mercoledì 9 agosto 2017

Siamo davvero in troppi?*- Manali Chakrabarti

*Da:  https://traduzionimarxiste.wordpress.com  Link all’articolo originale in inglese Aspects of India’s Economy



La sovrappopolazione è la più grave crisi del pianeta?


Le molteplici pressioni derivanti da una crescita senza vincoli della popolazione impongono al mondo naturale pretese che possono sopraffare ogni sforzo per giungere ad un futuro sostenibile. Se vogliamo fermare la distruzione del nostro ambiente, dobbiamo accettare dei limiti a tale crescita.

World Scientists’ Warning to Humanity, firmato da 1.600 scienziati di 70 paesi, inclusi 102 Premi Nobel, 1992 [1]


Introduzione

Il mondo che ci circonda sembra in procinto di attraversare una crisi senza precedenti – apparente scarsità di tutte le risorse essenziali, incluse acqua, terra e cibo, crescente disoccupazione e surriscaldamento globale. Il futuro del pianeta, probabilmente, non è mai sembrato più nero. E a detta di un ampio numero di influenti personalità – scienziati, accademici, politici, miliardari, esperti appartenenti ad istituzioni internazionali – uno dei motivi principali, quando non addirittura il motivo principale, di questo vero e proprio disastro risiede nel continuo incremento della popolazione.

La popolazione mondiale ha superato i 7 miliardi e continua a crescere. Istituzioni governative e non in tutto il mondo stanno spendendo miliardi di dollari al fine di affrontare questa sempre più vasta “crisi”. La popolazione del subcontinente indiano (India 1,23 miliardi, Bangladesh intorno ai 161 milioni e Pakistan 199 milioni) è di circa 1,6 miliardi di abitanti; ovvero una persona ogni cinque risiede in quest’area. Dunque, gran parte degli sforzi globali si concentra sui poveri del subcontinente. L’India viene ripetutamente comparata alla Cina, la quale, contrariamente alla prima, sembrerebbe aver avuto successo nel prevenire le proprie masse da una procreazione incontrollata.

Alcuni cercano di ammorbidire la loro posizione ricorrendo a termini eufemistici nel definire i propri obiettivi – come assicurare la “salute riproduttiva” o elaborare “strategie di sviluppo e della popolazione” [2]. Alcuni altri sono assai più bruschi. L’eminente economista Jeffrey Sachs afferma: “il raggiungimento dei 7 miliardi di abitanti è motivo di profonda preoccupazione a livello globale… In breve, come possiamo godere di uno ‘sviluppo sostenibile’ su di un pianeta così affollato?… La riduzione dei tassi di fertilità andrebbe incoraggiata anche nei paesi più poveri” [3]. Il noto editorialista Tom Friedman sostiene semplicemente che “la Terra è SATURA” [4]. Comunque si esprimano, il messaggio suona forte e chiaro: dobbiamo prevenire i poveri da una riproduzione senza limiti che minaccia il futuro della specie ed il pianeta nel suo complesso.

Considerato che così tanti tra i “migliori e più brillanti” ritengono essere la sovrappopolazione alla base i tutti i mali del pianeta, è opportuno esaminare a fondo la questione.

Come ha avuto inizio tutto?

Il più noto tra i pionieri della teoria dell’eccesso di popolazione umana è stato Thomas Robert Malthus, un vicario inglese. Malthus era orgoglioso delle sue capacità di matematico, e perseguì con zelo una continua ricerca di leggi matematiche (simili alle leggi naturali) governanti i fenomeni sociali. Il contesto era quello degli ultimi anni del XVIII secolo. L’Inghilterra sperimentava le doglie della rivoluzione industriale, annunciata dall’emergere del sistema di fabbrica e dalla rapida urbanizzazione di ogni angolo dell’isola. Un’enorme ricchezza iniziava ad essere prodotta nelle fabbriche, e una classe emergente economicamente potente (la classe capitalista industriale) si proponeva per la supremazia politica. Eppure, la stessa rivoluzione industriale era stata foriera di immensa miseria per il resto della popolazione, cacciata dalla terra e reclutata nelle fabbriche in condizioni estremamente dure in cambio di salari ben scarsi. Città impreparate ad un simile afflusso traboccavano di immigrati provenienti dalle campagne. Ovunque, lo scenario era caratterizzato da sporcizia e squallore, condizioni igienico-sanitarie pessime, povertà estrema e fame. Le persone costrette a vivere in condizioni così malsane morivano come mosche a causa del frequente scoppio di epidemie. Donne e bambini, per quanto piccoli, erano costretti a lavorare in fabbrica per lunghe ore in condizioni assai penose.

