Da: https://www.dialetticaefilosofia.it - Roberto Finelli insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre e dirige la rivista on-line “Consecutio (Rerum) temporum. Hegeliana. Marxiana. Freudiana” (http://www.consecutio.org)
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§1. Scienza contro dialettica
È all’indistinzione tra marxismo della alienazione-contraddizione e marxismo dell’astrazione che si lega a mio avviso la rapida parabola del marxismo filosofico in Italia nella seconda metà del ‘ 900.
Con tale denominazione s’intende infatti quel marxismo che, caratterizzato soprattutto dai nomi di G. della Volpe, L. Colletti, M. Rossi e N. Merker, ha provato nella seconda metà del Novecento, dopo l’impresa di Labriola alla fine del secolo precedente, a far valere il marxismo, non solo come teoria politica dell’emancipazione e della rivoluzione, ma, insieme e soprattutto, come scienza del presente storico e sociale, dotata di una sua autonoma e autosufficiente fondazione logica e teoretica. Ovvero propriamente quale scienza della storia, lontana dalle fumoserie e dai misticismi della dialettica, e omologa, quanto a metodo conoscitivo, a quello delle scienze esatte della natura. E valida in tal modo a proporsi come filosofia egemone del nostro tempo, in quanto capace di coprire sia il campo e la legittimazione del conoscere che il campo e la legittimazione dell’agire.
Secondo Della Volpe e i suoi allievi, Marx andava infatti letto come il Galileo delle scienze storiche, come uno scienziato cioè che aveva indagato solo la fattualità concreta ed empirica dell’esperienza sociale e che aveva elaborato, fin dal suo scritto giovanile del 1843 Per la critica della filosofia statuale hegeliana, una logica materialistica della conoscenza storica radicalmente critica della logica speculativa e astratta del sistema di Hegel1 . Cuore di tale logica, innovativa sul piano delle scienze storiche e sociali, di contro all’astrazione teologica e ipostatizzata dell’Idea hegeliana, era la categoria di «astrazione determinata», consistente nella capacità di utilizzare gli universali, cioè le generalizzazioni dei concetti, non per svuotare di senso il concreto, il particolare – come sarebbe accaduto invece con lo spiritualismo hegeliano – bensì proprio per illuminarne la specificità di realtà e di significato che ne fanno, ogni volta, un esistente determinato e diverso da tutti gli altri.
Rifacendosi all’Introduzione del ’57 – in cui Marx, quanto al rapporto tra concetti generali dell’agire umano e loro specificazione storica, aveva scritto che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide proprio a causa della loro astrazione per tutte le epoche, pure in ciò che vi è di propriamente determinato in tale astrazione generalizzante, risultano essere il prodotto di condizioni storiche temporalmente definite e delimitate, procurandosi piena validità soltanto per e all’interno di tali condizioni – Della Volpe identificava nell’astrazione determinata la sintesi di generico e di concreto, ossia la compenetrazione di ciò che è comune ad altre epoche con le caratteristiche peculiari che connotano la fattualità della società specifica, di volta in volta oggetto dell’indagine. La logica del conoscere storico propria di Marx era infatti da concepire come il circolo che dal concreto va all’astratto per tornare di lì al concreto, come una logica cioè tautoeterologica che riprendeva del tutto lo sperimentalismo delle scienze naturali, e per la quale i fatti molteplici ed empirici andavano sintetizzati e ricondotti a leggi attraverso ipotesi generalizzanti: le astrazioni appunto, che fissano verità generali la cui pregnanza di realtà deve essere provata attraverso il ritorno sull’esperienza concreta delle azioni umane e la spiegazione esaustiva dei fatti iniziali. Di contro alla dialettica hegeliana e platonica, parimenti mosse, in tale visione, dalle Idee astratte e lontane dalla materialità, Marx, teorizzando la «logica specifica dell’oggetto specifico», avrebbe esteso alla storia la compenetrazione tra individuale e universale, tra concreto e astratto, che aveva costituito la svolta dell’antiplatonismo da parte del realismo aristotelico, nel mondo antico, e della scienza della natura nel mondo moderno con Galilei.
