginale perché manovro i dollari, è che la cultura è stata resa marginale da un sistema di potere che è sempre di più concentrato in poche mani che sono volgarmente le multinazionali che hanno i soldi da dare ai professori universitari, e questi fanno i giochetti tra di loro, ma non hanno più nessun peso effettivo.  

 Questo è il punto reale. Si scopre una certa marginalità nel post-modernismo? ma certo, ma si tratta di quegli strati piccolo o medio borghesi che hanno creduto alla possibilità di un nuovo grande New Deal, di un nuovo grande momento del capitalismo che assicurasse a tutti, cioè a loro, ricchezza, benessere, libertà, potere: non è successo. Non è successo. Recentemente è uscito un articolo di una studiosa americana, negli Stati Uniti, in cui giustamente si sottolinea che al di là dell'asprezza degli scontri nel ‘68, negli Stati Uniti in particolare, gli obiettivi di lotta erano quelli di un capitalismo democratico. Un largo strato di intellettuali ha creduto di poter accedere finalmente al potere. Non ce l’ha fatta. Il grande crollo è questo, la grande disillusione di non potere avere spazio nella società dei padroni. E non ce l'hanno infatti.

 [...]Noi abbiamo, con una profondità notevolissima, con una ricchezza di temi enorme, con un'attualità formidabile - questa si attuale, penso a Kierkegaard, penso Nietzsche, per esempio, altro che Vattimo questa roba qua -, abbiamo una tematizzazione profondissima, ricca, densa, di tutti i problemi che noi stiamo vivendo. Però noi li stiamo vivendo a livello del supermercato, della riproduzione di supermercato. Lì venivano vissuti in maniera molto seria, molto profonda.

 [...]Nel ‘68, i colleghi lo ricorderanno, era un luogo comune la critica al soggetto cartesiano, perché è un soggetto autoritario, unilaterale, e implica la dittatura della ragione. Questo significa non aver letto minimamente, per esempio, il discorso sul metodo. Dove la dimensione è completamente un'altra. Non aver riflettuto su che cosa vuol dire l'arbitrarismo teologico di Cartesio. Cartesio in definitiva dice: “A noi è sicuramente evidente che uno più uno fa due, non c'è dubbio. Perché è evidente? Perché così Dio ha voluto. Ma avrebbe potuto volere altrimenti”. Il che vuol dire costruire il mondo su una situazione di arbitrio. Con buona pace della dittatura della ragione, dell'unilaterale ragione che tutto soffoca. Non è vero! 

 Tutto il pensiero moderno nasce con il senso fortissimo del dramma, dell'ambiguità. Giustamente Colajanni ricordava quel libro che mette in questione non la post-modernità, ma la modernità. Ha ragione. In che senso? ovviamente, nel senso che la post-modernità, le fesserie che l'industria culturale ci ammannisce, sulla base di Vattimo e di tanti altri imbroglioni del genere (non esiste). Per esempio se noi andiamo effettivamente a studiare le cose, ma dove sta questa cattiva ragione che tutto imprigiona? Sta in Diderot? In Hume? In Locke? Dove sta? Tutta la cultura moderna è piena del senso del dramma, dell'ambiguità, della complessità. Pensate a Kant. Là dove la ragione è un progetto, è un qualcosa da costruire, è un impegno morale. Se la ragione è un impegno morale vuol dire che non è nei fatti. È un impresa in cui io mi butto e devo rischiare: vinco, perdo, non so.

 [...] Alt! il post-modernismo è una falsificazione totale. Certo se noi andiamo alle cose serie, per esempio andiamo a Nietzsche, per esempio andiamo a Kierkegaard, per esempio andiamo a Schopenhauer, cogliamo qualche cosa di molto importante, che sono quelle ambiguità, quelle contraddizioni grandi che si nascondono nella società moderna. Anche i suoi momenti più grandi di conquista di libertà: la democrazia, il parlamentarismo. Beh, le analisi di Nietzsche, di Schopenhauer, sono formidabili. C'è un anticipo netto del dramma del totalitarismo della società democratica, dell'appiattimento della personalità che la società democratica comporta. Uno dei cui effetti è il post-modernismo. Solo in un uomo diventato misero, piatto, il post-modernismo può valere come atteggiamento culturale. Badate, voglio dire esattamente questo: ha senso leggere Kierkegaard, ha senso leggere Nietzsche, ha senso leggere Schopenhauer. Io non condivido le loro posizioni, ma qui imparo. Non ha senso leggere Derrida, Vattimo e quest'altra roba qua. Non ha nessun senso, non imparo, non capisco meglio il mondo, non acquisto una nuova problematicità. Qui ha ragione Eagleton ed è molto bella la descrizione che faceva Colajanni, perché ha perfettamente ragione. 