Di fronte a questo desolante stato di cose, Malthus traeva la conclusione che esso andava imputato alla crescita della popolazione. Egli sosteneva che la popolazione aumenta secondo una progressione geometrica – 2, 4, 8, 16, 32,… laddove la produzione di cibo aumenta esclusivamente secondo una progressione matematica – 2, 4, 6, 8, 10,… e quindi ad un certo punto la popolazione è destinata a superare il cibo disponibile. Dal punto di vista di Mathus, la miseria di massa svolgeva un utile ruolo nel ridurre la popolazione così da ripristinare l’equilibrio tra essa ed i mezzi di sussistenza. egli espose le sue idee nel libro Saggio sul principio della popolazione(pubblicato per la prima volta nel 1798, e in una versione sostanzialmente rivista nel 1803):
tutti i bambini che nascono al di là del numero indispensabile per tenere la popolazione in tale stato, devono necessariamente perire, salvo che gli adulti muoiano e lascino vuoti i loro posti… Ad esser conseguenti, bisognerà dunque, lungi dal contrariare la natura, agevolare la mortalità che essa fa nascere. E se la carestia ci spaventa, ricorriamo pure per impedirla ad altri mezzi di distruzione. Lungi dal raccomandare ai poveri la nettezza, faremo assai bene ad incoraggiare il loro sudiciume. Nelle città costruiremo strade anguste, accalcheremo gli uomini nelle case, e tanto faremo che la peste torni a visitarci. Nelle campagne, avremo cura di collocare le abitazioni vicino alle acque stagnanti, nei siti malsani e paludosi. Guardiamoci sopratutto dall’adottare quei preservativi che gli uomini benevoli oppongono a certi contagi [5].

Va tenuto ben presente che Malthus parlava della nazione più ricca dell’epoca, la quale non solo vantava la più avanzata produzione industriale, ma aveva anche accesso alle ricchezze di diversi continenti tramite le sue colonie – e ciò nonostante manteneva la propria classe lavoratrice nello squallore e nella miseria.

Lo squallore cui assisteva Malthus era il prodotto di condizioni storiche e rapporti sociali specifici; ma Malthus ignorò tali circostanze deducendo invece da esse una legge naturale ed immutabile. Nel momento in cui la società ha generato abbastanza mezzi di sussistenza per tutti, darebbe vita ad un eccesso di popolazione, la quale a sua volta verrebbe posta sotto controllo dall’operare della legge della necessità – incremento della mortalità dovuto a “malsane occupazioni”, povertà, malattie comuni ed epidemie, guerre, pestilenze e carestia. In tal modo, tramite la miseria e la morte, popolazione e mezzi di sussistenza torneranno in equilibrio, solo per dare inizio allo stesso processo ancora e ancora. (Di fatto, per Malthus non vi era una “bomba della popolazione” in procinto di esplodere nel futuro: la società umana era ritenuta sempre oscillante tra la crescita della popolazione e l’intervento dei controlli naturali su di essa). Dunque, Malthus si opponeva a qualsiasi misura atta a migliorare la condizione delle masse. Anzi, affermava, sarebbe stato controproducente fare qualcosa, poiché le avrebbe spinte a generare ancor più figli; e per la stessa ragione sarebbe stato dannoso aumentare i salari. Malthus era interdetto dagli sforzi compiuti dai medici, che a sua detta, col lor zelo ignorante finalizzato a salvare vite attraverso la medicina, stavano arrecando danni irreparabili. Egli intraprese una riuscita campagna contro gli esistenti e magri aiuti ai poveri; in parte grazie all’influenza del suo trattato, la Poor Law [legge sui poveri] inglese venne emendata in senso ancor più restrittivo e rigido. Il suo libro fu un enorme successo commerciale, protrattosi per ben sei edizioni. La sua argomentazione venne abbracciata di tutto cuore dalle classi dirigenti.

Entrambe le affermazioni di Malthus – riguardanti la crescita della popolazione e della produzione di cibo – sono state confutate dagli eventi. La produzione alimentare pro capite è cresciuta costantemente (non è a causa della mancanza di cibo nel mondo, bensì dell’accesso ad esso, che si soffre la fame). Per di più, contrariamente alla tesi di Malthus, secondo la quale l’abbondanza di mezzi di sussistenza comporterebbe una crescita della popolazione in eccesso, le società più prospere tendono ad avere bassi (o persino negativi) tassi di crescita della popolazione. Le società povere, nelle quali le coppie temono che i loro figli possano non sopravvivere, tendono invece ad avere tassi di crescita della popolazione superiori [6].