Secondo i dellavolpiani, a differenza del marxismo hegelianeggiante che esaltava la differenza radicale tra storia e scienza (e specificamente del marxismo italiano d’ispirazione togliattianogramsciana che proponeva una continuità nazionale tra l’idealismo di De Sanctis e Croce e il marxismo di Labriola e Gramsci), il marxismo galileiano di Marx imponeva una continuità feconda tra marxismo, scienza e tecnica moderne, consentendo di leggere la critica marxiana dell’economia politica come una sociologia, lontana da ogni metafisica filosofica e dialettica, cioè come la scienza di una formazione storico-sociale determinata qual è il capitalismo moderno. Come insomma un conoscere che, omologandosi al sapere più avanzato della modernità, userebbe, a differenza dell’astrazione generica e indeterminata della filosofia, l’astrazione ipotetica e sperimentale della scienza. Com’è evidente, era quanto bastava, per attribuire nel contesto italiano degli anni ’60 al dellavolpismo il carattere e il merito della fondazione logico-teoretica più innovativa e rigorosa del marxismo e il luogo di rassicurazione e conferma ideale più a portata di mano per buona parte di coloro che non si riconoscevano nello storicismo togliattiano, d’ispirazione dialettica e gramsciana, e nel continuismo nazional-riformista che ne derivava sul piano politico.
§2. Dall’astrazione determinata all’astrazione reale (nella sfera della circolazione mercantile)
Ma ad assicurare la fortuna del dellavolpismo come marxismo insieme antihegeliano e principio di radicalizzazione politica è stata, poi, l’operazione teorica compiuta da Lucio Colletti a partire dal quadro categoriale del suo maestro. Questi è infatti l’unico professore di filosofia dell’Università italiana che legge e commenta a lezione nell’Istituto di Filosofia di Roma durante gli anni ’60 il Capitale di Marx in corsi frequentati dalla futura leadership della generazione sessantottina e che in tal modo introduce la giovane intellettualità di quegli anni a un’utilizzazione di Marx lontana dal marxismo storicistico della tradizione comunista ufficiale.
Approfondendo la lezione di Della Volpe sulla continuità teoretica e categoriale tra il giovane Marx e il Marx della maturità, Colletti teorizza infatti che l’astrazione del lavoro di cui parla Marx nel primo libro del Capitale, quale sostanza del valore di scambio, è null’altro che l’alienazione dell’essere umano già tematizzata da Marx nei Manoscritti del ’44. Perché secondo Colletti lo scambio delle merci, eguagliando non solo le cose, con l’astrazione dalle loro differenze qualitative (il grano o la tela che si scambia con l’abito), ma anche i diversi lavori concreti che le producono (contadino, tessitore, sarto) mette in campo un lavoro indifferenziato che è altro rispetto alle attività diversificate e specifiche dei singoli esseri umani che le producono: dando luogo a un ente astratto e generale, qual è il lavoro sostanza del valore di scambio, che vive a scapito delle loro individualità. «E precisamente nel senso che – come scriveva Colletti in Ideologia e società – mentre, di fatto, le capacità lavorative o forze-lavoro sono diverse le une dalle altre, sono disuguali tra loro, come gli individui cui essi appartengono; […] nella realtà invece del mondo delle merci, le forze lavorative sono eguagliate le une alle altre, proprio in quanto sono prese astrattamente o separatamente dagli individui empirico-reali cui di fatto appartengono: proprio in quanto, cioè, sono trattate come una “forza” o un’entità “a sé”, a prescindere dagli individui stessi di cui sono le forze. Il che si riduce a dire, in conclusione, che il “lavoro astratto” è il lavoro alienato, cioè separato o estraniato rispetto all’uomo stesso»2.
Dunque il lavoro astratto del Capitale appariva proprio come il lavoro alienato dei Manoscritti, in una continuità che esprimerebbe la sostanziale unitarietà dell’opera di Marx: quale storia del perdersi, nel capitalismo, dell’umanità concreta e vitale degli esseri umani, della loro individuale e ineguagliabile prassi di vita, in un potere e in delle forze da essi astratte, cioè separate ed esteriori, e perciò altre ed estranee. Secondo il modo più originale, si aggiungeva, da parte di Marx d’interpretare l’umanesimo antihegeliano di Feuerbach e la sua denuncia dell’alienazione degli esseri umani nell’astrazione del Logos di Hegel o nel Dio del cristianesimo: ossia radicalizzandolo nel verso del materialismo più autentico, con la dislocazione della matrice vera dell’alienazione dall’idealità del pensiero alla concretezza della prassi economica. Così con l’identità di alienazione ed astrazione Colletti coniugava in modo originale la lezione di Della Volpe, assegnando ancora maggior realtà all’astrazione determinata del suo maestro, la quale ora diveniva infatti astrazione reale in senso forte, dove cioè ciò che è eguale e uniforme si compenetra realmente con le differenze individuali. Vale a dire astrazione reale perché compiuta da tutti gli individui che partecipano sul mercato allo scambio delle merci e che parificano in modo astratto non solo le loro merci ma anche le loro vite. L’astrarre, pensa Colletti, sulla scia ma andando oltre l’insegnamento del maestro, non è solo luogo e funzione del pensiero bensì, con la società capitalistica, anche e soprattutto, luogo di realtà. Tant’è che nella società delle merci il valore astratto aliena realmente e concretamente gli individui, rendendoli attraverso la parificazione economica deprivati di ogni loro individualità.