 Quante cose sono accennate, per esempio in questo libro è nettamente presente Wittgenstein. È nettamente presente un certo modo di leggere Hegel, Kant, mediato dalla tradizione empiristica che è di grandissimo interesse. Proprio contro quella compresenza della falsa sinistra, o della sinistra chiusa nel dogma. È presente Wittgenstein in Eagleton. Io non sono antropologo quindi non so fare il paragone che faceva Colajanni, ma certo che questa enfasi sull’ “immaginiamo”, io la leggo come un diretto chiamare in causa Wittgenstein appunto, ed è - mi soffermo su questo per un motivo, non sto facendo arena accademica -, wittegensteiniano il fatto anche che questo sottolineare i momenti immaginativi “immaginiamo che …”, non ha nulla a che fare con il post-moderno. Questo “immaginiamo che …”, serve poi a tornare nella realtà per capirla meglio, e Wittgenstein lo sottolinea molte volte. I giochi linguistici che io immagino, invento, hanno la funzione di farmi capire meglio il gioco linguistico reale, della lingua che effettivamente parliamo. Questo non è post-moderno. Questo è un uso dell'immaginazione per allargare gli strumenti di cui posso disporre per capire ciò che c'è. [...] 

giovedì 2 marzo 2017

L'etica degli Stoici*






Ogni essere vivente fin dalla nascita tende spontaneamente alla propria conservazione, scegliendo le cose consone alla propria natura: questo è il punto di partenza dell'etica stoica, che riconosce però all'uomo la capacità di approfondire questo livello istintivo grazie all'opera del logos. Questo è in grado di riconoscere l'ordine dell'universo e di perseguire quindi il bene supremo nel volontario adeguamento al fato. Vivere secondo natura significa in conclusione per l'uomo vivere secondo il logos, sopprimendo tutte le passioni (piacere e dolore, desiderio e paura) che turbano l'esercizio della ragione. Tutto ciò che non tocca questa razionalità è «indifferente»: vita e morte, salute e malattia, ricchezza e povertà; laddove possibile tuttavia le cose consone alla propria natura vengono preferite, e sono anzi il presupposto di quelle azioni «convenienti» che costituiscono la normale vita sociale degli uomini. 


  

Il primo impulso

L'etica stoica condivide con molte tendenze dell'etica antica sia uno stretto legame con il problema della felicità, sia una fondazione (per lo meno nella formulazione datale da Crisippo) nell'osservazione della realtà naturale. Il punto di partenza consiste infatti nell'osservare quale sia il «primo impulso» (próte hormé) nella natura dell'uomo e dei viventi in generale. Già le testimonianze evidenziano come questo punto di partenza sia determinato in polemica con Epicuro:
Affermano che il primo impulso per l'animale è tendere a conservare sé stesso, perché la natura fa sì che l'animale si appropri di sé fin dal principio (oikeióuses autó tes phýseos ap'archés), come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, dove dice che il «primo proprio» (próton oikéion) per ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di essa. Infatti non sarebbe verosimile né che la natura facesse alienare un animale da sé, né che dopo averlo fatto non lo facesse né alienare né appropriare. Resta dunque da dire che dopo averlo costituito lo faccia appropriare a sé stesso: così infatti respinge le cose dannose e cerca quelle appropriate.
Ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo impulso degli animali vada verso il piacere, mostrano che è falso. Affermano infatti che il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.
In nulla, affermano, la natura differisce riguardo alle piante e riguardo agli animali, perché pur senza impulso e sensazione amministra anche le prime, e d'altra parte in noi alcune cose avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali in più si aggiunge l'impulso, servendosi di esso vanno verso le cose proprie. Dunque per questi vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall'impulso, mentre, dato che il logos è dato agli esseri razionali per una più perfetta costituzione, vivere secondo natura diventa per essi esattamente vivere secondo logos. Infatti questo si aggiunge come artefice dell'impulso (SVF III.178).