Anziché ricercare una spiegazione alla povertà nelle condizioni storiche e nei rapporti sociali prevalenti, Malthus li ha occultati sostituendoli con una presunta legge naturale. È proprio tale approccio ad aver ottenuto l’apprezzamento delle classi dirigenti dell’epoca e di oggi. Così, nonostante la teoria di Malthus sia stata empiricamente confutata, essa continua a resistere all’archiviazione. Per esempio, Jeffrey Sachs cita esplicitamente Malthus a supporto del suo punto di vista, secondo il quale “l’eccessiva crescita della popolazione interromperebbe il progresso economico” [7]. Altri, sebbene inconsapevolmente, basano le proprie argomentazioni sulla sua teoria. Quando George Bush sostiene che i crescenti consumi di Cina e India sono la causa dell’incremento dei prezzi delle risorse alimentari a livello globale, si inserisce nel solco tracciato da Malthus. Analogamente, quando i paesi ricchi indicano nell’aumento del dato assoluto delle attuali emissioni di carbone in paesi come Cina e India una minaccia, occultano la propria responsabilità circa la stragrande maggioranza delle emissioni storiche pro capiti.

Dall’eugenetica al ‘controllo della popolazione’

Sebbene molti pensatori qualificati del XIX secolo contestassero la ‘teoria’ di Malthus, questa acquisì credibilità scientifica a seguito dell’approvazione di Darwin [8]. Il quale, nella sua autobiografia, affermò di dovere la sua teoria dell’origine ed evoluzione delle specie a Malthus [9].
Nell’ottobre 1838, e cioè quindici mesi dopo l’inizio delle ricerche sistematiche, mi accadde di leggere per svago il libro di Malthus sulla popolazione. Ero pronto ad ammettere la lotta per l’esistenza, che ovunque si deduce da un’osservazione prolungata delle abitudini degli animali e delle piante; ma mi colpì immediatamente il fatto che in queste condizioni le variazioni favorevoli tendessero a esser conservate, le sfavorevoli a essere eliminate. Risultato: la formazione di nuove specie. Dunque avevo trovato finalmente una teoria sulla quale lavorare [10].

Un nuovo punto di vista sulle preoccupazioni circa la sovrappopolazione venne fornito dal cugino di Darwin, sir Francis Galton. Quest’ultimo espose la prospettiva di uno “stock genetico nazionale declinante” nella sua opera Inquiries into Human Faculty and its Development. Al fine di contrastare una simile tendenza ‘disgnica’, egli proponeva una politica attiva ‘eugenetica’, termine da lui coniato significante ‘ben nato’. L’eugenetica avrebbe favorito più figli da parte dei più adatti, e meno – o niente – da parte degli inadatti, nell’obiettivo di un’ingegneria dell’ascesa evolutiva dell’uomo.

La ‘dottrina eugenetica’ venne accolta incondizionatamente dai riformatori sociali e dall’accademia dell’epoca (il 75 perento dei college, negli anni Venti del XX secolo, offriva corsi di eugenetica) [11]. A differenza di Malthus (il quale confidava nel fatto che pestilenze, influenza ecc., avrebbero eliminato i poveri) questi individui benintenzionati miravano ad un programma proattivo  finalizzato ad assicurare una ‘popolazione desiderabile’. Non mancava da parte loro l’impegno affinché il governo intervenisse per implementare tali iniziative. Persino Margaret Sanger, l’influente attivista statunitense per il controllo delle nascite e l’educazione sessuale, nonché fondatrice nel 1916 del movimento ‘Planned Parenthood’, espresse opinioni di natura eugenetica e talvolta condivise piattaforme con gli eugenisti. Sanger era una fautrice dell’eugenetica ‘negativa’, con la quale si puntava a migliorare i tratti ereditari umani, tramite interventi sociali che riducessero la riproduzione di coloro che erano ritenuti ‘inadatti’. La prospettiva della Sanger comprendeva la promozione di una politica dell’immigrazione restrittiva, libero accesso ai contraccettivi, completa autonomia di pianificazione familiare per i mentalmente abili e segregazione e sterilizzazione obbligatorie di chi fosse ritenuto affetto da gravi ritardi [12]. Nel suo libro The Pivot of Civilization, promuoveva la coercizione per impedire che gli “innegabilmente deboli di mente” procreassero [13].