§3. Il rovesciamento
Fin qui la pars costruens del dellavolpismo (inclusa la sua versione collettiana) nel rivendicare un marxismo come sociologia scientifica della modernità. Ma, ahimè, pronta paradossalmente a rovesciarsi secondo una tragicomica nemesi dialettica, nel proprio opposto: quale sarà alla fine degli anni ’70 del secolo scorso l’abiura da parte di Colletti del marxismo, dichiarato ormai come luogo dottrinario e ideologico, lontano dalla verità e dalla scienza. E questo di fondo perché la trama del Capitale di Marx si mostrava ormai a Colletti irriducibile a una sociologia basata su relazioni e opposizioni concrete di individui e gruppi sociali, essendo invece istituita su opposizioni dialettiche in cui ciascun termine, anziché possedere un’esistenza per sé, prima e indipendentemente di ogni possibile relazione, è solo il polo di una negazione precostituita del proprio polo opposto. Lavoro concreto e lavoro astratto, valore d’uso e valore di scambio, forza-lavoro e capitale, avverte Colletti, non sono opposizioni reali (di forze e poli preesistenti alla relazione, secondo la lezione di Kant) bensì sono opposizioni dialettiche dove ciascun polo esiste solo in quanto negazione e contraddizione dell’altro. La contraddizione come reale è del resto quanto la dialettica assegna a tutti gli ambiti che essa pervade e struttura, per cui nel suo orizzonte A è anche e sempre non A. Come accade nel capitalismo alla classe operaia che, legata per principio da un rapporto di negazione e opposizione al capitale, è strutturalmente contraddittoria: è A in quanto classe tra le altre, classe particolare, e contemporaneamente non A, in quanto classe universale, che nega, con la lotta di classe per il socialismo, la propria identità di classe particolare. Come la merce, che è valore d’uso, destinato a un bisogno particolare, e insieme negazione di sé stessa in quanto valore di scambio destinata a un rapporto universale con tutte le altre merci. Come insomma la società capitalistica nel suo insieme, che è una realtà rovesciata, a testa in giù, dove i rapporti tra gli esseri umani vengono espressi feticisticamente da cose. Ma la scienza, da sempre, osserva Colletti in coerenza con lo scientismo di Della Volpe, non si fonda sulla contraddizione. Anzi in tanto è scienza in quanto propriamente la evita.
Tutto ciò non poteva non significare, ormai definitivamente per l’intellettuale romano, che Marx, a ben vedere, non era mai riuscito ad affrancarsi dall’influenza di Hegel e dalla sua esaltazione della contraddizione, come invece era apparso a Della Volpe e allo stesso Colletti in un primo momento. E che dunque il marxismo di Marx in buona parte non era sociologia scientifica bensì ideologia che trasfigurava la realtà secondo le proprie passioni e i propri desideri, imponendo alla concretezza della società contemporanea gli schemi aprioristici e astratti di una logica dialettica. La conclusione del marxismo dellavolpiano/collettiano era così tanto drammatica quanto clamorosa. Il tentativo più originale della filosofia italiana del secondo dopoguerra di accreditare il marxismo come teoria feconda di autorevolezza e di legittimità teoretica e scientifica precipitava infatti in una apostasia che denunciava l’opera di Marx come troppo consegnata ancora all’uso della dialettica e alla frequentazione di Hegel e perciò necessariamente da rifiutare sia come filosofia del conoscere che come filosofia dell’agire. L’autocritica collettiana era per altro così estrema che, spogliando il marxismo di dignità concettuale e riducendolo a ideologia antiscientifica, lo espelleva dal mondo accademico-universitario, privando con ciò d’ogni motivo possibile di legittimazione, altamente teorica e filosofica, un’intera generazione d’intellettualità radicale e ispirata alla scuola del marxismo.