martedì 28 febbraio 2017

Trotzky, il profeta ricordato* - Stefano Paterna

*Isaac Deutscher, Il Profeta esiliato,Milano, PGreco Edizioni, 2011, p. 436.  https://www.lacittafutura.it/ 



Ci fu un tempo nel quale alle labbra del proletariato internazionale perveniva il medesimo grido: “Viva Lenin! Viva Trotzky!”. Negli anni che vanno dall’Ottobre rosso fino alla fine degli anni ’20, ma anche dopo, fino al suo assassinio in Messico, il nome di Lev Davidovic Bronstein detto Trotzky è rimasto il sinonimo della Rivoluzione in Russia e nel mondo.

La riedizione nel 2011 della bellissima trilogia biografica di Isaac Deutscher sul grande rivoluzionario (“Il profeta armato”, “Il profeta disarmato” e “Il profeta esiliato”), da parte della casa editrice PGreco, dà modo di apprezzare a pieno lo spessore del personaggio, la sua dimensione umana, la vastità della tragedia che non è solo personale, ma di un’intera epoca e ha segnato in modo profondo il movimento comunista e il pensiero marxista.

Il comunismo post 1991, più che mai in occasione del centenario della Rivoluzione del 1917, non può permettersi ancora abiure e dimenticanze: se vuole ridestarsi al ventunesimo secolo ha bisogno dell’intera sua storia e di tutta la ricchezza e varietà del marxismo (o più correttamente dei marxismi), come già ribadito in altra occasione su questo stesso giornale (a proposito di Bordiga). Di questa ricchezza e varietà è parte importantissima l’esperienza politica e teorica di Lev Trotzky, fondatore dell’Armata Rossa, presidente del Soviet di Pietrogrado nel corso della prima Rivoluzione del 1905 e poi di nuovo nel 1917, commissario agli Affari Esteri della Repubblica Sovietica e firmatario del Trattato di Brest-Litovsk che, per quanto riguarda la Russia, pose fine alla Prima Guerra Mondiale. Di fatto, al di là delle opinioni e delle preferenze ideologiche, l’esponente bolscevico più importante e maggiormente coinvolto nella Rivoluzione di Ottobre, dopo Lenin.

Certo, a partire dalla metà degli anni ’20 la marea montante dello stalinismo lo sommergerà di calunnie e di accuse le più fantasiose e aberranti fino a dipingerlo prima come un agente di Hitler e del Giappone imperiale e poi dell’imperialismo Usa. Tuttavia della sua proposta politica (industrializzazione accelerata e collettivizzazione dell’agricoltura) prenderà nota lo stesso Stalin che parzialmente e brutalmente la applicherà a partire dal 1929. Il medesimo Stalin che rimarrà ossessionato dalla figura dell’esule (pure ormai privo di qualsiasi potere rilevante) fino al 1940, quando lo farà uccidere da un sicario del NKVD, Ramon Mercader.

Di tutto ciò e di moltissimo altro scrive diffusamente Isaac Deutscher nella sua imponente trilogia pubblicata tra il 1954 e il 1963. Deutscher (1907-1967) è stato sì un militante del Partito Comunista Polacco e della sua corrente antistalinista, ma da storico ha dato vita nella biografia di Trotzky a un’opera assolutamente equilibrata che non nasconde le sue simpatie e le sue avversioni, ma le fonda sulla robustezza dei fatti. Così, non viene occultata la funzione progressiva dello stalinismo a partire appunto dalla scelta di recidere il cordone ombelicale con la Russia arcaica e contadina, anche se quel taglio suggerito dalla Opposizione unificata di Trotzky, Zinovev e Kamenev, fu applicato con una tale violenza e con i conseguenti gravi squilibri che i tre oppositori di certo non auspicavano; e non vengono dimenticati gli errori tattici che Trotzky commise a partire dalla morte di Lenin in poi non ponendo immediatamente e sino in fondo la questione dell’esautorazione del georgiano dal ruolo di segretario generale del partito come gli chiese di fare lo stesso Lenin poco prima di morire oppure con la stessa fondazione della Quarta Internazionale, creatura nata morta e di fatto sterile, così come gran parte delle sette trotzkiste avvicendatesi negli anni seguenti alla morte del fondatore. Di tutt’altra pasta erano invece i trotzkisti sterminati alla fine degli anni ’30 in Urss e che andavano alla morte cantando l’Internazionale.