La crescente influenza dell’eugenetica statunitense subì una grave battuta d’arresto con l’ascesa del nazismo negli anni Trenta, nel momento in cui lo stato tedesco introdusse politiche sociali razzialmente orientate al fine di stabilire la supremazia della razza ariana. L’ideologia fondamentale dei nazisti si basava sull’eugenetica, laddove intere classi di esseri umani identificate come “vite indegne di essere vissute” (inclusi, ma non solo, criminali, degenerati, dissidenti, affetti da ritardo mentale, omosessuali, inattivi, folli e deboli) erano destinate all’eliminazione dalla catena ereditaria. Oltre 400.000 persone vennero sterilizzate forzatamente, mentre 275.000 vennero uccise nella cosiddetta Action T4, un vero e proprio programma di ‘eutanasia’ [14]. Il più noto dei programmi eugenetici promossi dallo stato fu la Soluzione finale, il tentativo nazista di eliminazione di interi gruppi etnici (ebrei, rom, ecc.).

La condanna mondiale delle politiche naziste aveva gettato il discredito sull’eugenetica. L’accento sarebbe passato ora al ‘controllo della popolazione’. Nel 1952 John D. Rockfeller III fondava il The Population Council, un’organizzazione non governativa internazionale mirante al controllo della popolazione dei paesi poveri. Il primo presidente del Council designato da Rockfeller era un eugenista: Frederick Osborne, autore di Preface to Eugenics (New York, 1940), leader dell’American Eugenics Society. Ad oggi, il Population Council opera in oltre 60 paesi attraverso le sue sedi in Asia, America Latina e Africa.
Nel 1969, l’UNFPA (United Nations Population Fund) veniva istituito principalmente a seguito di una massiccia attività di lobbyng da parte di John Rockfeller. La missione dichiarata dell’UNFPA consiste nel “favorire un mondo in cui ogni gravidanza sia voluta, ogni nascita sicura e il potenziale di ogni giovane persona pienamente raggiunto”. Tuttavia, l’inconfondibile sotto-testo dell’attività dell’organizzazione è la ‘crisi di sovrappopolazione’. Nel suo sito web si dichiara:
Poiché la popolazione mondiale ha raggiunto i 7 miliardi nel 2011 (a partire dai 2,5 miliardi del 1950), ciò ha avuto profonde implicazioni per lo sviluppo. È dunque necessario che i governi raccolgano dati adeguati circa le dinamiche e le tendenze della popolazione, al fine di impostare e gestire politiche efficaci in grado di andare in contro alle esigenze presenti e future dell’umanità. L’UNFPA sostiene i governi in tali compiti, compresi i censimenti, i rilevamenti, le analisi e le ricerche relative alla popolazione e allo sviluppo [15].

Lo sviluppo del movimento ecologista negli anni Sessanta contribuiva ad attribuire tutti i mali del mondo – fame, inquinamento, diminuzione delle risorse, rifiuti, ecc. – alla sovrappopolazione. All’epoca vennero scritti diverse influenti studi, tra cui il pionieristico lavoro di Rachel Carson, Silent Spring (1962). Ma a conquistare un’immediata popolarità fu Population Bomb di Paul R. Erlich (1968). Il libro esordiva con questa affermazione:
La battaglia per nutrire l’intera umanità è iniziata. Negli anni Settanta centinaia di milioni di persone moriranno di fame, e ciò a dispetto di ogni programma di emergenza stabilito al momento presente. A questa data niente può prevenire un sostanziale incremento del tasso di mortalità a livello mondiale.

Più vicino a noi, la sterilizzazione forzata di massa (innanzitutto tramite vasectomia) venne attuata durante il periodo dell’Emergenza, nel contesto del programma di controllo delle nascite avviato da Sanjay Gandhi; esito del programma furono 8,3 milioni di sterilizzazioni, dai 2,7 milioni dell’anno precedente [16]. La sconfitta del Congresso alle elezioni del 1977 pose fine alla pratica della vasectomia forzata. Tuttavia, nel nostro paese, il ricorso alle pressioni al fine di favorire le sterilizzazioni è proseguito sino ad oggi in forme differenti, attraverso incentivi e disincentivi. Il principale bersaglio, al momento, sono però le donne. Laddove 4,6 milioni di donne sono state sterilizzate limitatamente all’India nel 2011-12, sono stati circa duecentomila gli uomini sottoposti a vasectomia. Le sterilizzazioni femminili in India rappresentano grosso modo il 40 percento di quelle effettuate in tutto il mondo sulle donne di età compresa tra i 15 e i 45 anni [17].