§4. La vera collocazione di una astrazione reale, praticamente vera
Ora qui ciò che si può brevemente dire, anche per la brevità dell’esposizione, che tale conclusione, sorprendente e inattesa, della vicenda del marxismo scientifico italiano era, per chi fosse stato ben accorto, già del tutto iscritta e anticipata nelle sue premesse teoriche e in particolare in una certa lettura della storia della filosofia moderna. Giacché il cuore dell’operazione logico-epistemologica di Della Volpe, quando a un certo punto della sua vita aderisce al marxismo, riposava nella duplice mossa di una sottovalutazione radicale della filosofia di Hegel quanto di una simmetrica sopravalutazione del pensiero di Feuerbach: o meglio nella lettura di Hegel attraverso le lenti di Feuerbach, con la conseguente riduzione dell’idealismo hegeliano a teo/logia, a religione cioè di un Logos trascendente e astratto, dissimulata attraverso l’uso apparentemente laico di concetti razionali. Insomma a un’interpretazione dell’idealismo di Hegel, messa in opera da Della Volpe, come riproposizione del neoplatonismo antico quale teoria di un’Idea che fuoriesce fuori di sé per creare, a immagine delle sue categorie logiche, sia la Natura che la Storia. Vale a dire che Della Volpe ha accolto, a parere di chi scrive, senza sospetto alcuno, la lettura assai schematica e povera che della filosofia di Hegel aveva offerto l’umanesimo essenzialistico di Feuerbach. Facilitato e introdotto del resto, in tale incomprensione radicale della natura dell’hegelismo, da quanto egli stesso era venuto scrivendo in un saggio del 1929 su Hegel romantico e mistico, ossia su quello Hegel degli Scritti teologico-giovanili, già interpretato da W. Dilthey e la sua scuola, come pensatore religioso e irrazionalista. Ma accettare la lettura feuerbachiana di Hegel come pensatore teo/logico significava non comprendere quanto invece Feuerbach (e con esso il giovane Marx) fossero rimasti subalterni all’interno di un orizzonte hegeliano e quanto tutto il loro discorrere di alienazione, contraddizione, reificazione, misticismo logico non appartenesse a una Weltanschauung nuova ed originale – a un paradigma di materialismo critico come pretendeva Della Volpe e il primo Colletti – bensì ripetesse moduli e categorie hegeliane: solo dislocate da una filosofia dialettica dell’Idea a una filosofia dialettica del Genere Umano.
In vero il motivo di fondo di questa vicenda di storia delle idee e di cultura politica sta, come dicevo all’inizio, nella impossibilità di distinguere il paradigma marxiano dell’alienazione da quello dell’astrazione. Nel non aver mai accolto cioè il sentore di una problematicità o di una molteplicità di piani nell’opera di Marx. E conseguentemente nell’aver schiacciato e ricondotto le categorie del Capitale all’impianto umanistico del primo Marx, il Marx appunto della presupposizione del menschliche Gattungswesen e dell’alienazione. Senza mettere a fuoco quanto il materialismo di Feuerbach fosse un materialismo ingannevole perché fondato invece su una metafisica essenzialistica dell’essere umano, e quanto peraltro quell’essenzialismo antropocentrico abbia continuato ad operare profondamente nel pensiero di Marx almeno fino all’Ideologia tedesca inclusa. Orbene, a mio avviso, le successive e conclusive difficoltà teoriche di Colletti nascono da qui, da questo originario fraintendimento, insieme, dell’hegelismo e del feuerbachismo-primo marxismo, ossia per dirla con altre parole dal fatto che egli di fondo ha sempre pensato assai più all’interno dell’orizzonte empiristico di Della Volpe (dagli individui in carne ed ossa, ciascuno concretamente diverso dagli altri) che non in quello storico delle relazioni di classe, secondo la lezione più propriamente marxiana.