lunedì 27 febbraio 2017

Uscire dall’Euro?*- Gennaro Zezza**

*Questa è la prima bozza di un documento divulgativo che mi è stato richiesto.      http://gennaro.zezza.it/  
**Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale

  
Wynne Godley, nel 1992, scriveva a proposito del progetto dell’Euro:
la creazione di una moneta unica porterà alla fine delle sovranità nazionali e alla capacità di agire in modo indipendente su questioni di rilievo…. La capacità di stampare moneta, e per il governo di finanziarsi presso la propria Banca centrale, è l’aspetto più importante dell’indipendenza nazionale. … Se vi si rinuncia, ci si trasforma in una autorità locale, o una colonia. … e quando arriva una crisi, se il Paese ha perso la capacità di svalutare e non può beneficiare di trasferimenti fiscali a compensazione, non c’è nulla che possa fermarne il declino, fino all’emigrazione come unica alternativa alla povertà”(1)

Abbiamo voluto l’euro, abbiamo avuto il declino, e ora l’emigrazione e l’aumento della povertà. E il sottoporre le nostre leggi di bilancio alla Commissione Europea è solo una delle dimostrazioni del fatto che il Governo è diventato una “autorità locale”.

Ma allora perché abbiamo adottato l’Euro?
Per lo stesso motivo per cui molti vogliono rimanerci! Era già chiaro, nei dibattiti parlamentari che hanno preceduto la firma dei Trattati, che rinunciare alla politica dei cambi e alla politica monetaria comportava una compressione dei salari. La decisione di entrare nell’Euro è stata politica, motivata dal desiderio di conribuire a scrivere le regole della “casa comune europea”. Questo desiderio si è rivelato una pia illusione, perché nonostante il peso economico dell’Italia, l’evoluzione delle regole dell’Unione europea e della gestione dell’Euro hanno tutelato principalmente i gruppi industriali e finanziari del Nord, con scarsi interventi di bilanciamento. 

domenica 26 febbraio 2017

Perché distruggere la scuola pubblica?*- Paolo Di Remigio

*Da:     http://www.badiale-tringali.it/
Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sono-utili-le-prove-invalsi-giorgio.html


La vicenda della scuola pubblica italiana va inserita nella vicenda della repubblica: l'Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, dunque a sovranità più o meno strettamente limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Negli anni '90 la sua classe dirigente, abituata a un'ampiezza di movimento non più compatibile con i progetti neoconservatori statunitensi di impero globale, è stata liquidata e sostituita da avventizi alle dirette dipendenze dei poteri globali, che hanno occupato tutti i posti di gestione, dallo Stato alle banche, dai partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti. Compito di questi proconsoli era la rinuncia a ogni sovranità dello Stato e l'attuazione di politiche economiche neoliberali; di qui l'adesione cieca alle più folli geopolitiche anglo-americane e la partecipazione autolesionistica al progetto europeo. Nel nome delle regole europee è stata smantellata l'economia mista; le imprese pubbliche che avevano portato l'Italia a diventare una delle maggiore potenze industriali sono state privatizzate; è stata ridotta la spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono diventati sempre più inefficienti e costosi per i cittadini; le pensioni così ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza privata, le file d'attesa agli ospedali così lunghe da costringere a ricorrere alla sanità privata oppure a rinunciare a curarsi, la scuola pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva di un'offerta di istruzione privata.