La brigata del controllo della popolazione ha ricevuto nuovo impulso con l’ingresso del miliardario Bill Gates nel campo della ‘filantropia’. Gates ha speso centinaia di migliaia di dollari al fine di migliorare l’accesso alla contraccezione nel mondo in via di sviluppo. Suo padre è stato a lungo impegnato nel gruppo eugenetico Planned Parenthood. Gates senior è co-presidente della Bill & Melinda Gates Foundation e detiene una grande influenza riguardo la visione e l’orientamento dell’organizzazione. Organizzazione che opera massicciamente in Africa e India. Nel 2009, Gates ha convocato un’incontro a porte chiuse di alcuni dei principali miliardari USA, con l’obiettivo di discutere in che modo la loro ricchezza possa essere utilizzata allo scopo di rallentare la crescita della popolazione. All’incontro erano presenti, fra gli altri, David Rockfeller Jr., patriarca della più ricca dinastia statunitense, Warren Buffett e George Soros, entrambi finanzieri, Michael Bloomberg, sindaco di New York ed i magnati dei media Ted Turner e Oprah Winfrey. Questi, insieme a Gates, hanno donato più di 45 miliardi di dollari, a partire dal 1996, a quelle che sostengono essere cause filantropiche. Secondo un partecipante al vertice citato, “è emerso un certo consenso sulla volontà di sostenere un strategia in base alla quale la crescita della popolazione andrebbe affrontata come una minaccia potenzialmente disastrosa dal punto di vista ambientale, sociale e industriale” [18].

Quale quintile andrebbe eliminato?

In un certo senso, è vero per definizione che la dimensione della popolazione mondiale è un fattore nell’esaurimento delle risorse naturali, essendo l’altro l’intensità nell’utilizzo di esse. Ogni essere umano, in una misura o nell’altra, usa le risorse naturali del pianeta, per cui ad ogni aggiunta alla popolazione mondiale corrisponderà un carico aggiuntivo. Se davvero siamo in troppi, vediamo di esaminare clinicamente quanti fra di noi, e quali, dovrebbero essere sacrificati per un bene comune superiore.

Tabella 1A: suddivisione delle risorse mondiali – 20% più ricco e 20% più povero

Risorse mondiali totali
Quota del 20% più ricco al mondo
Quota del 20% più povero al mondo
1.
Consumo totale privato
86%
1,3%
2.
Consumo totale di energia
58%
4,0%
3.
Consumo totale di carta
84%
1,1%
4.
Proprietà veicoli a livello mondiale
87%
1,0%
5.
Consumo totale di carne e pesce
45%
5%
Fonte: Human development Report HDR 1998 Overview, p.2

Tabella 1B: impronta di carbonio [19] dei diversi paesi
Paese
Popolazione (mln)
Impronta di carbonio 
(t CO2 equivalente/per capita)
 Impronta totale di            carbonio dei diversi paesi  (mln. di t. di CO2          equivalente)
Stati Uniti
317
26,5
8400
Australia
23
22,5
518
Gran Bretagna
64
16,5
1743
Federazione Russa
144
10,6
1527
Brasile
201
3,8
764
Cina
1361
4,0
5444
India
1238
1,7
2067
Bangladesh
152
1,0
152
Mondo [20]
7134
4,0
28536
Fonte: Carbon Footprint of Nations [21]

Come reso evidente dai dati forniti nelle tabelle 1A, 1B e 1C, non è il quintile più povero, bensì quello più ricco a dover essere eliminato così da ottenere la più vistosa differenza nella disponibilità delle risorse. Del consumo privato totale, l’86 percento dipende dal 20 percento più ricco; il quale se venisse rimosso consentirebbe un aumento della media disponibile per il resto dell’umanità di oltre sei volte. La disponibilità di energia e prodotti alimentari di alta qualità risulterebbe più che raddoppiata per tutti noi. Al contrario, rimuovere il quintile più povero non causerebbe la minima intaccatura alla disponibilità totale.

Secondo le statistiche Carbon Footprint la popolazione totale di Cina, India e Bangladesh combinati (costituenti circa il 40 percento della popolazione) ha un’impronta di diossido di carbonio inferiore anche a quella degli Stati Uniti considerati da soli. Di fatto, il 7,7 percento della popolazione (USA, Australia, Federazione Russa e Gran Bretagna combinati) rappresentano il 43 percento dell’impronta di carbonio totale.