A ben pensare infatti nel Marx dei Grundrisse e del Capitale l’individualità della forza-lavoro non è una individualità concreta e diversa da quella di ciascun altro. È bensì una individualità collettiva già pesantemente segnata, fin dalla sua origine, dall’astrazione e dai suoi effetti omologanti. È caratterizzata cioè da quella separazione originaria (e poi storicamente sempre riprodotta) da ogni possibile forma di proprietà che Marx in una celebre pagina dei Grundrisse definisce come miseria assoluta. E dove nel suo essere non-capitale non v’è implicita nessuna ontologia politica dell’opposizione, nessuna presupposizione che la classe dei portatori di forza-lavoro sia per principio classe alternativa e rivoluzionaria. Del resto quell’astrazione deindividualizzante, quanto ad esclusione della forza-lavoro da ogni proprietà possibile depositata da Marx nella teoria dell’accumulazione originaria, viene radicalizzata e duplicata, nello stesso Marx, dall’astrazione caratterizzante la sussunzione reale all’interno dei processi di produzione: per la quale la forza-lavoro, usata e consumata dal piano capitalistico del lavoro, è esclusa, non solo dalla proprietà, ma anche dal possesso e dall’uso dei mezzi di produzione. Vale a dire che con la maturità del capitalismo l’intelligenza complessiva del processo tecnologico risiede nella direzione d’impresa che impone alla forza-lavoro l’erogazione di lavoro astratto: ossia l’erogazione di mansioni e funzioni da cui è esclusa ogni partecipazione soggettiva che non sia conforme agli algoritmi e alla processualità standardizzata del flusso produttivo. Confermandosi che in tal modo Marx concepisce il Capitale secondo la configurazione del Geist hegeliano e del suo circolo del presupposto-posto, per il quale il capitale, appunto analogamente allo Spirito di Hegel, finisce con produrre i propri presupposti, portando all’interno della sua logica tutto ciò che inizialmente ha trovato come presupposto esterno della storia della formazioni sociali precedenti e mettendo in campo una circolarità radicalmente diversa da quella dellavolpiana del concreto-astratto-concreto. Ma è appunto l’effetto di questa doppia astrazione che svuota la forza-lavoro di ogni pretesa attribuzione di negazione dialettica, per la quale la sua semplice esistenza costituirebbe un’opposizione alternativa al capitale e dunque il suo intimo contraddirsi, trascorrendo da miseria assoluta a ricchezza assoluta, cioè da soggetto sociale parziale e passivo a soggetto rivoluzionario e universale. Questo per dire cioè che una maggiore distinzione tra il Marx delle prime opere (torno a dire Ideologia tedesca inclusa) e il Marx delle opere mature – senza cadere nella radicalità della fantasmagorica coupure althusseriana – avrebbe forse consentito a Colletti di comprendere quanto le figure dialettiche in Marx di rovesciamento di soggetto e predicato, di alienazione e di mondo rovesciato, si radicano assai più nel contesto feuerbachiano del «Genere» (Gattung e Gattungswesen) e dunque di una metafisica antropologica basata sull’immediata partecipazione di individuale e universale che non nel contesto successivo della Critica dell’economia politica, dove non è più soggetto della storia il Gemeinwesen ma il Capitale, come übergreifende Subjekt, come cioè Soggetto dominante ed egemonico del proprio tempo storico.
BIBLIOGRAFIA
Capograssi G. (1959), Le glosse di Marx ad Hegel, in Opere, vol. IV, Milano: 45-69.
Colletti L. (1970), Ideologia e società, Bari: Laterza.
Della Volpe G. (1973), Marx e lo Stato moderno rappresentativo. Un saggio della critica marxista della dialettica mistificata, Opere, vol. IV, Roma: Editori Riuniti.
Finelli R. (2004), Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino: Bollati Boringhieri.
NOTE
1 «L’importanza eccezionale della Critica del diritto statuale hegeliano […] risiede nel fatto che essa segna il distacco nettissimo, fin d’allora, del Marx (ventiquattrenne) dallo Hegel, in quanto è una critica radicale della Logica, oltre che della Filosofia del diritto di Hegel, ed è soprattutto una critica radicale per la sua fondazione su motivi […] del tipo della capitale critica aristotelica della logica aprioristica platonica.» (Della Volpe, 1973, 144). L’impostazione dellavolpiana di ritrovare nel primo Marx uno scienziato empirico contrapposto all’idealismo di Hegel ha sollecitato il sottoscritto con l’amico F. S. Trincia a ritornare sul testo marxiano e a proporne una nuova traduzione che problematizzasse il supposto materialismo di Marx e precisasse sul piano concettuale-linguistico termini marxiani come Wesen e Stand, tradotti da Della Volpe con «ente» e con «classe». Di contro alla celebrazione che Della Volpe ha fatto del giovane Marx, come pensatore già autonomo e maturo nella sua condanna di Hegel, vale ricordare quanto G. Capograssi scriveva sulla subalternità ad Hegel di quel Marx (in particolare il Marx della Kritik del 1843): «Tanto più ingiusti come accade, in quanto essi [i giovani hegeliani] dovevano tutti a lui; in tutta questa critica Marx non è mosso che da intuizioni, esigenze hegeliane: arrivare alla determinazione precisa dell’idea particolare, cogliere la ragione intrinseca del fatto storico, scoprire il significato razionale della realtà, nella realtà dove soltanto è la concreta e obiettiva ragione, è proprio l’insegnamento hegeliano.» (Capograssi 1959, 45-69). Riguardo al modo in cui l’intera produzione del primo Marx (Ideologia tedesca inclusa) rimane a mio avviso fortemente esposta all’influenza di L. Feuerbach e del suo antropocentrismo essenzialistico rimando al mio Finelli (2004).
2 Colletti (1970, 113-114).
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