Lo Stato minimo implica la scuola minima. La scuola minima è quella che include, diverte, nonistruisce. Se istruisse non ci sarebbe spazio per la scuola privata e questo offende il primo articolo di fede dell'ideologia neoliberale: la superiore efficienza dell'impresa privata rispetto all'impresa pubblica. Modello delle politiche scolastiche europee è diventato così il sistema educativo anglosassone che combina una scuola pubblica gratuita, ma degradata al punto da dover disporre i 'metal detector' per arginare le violenze, con una scuola privata, che promette facile accesso al mondo del lavoro, ma costosa, per frequentare la quale ci si può indebitare per tutta la vita – un sistema fallimentare a parere unanime, denunciato ultimamente dal primo ministro May e dal presidente Trump; un sistema che non può funzionare perché la scuola privata su cui poggia trasforma in cliente l'alunno, gli dà dunque una prevalenza sull'insegnante che rende improponibile la severità e la fatica dell'imparare; un sistema che però consente un imponente giro d'affari: solo se la scuola pubblica diventa un ospizio, può nascere una domanda solvente di istruzione qualificata, cioè genitori disposti a pagarla per i loro figli; solo questa domanda può sostenere un'offerta di istruzione qualificata, cioè una scuola privata che non sia più soltanto confessionale o parassitaria della scuola pubblica, ma che costituisca il centro nevralgico del sistema di istruzione.

sabato 25 febbraio 2017

Su: Europa e Globalizzazione*- Cristina Re**

*Intervento di Cristina Re, studentessa all'Università di Economia di Bologna, in un incontro avvenuto nella stessa con relatori Romano Prodi e il professor Emiliano Brancaccio.   https://www.facebook.com/rethinkingeconomicsbologna/videos/1587848531231318/ 

"Salve professore,

Sono Cristina di rethink economics_bologna/ e la ringrazio per aver accettato il nostro invito. Detto ciò, però, questo è l'unico ringraziamento che mi sento di farle. Mi permetta di rubarle due minuti.

Le parlo come componente di quella che viene definita "Generazione Erasmus". Eccola qui, la generazione Erasmus: una generazione nata e cresciuta all'interno dell'Unione Europea ed educata con la favola di un'Europa di cooperazione e obiettivi comuni, di uno spazio in cui viaggiare liberamente ed educarsi alla diversità. Un luogo di pace, prosperità e libertà.

La favola della nuova generazione Europea di studenti colti, aperti e con alta mobilità si scontra però con la realtà, ossia con la generazione dei disoccupati e dei lavoratori poveri. Infatti, solo l'1% degli studenti italiani partecipa a progetti di mobilità, mentre gli altri si trovano in situazioni di precarietà o disoccupazione. La disoccupazione giovanile nel 2017 è arrivata a superare il 40% e coloro che trovano lavoro sono costretti ad accettare orari e salari da fame con contratti a termine o retribuiti tramite voucher. In tantissimi sono costretti ad emigrare; alcuni svolgono attività di ricerca qui sotto finanziata altri sono costretti a lavori non qualificati e sottopagati, nonostante l'alto livello d'istruzione.

Il futuro dei giovani italiani è un futuro grigio e di cui lo Stato ha deciso di non farsi carico. Siamo una generazione abbandonata dalle istituzioni e, certo, non sarà tutta colpa dell'Unione europea, ma sicuramente per capire come migliorare bisogna prima individuare le colpe ed i colpevoli. L'italia ha scelto di condividere e mettere in atto lo smantellamento dello stato sociale: ha tagliato educazione, istruzione, protezioni sociali, investimenti industriali, ecc. Una situazione di cui nessuno vuole farsi responsabile ma che è strettamente collegata con l'adesione dell'Italia alle politiche neoliberiste.

Professore, lei, il 18 gennaio ha rilasciato un'intervista al quotidiano.net/ in cui dice "la mia Europa è morta. Ma spero che la crisi la svegli. Ora possiamo solo aggiungere: preghiamo"

Beh, troppo semplice così.