Tabella 1C: alcuni altri modelli di distribuzione del consumo nei diversi paesi
Parametro
Modello distribuzione consumo
Reddito
Nel 1960, il 20 percento della popolazione mondiale nei paesi più ricchi deteneva un reddito pari a 30 volte quello del 20 percento più povero – nel 1997, 74 volte [22].
Acqua più ricchi
Un esiguo 12 percento della popolazione mondiale usa l’85 percento dell’acqua del pianeta, e questo 12 percento non vive nel Terzo mondo [23].
Acqua più poveri
1,7 miliardi di persone sono prive dell’accesso all’acqua potabile. 2,3 miliardi, ogni anno, soffrono di patologie collegate all’acqua di cui si servono [24].
Energia
In media, uno statunitense consuma tanta energia quanto 2 giapponesi, 6 messicani, 13 cinesi, 31 indiani, 128 Bangladesi, 307 tanzaniani, 307 etiopi [25].
Impronta CO2 più ricchi
La responsabilità dell’80 percento delle emissioni complessive di diossido di carbonio, a partire dalla Rivoluzione industriale è da attribuirsi al solo 20 percento degli abitanti dei paesi più ricchi (nel momento in cui tale dato è stato calcolato includeva solo Europa, Nord America e Unione Sovietica [24].
Impronta CO2 più poveri
L’impronta di carbonio del miliardo più povero (coloro che vivono con meno di 1 dollaro al giorno) rappresenta solo il 3 percento del totale globale, in base alle stime delle Nazioni Unite [26].
Impronta ecologica
L’impronta ecologica [27] in tutto il mondo mostra che se tutta l’umanità vivesse come un residente medio dell’Indonesia, solo due terzi della biocapacità del pianeta risulterebbero usati; se ognuno vivesse come un argentino medio, l’umanità necessiterebbe di oltre mezzo pianeta aggiuntivo; infine, se ognuno vivesse come un residente medio degli Stati Uniti, sarebbe necessario un totale di quattro pianeti terra per rigenerare quanto richiesto dall’umanità all’ambiente naturale [28].

In un saggio pubblicato nel 2009 vengono prese in considerazione le emissioni di carbonio di diversi paesi nel corso di 25 anni, dimostrando in modo convincente che le aree in cui la popolazione è cresciuta più rapidamente sono anche quelle nelle quali il diossido di carbonio è aumentato più lentamente, e viceversa. Tra il 1980 ed il 2005, per esempio, l’Africa sub-sahariana è stata responsabile del 18,5 percento della crescita della popolazione mondiale e solo del 2,4 percento di quella di CO2, laddove il Nord America, col suo 4 percento di popolazione extra, ha prodotto il 14 percento di emissioni supplementari. Il sessantatré percento dell’aumento della popolazione mondiale è avvenuto in zone con emissioni assai basse. Nel saggio già citato si fa notare: “Se il contributo a vita alle emissioni di gas serra di una persona aggiuntasi alla popolazione mondiale varia di un fattore di oltre 1.000, dipendente dalle circostanze in cui è nata e dalle sue scelte di vita, è fuorviante vedere nella crescita della popolazione la principale causa del cambiamento climatico” [29].

Inoltre, molte delle emissioni imputate ai paesi poveri, andrebbero attribuite, a voler essere corretti, a quelli ricchi – per esempio, le attività di gas flaring delle compagnie che esportano petrolio dalla Nigeria hanno prodotto molto più gas serra di tutte le altre fonti dell’Africa sub-sahariana messe insieme. Analogamente, per quanto riguarda la Cina, l’assai rapida crescita della produzione dal 1980 al 2005 (gran parte della quale destinata all’esportazione) costituisce un importante causa del suo altrettanto rapido aumento in emissioni di CO2 [30].

Se dunque è necessario ridurre la popolazione al fine di risparmiare risorse, allora non è quella povera a dover diminuire, bensì quella più ricca. Così, rispondendo a coloro che lanciano l’allarme sulla popolazione, Fred Magdoff suggerisce di applicare una politica di “zero figli” o del “figlio unico” al 10 percento più ricco al mondo; l’introduzione immediata di una tassa di successione del 100 percento per i ricchi; nonché un abbassamento del loro reddito con una modesta compensazione massima (analoga ad un salario minimo). “Seguendo tali prescrizioni, potemmo approssimativamente avere una rapida riduzione nell’utilizzo complessivo delle risorse e nell’inquinamento di circa la metà” [31].

Le risorse disponibile sono davvero scarse?

Al fine di approfondire ulteriormente la questione della presunta scarsità di risorse per la popolazione, prendiamo in esame terra e risorse alimentari.

Densità di popolazione

Quanto siano campate in aria le affermazioni secondo le quali il pianeta sarebbe  ‘saturo’, o sovraffollato, risulta evidente dalle densità di popolazione (persone per km²) nelle differenti regioni del mondo. Il dato relativo a tutto il mondo e di 53 persone per km²; per l’Africa, 35; per l’America Latina e i Caraibi, 29, ma per quanto riguarda i Pesi Bassi, 493. Fra quelli citati, il più ricco son di gran lunga i Paesi Bassi, i quali, tra l’altro, rappresentano il secondo maggiore esportatore mondiale di prodotti agricoli. Una comparazione tra le differenti densità di popolazione dei vari paesi ed il PIL pro capite, rivela come non vi sia correlazione tra la loro densità e la rispettiva prosperità [32].

Risorse alimentari

Gli esperti, negli ultimi anni, hanno spesso predetto una crisi alimentare globale. L’aumento sistematico dei prezzi delle risorse alimentari, combinato ad avverse condizioni meteorologiche e alla crisi economica, hanno alimentato simili predizioni apocalittiche. Allo steso tempo, 1,4 milioni di adulti sono considerati sovrappeso [33].

Al mondo sono stati prodotti 13 quadrilioni di chilocalorie (kcal) nel 2010, o 5359 kcal pro capiti al giorno [34]. Ciò nonostante, dato che gran parte della produzione agricola è stata destinata all’alimentazione animale per la produzione di carne, o al momento, verso il biocarburante, la disponibilità pro capite di cibo è più bassa, precisamente 2790 kcal pro capiti al giorno (2006-08). Contrariamente alle previsioni malthusiane di un declino delle risorse alimentari pro capiti, quest’ultimo dato mostra un incremento rispetto alle 2220 kcal pro capiti giornaliere dei primi anni Sessanta [35]. Le attuali proiezioni fornite da organismi internazionali come la FAO non prevedono alcuna difficoltà nel garantire la sicurezza alimentare. Sebbene la crescita agricola possa in futuro essere minacciata dal cambiamento climatico, dalla conversione dei terreni agricoli ad altri fini così come da altre attività umane, tutto ciò non ha niente a che vedere con la crescita della popolazione in quanto tale.
Secondo Joshua Muldavin, docente di geografia al Sarah Lawrence College, le cui ricerche si concentrano su istruzione alimentare e agricola, “al momento, disponiamo almeno di due o tre volte la quantità di cibo necessario per nutrire il numero di persone presenti al mondo” [36]. Emelie Peine, docente di politica internazionale ed economia alla University of Puget Sound, così argomenta riguardo alla carenza di cibo: “non ci troviamo di fronte ad un problema di scarsità di cibo, bensì ad un problema di distribuzione e reddito” [37].

Nel 1998, Frances Moore, Joseph Collins e Peter Rosset, nel loro famoso libro World Hunger: Twelve Myths affermavano che:
Il termine abbondanza, e non scarsità, descrive al meglio la disponibilità mondiale di cibo. La produzione di grano, riso e altri cereali è sufficiente a fornire ad ogni essere umano 3.200 calorie al giorno. Ciò senza contare molti altri alimenti comunemente consumati – verdure, legumi, noci, radici, frutta, carni allevate al pascolo e pesce. Sono disponibili abbastanza risorse alimentari da garantire 4,3 libre di cibo a persona ogni giorno in tutto il mondo: due libre e mezzo di grano, legumi e noci, all’incirca una libra di frutta e verdura e quasi un’altra libra composta di carne, latte e uova – sufficienti a rendere qualcuno grasso! Il problema risiede nel fatto che molte persone sono troppo povere per comprare cibo prontamente disponibile. Persino buona parte dei “paesi affamati”, in questo momento, possiedono cibo bastante per tutti i loro abitanti. Molti di essi sono esportatori netti di risorse alimentari ed altri prodotti agricoli.