Mi dispiace ma mi rifiuto di vivere in un paese che soffre di deficit di memoria. Che trasforma i carnefici in vittime e i colpevoli in eroi.
Non possiamo non dimenticare che lei, come presidente dell'IRI ha svenduto il patrimonio economico italiano a società private.
Lei partecipò in prima persona alla nascita dell'euro, prima come Presidente del Consiglio e poi come Presidente della commissione europea.

Lei non si è battuto per cambiare i criteri scellerati del trattato di Maastricht, nei quali l'Italia non rientrava, ma promise riforme future. Da quel peccato originale è succeduto un vortice di privatizzazione, tagli al welfare, sottomissione ai diktat franco- tedeschi, attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori con l'unico obiettivo di ridurre il nostro debito pubblico, rientrare nei parametri di Maastricht e renderci "competitivi". Fu proprio durante il suo governo che venne approvato il pacchetto Treu che diede inizio al fenomeno della precarietà in Italia.

Durante il suo secondo mandato da Presidente del consiglio, poi, fu lei a firmare il trattato di Lisbona che di fatto era uguale alla Costituzione europea bocciata nel 2005 da francesi e olandesi.

Mi dispiace ma non può dire che questa non è la sua Europa. Questa è proprio la sua Europa.
Lei ha svenduto il nostro futuro e in cambio di cosa? Ecco cosa abbiamo ottenuto: la libertà di andare all'estero a fare i camerieri o di vivere una vita di precarietà e misera. Una vita che ha condotto molte persone alla disperazione ed alcuni anche al suicidio.

Adesso, non le chiedo, come fa qualcuno, di formare un nuovo partito o ricandidarsi per riparare alla situazione. No, quello spetta a noi.
Però le chiedo, come minimo, che riconosca le sue responsabilità e i suoi errori; e che magari ci chieda anche scusa."


Genitori in difficoltà nel tempo della crisi - Silvia Vegetti Finzi*

*Silvia_Vegetti_Finzi è una psicologa italiana.



Al termine dell’adolescenza, quando si tratta di scegliere la facoltà universitaria o il lavoro, di restare o andare altrove, viene il momento in cui i ragazzi si fanno carico della loro vita: puntano lo sguardo sul futuro, calcolano le risorse e rischiano il domani. Spesso i genitori spaventati, incapaci di attendere, li subissano di consigli, previsioni, ammonizioni, sino a prendere il loro posto, sino a sostituirli. Agiscono indubbiamente per il loro bene ma in tal modo li rendono dipendenti e passivi e telecomandandoli tarpano le loro ali. Apparentemente può far comodo ma vivere nel futuro degli altri, nel loro orizzonte di aspettative, depaupera le motivazioni e impedisce ai giovani di scorgere quanto hanno in comune tra loro, come il loro destino sia condiviso dai coetanei e come il vero soggetto di una generazione sia il “Noi” non l’”Io”. Non sanno che da una crisi epocale ci si salva tutti o nessuno e procedono pertanto in ordine sparso, senza elaborare una narrazione collettiva, un romanzo corale al quale riconoscersi. In una lettera aperta scritta da un gruppo di ventenni al presidente del consiglio e pubblicata sul Corriere della sera si legge: “Siamo colposamente sospesi tra il vuoto di aspettative e il miraggio di sicurezze. Senza la possibilità di metterci in gioco con le stesse garanzie dei nostri padri e dei nostri nonni. La nostra voce è stata marginalizzata e resa afona anche per via di nostre comprovate responsabilità. Abbiamo subito le decisioni e consentito che la nostra indifferenza lasciasse ampi spazi di manovra a chi non ha avuto a cuore le nostre sorti...” 

venerdì 24 febbraio 2017

A che serve il muro?*- Adriano Voltolin**

**Società di Psicoanalisi Critica   http://www.societadipsicoanalisicritica.it/ 


Come ha messo bene in rilievo Aldo Giannuli (http://www.aldogiannuli.it/psicoanalisi-del-muro/) le strategie politiche, militari e ideologiche dei muri costruiti a difesa di ciò che sta all’interno sono sempre fallite: il loro fondamento psicologico ed ideologico è da ricercare in una rassicurazione di chi lo erige e non alla sua difesa reale.

Le dighe costruite per creare dei bacini idrici servono per evitare che piene ed alluvioni travolgano i frutti del lavoro di ciò che sta a valle e, se non vengono costruite in modo criminale, si pensi al Vajont, nome sintomatico del monte che stava sopra la diga e che significa in dialetto friulano “viene giù”, proteggono le case, le coltivazioni e la vita stessa delle persone ed addirittura servono, regolando l’afflusso delle acque, a far fiorire ulteriormente il lavoro dell’uomo. Si pensi, più modestamente, alle risaie ed ai prati marcitori lombardi: l’acqua, non più trattenuta, allagando i campi produce il risultato straordinario di fornire un cibo come il riso che costituisce buona parte dell’alimentazione mondiale e in Lombardia forniva foraggio fresco quando la neve ed il gelo coprivano la pianura padana. L’isolamento dall’acqua è una strategia che non ha affatto per mira quello di chi la ferma, ma il suo utilizzo più proficuo per rendere la comunità più ricca e benestante.

Il muro inteso come fortezza che protegge dall’invasione dei barbari è invece concettualmente l’opposto: il benessere maggiore non è dato dallo sfruttamento intelligente di ciò che viene dall’esterno in modo da creare nuove opportunità, ma è fantasticato come l’isolamento da esso. I colonizzatori inglesi e belgi non avevano bisogno di costruire muri di cemento, ma il loro isolamento dai neri del Kenya e del Congo era garantito dalla ricchezza, dalle armi e da una ideologia grossolanamente illuministica che ricreava il modo di vita europeo (delle classi agiate) in Africa.

Sul piano individuale, l’isolamento attraverso un muro difensivo, è più facilmente avvertito come patologico mentre, per il fenomeno della deresponsabilizzazione gruppale, non appare tale quando diviene ideologia di massa. Nella richiusura paranoide il pericolo dell’irruzione di un agente esterno viene avvertito come catastrofico e, tanto meno tale agente è oggettivamente pericoloso, tanto più esso appare infido e subdolo. Si pensi, è un esempio magnifico, alla fortezza Bastiani ne Il deserto dei tartari di Dino Buzzati: l’assoluta mancanza di pericolo del deserto viene avvertita come tanto più minacciosa quanto più assente è ogni individuo che provenga da esso: il giovane tenente Drogo invecchierà, insieme a tutta la guarnigione, nella perenne attesa di un nemico che non c’è e la sua vita sarà consumata per intero in una difesa spasmodica da ciò che, all’esterno, non esiste.

giovedì 23 febbraio 2017

Su “UBER”, “SHARING” E “GIG ECONOMY”*- Carlo Formenti

*Da: http://contropiano.org/     intervento di Carlo Formenti all’iniziativa organizzata da Noi Restiamo al Politecnico di Torino il 10 maggio 2016. L’intervento non è stato rivisto dal relatore ed eventuali errori sono quindi da considerarsi a carico nostro. Il titolo è redazionale.  
Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nozione-di-progresso-renato-curcio.html


SHARING E GIG ECONOMY: DINAMICHE TAYLORISTICHE E SFRUTTAMENTO

Prima parte dell’intervento:

Il lavoro che ho fatto negli ultimi 10-15 anni all'Università del Salento è stato in larga misura dedicato alla sociologia della rete che oggi, da quando sono felicemente approdato alla pensione, continuo a proseguitare; il giorno dopo che ho smesso di insegnare Teoria e tecnica dei nuovi media sono felicemente tornato a quelli che sono sempre stati i miei interessi fondamentali, che riguardano il socialismo economico e la sociologia politica. E ogni volta che mi tocca sentire qualcuno che mi telefona e mi dice "Professore, perché non viene a questo incontro su Internet e la società", subito mi si rizzano i capelli sulla testa; nel senso che in qualche modo dà per scontato che esista una sfera autonoma della dimensione della tecnologia e della rete come articolazione attuale della dimensione della tecnologia non sovradeterminata dai processi economici, politici, sociali, culturali e quant'altro. E che, viceversa, oggi sia possibile ragionare dei processi economici, politici, sociali e culturali prescindendo dal fatto che ormai le tecnologie di rete sono parte della nostra vita quotidiana, del nostro lavoro e delle relazioni sociali, del nostro viaggiare, sentire, stringere amicizie, ecc. Quindi, tendo sempre a riportare il tema a degli aspetti molto più determinati e specifici; in particolare, per quanto riguarda la questione del rapporto tra nuove tecnologie e lavoro, metterò a fuoco un aspetto molto particolare, che è quello di Uber, più altre esperienze che vengono variamente denominate di "sharing economy" o, negli Stati Uniti, di "gig economy", con una apertura più ampia rispetto al discorso e secondo me più interessante per il ventaglio di fenomeni che viene preso in considerazione.

Per affrontare questo problema, partirò da una piccola apologia del luddismo e dei movimenti luddisti nella prima metà dell'Ottocento in Inghilterra; perché, come sapete, negli ultimi giorni qui in Italia in particolare a Milano c'è stata una nuova ondata di agitazioni dei tassisti contro Uber, che erano stati preceduti da movimenti e fenomeni analoghi in tutto il mondo, ma particolarmente duri sono stati quelli avvenuti a Parigi l'anno scorso. In quell'occasione il mio "amico" Dario Di Vico (Corriere della Sera) si è come al solito precipitato a scrivere una serie di articoli in cui ha fatto una critica radicale di questa arretratezza e di questa assoluta stupidità nell'opporsi a un processo tecnologico che risulta irreversibile e non può essere contrastato in nessun modo, ma che è di per sé assolutamente benefico e porta una serie di vantaggi incredibili per i consumatori, per Uber ovviamente, che fa un sacco di quattrini, ma in prospettiva anche per gli stessi tassisti. Allora questo discorso richiama esattamente il tipo di argomenti che venivano usati contro il movimento luddista nel primo Ottocento inglese; tenete conto che il movimento dei luddisti, di cui si sa molto poco in realtà perché è stato studiato relativamente poco (non da storici specialisti), è stato un movimento di dimensioni enormi; per diversi anni l'Inghilterra ha visto mobilitazioni di massa, di distruzione e di incendi di fabbriche, di telai di nuova generazione, di scontri armati, cioè i luddisti andavano in bande di 200-300 a distruggere queste fabbriche e si scontravano con l'esercito inglese, con le milizie dei padroni dell'industria tessile, ci sono state centinaia di morti, molti dei quali impiccati, perché quando li prendevano li impiccavano anche perché era ancora illegale lo sciopero, figurarsi queste forme di mobilitazione violenta.

mercoledì 22 febbraio 2017

Sulla “Nuova lettura di Marx”*- Riccardo Bellofiore

*conferenza tenuta da Riccardo Bellofiore: 'Socializzazione e lavoro astratto in Marx'. L'intervento si è svolto nell'ambito del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società dell'Università degli studi di Milano-Bicocca.    https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova- 


"La nuova letteratura su Hegel, negli ultimi decenni - e io nutro sempre più il sospetto che non abbiano torto - ritiene che questa rappresentazione di Hegel, che si ritrova in Marx e che in qualche modo ritroviamo in Adorno, Horckeimer, Schmidt e sarà uguale in Reichelt e Backhaus, questa lettura di Hegel come idealista un po' pazzo, che pensa che il concetto sia in qualche modo la realtà stessa, questa cosa non abbia a che vedere con lo Hegel vero e proprio. 

Io non lo so, perché non sono un esperto, ma le cose che ho letto mi convincono che questa posizione abbia molte frecce al suo arco. 

Al tempo stesso, voglio chiarire subito, che io sto dal lato di Marx e di questi autori per una ragione molto semplice: perché la mia tesi è che  questo Hegel, fosse anche un Hegel pazzo, è quello che per Marx è il mezzo per comprendere qual è la logica del capitale come modo di produzione. 

Quindi non conta tanto se veramente Hegel fosse un idealista, la tesi è che la realtà sociale capitalistica è una realtà idealistica. In questo senso una totalità negativa..." 

Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte I):



Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte II): https://www.youtube.com/watch?v=Gmup_ASBeLw


Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte III): https://www.youtube.com/watch?v=PCFAUDcJjMw