Ed l’argomentazione secondo la quale vi è cibo più che sufficiente per la popolazione mondiale sembra essere ancora valida. Eric Holt Gimenez, direttore esecutivo di Food First/Institute for Food and Development Policy, ha sostenuto che “la fame è causata dalla povertà e dalle ineguaglianze, non dalla scarsità”. A sua detta:
Il mondo produce già  oltre una volta e mezzo il cibo bastante a nutrire tutti nel pianeta. Ciò  è sufficiente a nutrire 10 miliardi di persone, ovvero il picco della popolazione che ci si aspetta per il 2050… In realtà, la maggior parte dei raccolti di grano prodotti industrialmente finisce nei biocarburanti  e nei mangimi, anziché in cibo per un miliardo di affamati. L’appello ad aumentare la produzione di alimenti, entro il 2050, è valido solo se continueremo a dare priorità alla crescente popolazione di bestiame ed automobili, rispetto alle persone affamate [38].

Dunque possiamo in conclusione affermare che la ragione della fame nel mondo non è la popolazione – si produce già cibo sufficiente, e anche di più, per tutti. Eppure le famiglie e le nazioni più povere producono più figli di quelle ricche. Analizziamo quindi anche la ragione di questo fatto.

Perché i poveri hanno più figli?

Parlando durante una sessione del World Population Day nel 2009, il ministro della sanità e del welfare familiare indiano Ghulam Nabi Azad, ha sostenuto che “la crescita della popolazione è la causa principale di numerosi problemi nazionali, compresa la povertà, la disoccupazione, l’aumento dei prezzi e il deterioramento della legge e dell’ordine. Molte questioni sociali, come il naxalismo, sono il riflesso di questa discrepanza tra popolazione e risorse”. Quale coscienzioso rappresentante del popolo egli non si è limitato ad evidenziare il problema, ma ha anche proposto una soluzione singolare – vale a dire, fornire elettricità a tutti i villaggi: “se vi fosse elettricità in tutti i villaggi, le persone guarderebbero la TV sino a tarda notte per poi addormentarsi. Non avrebbero così occasione di fare figli. Laddove non c’è elettricità, non vi è nient’altro da fare se non procreare”, ha affermato il ministro della sanità dell’Unione [39].

Qualsiasi donna abbia portato un bambino nel proprio grembo per nove mesi, spesso senza accesso ad una dieta adeguata, sopportando contemporaneamente le fatiche del lavoro, per poi nutrirlo col proprio corpo a dispetto di una seria anemia, in proposito ha senza dubbio una conoscenza ben superiore a quella del ministro. Cerchiamo quindi di comprendere per quali ragioni economiche i poveri hanno più figli.

A quanto pare i giovani umani necessitano di cure assai più protratte rispetto a quelli di altre specie. In realtà i ricchi ed i “bambini” benestanti non crescono mai completamente, hanno bisogno di attingere alla ricchezza e alle connessioni dei genitori e della comunità per cavarsela, persino in età adulta. Molti membri delle élite non necessitano di guadagnarsi da vivere coi propri mezzi, preferendo fare affidamento su ricchezze ereditate e lavori ottenuti tramite connessioni. Inoltre, manifestano orgoglio nell’affermare i propri legami con i potenti, siano essi determinati dalla nascita o dall’affiliazione di casta.

Al contrario, un bambino nato in una famiglia povera si trova a dover lottare per la propria vita sin dal suo primo respiro. Un devastante rapporto pubblicato da Save the Children nel 2009 riporta che due milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono ogni giorno in India, uno ogni 15 secondi – il numero più alto in tutto il mondo. Oltre la metà muoiono nel mese immediatamente successivo alla nascita e 400.000 entro le prime 24 ore [40]. Nel 2010, il tasso di moralità infantile [41] riportato era di 47 a livello nazionale, variando dal 51 delle aree rurali al 31 di quelle urbane [42]. Inoltre, più del 20 percento dei decessi infantili nel mondo si verifica in India, dove peraltro vive un bambino malnutrito ogni tre al mondo. Un bambino affetto da grave malnutrizione ha come minimo nove probabilità in più di morire rispetto ad un altro. Circa il 28 percento dei decessi infantili sono connessi alla scarsa igiene e all’acqua potabile non sicura [43]. Secondo i dati forniti da Children in India 2012, un rapporto statistico del Ministero della statistica e dell’attuazione del programma dell’Unione, quasi la metà dei bambini indiani – approssimativamente 60 milioni – sono sottopeso, il 45 percento ha una crescita stentata (troppo lenta rispetto all’età), il 20 percento si trova in stato di consunzione (eccessiva magrezza in rapporto all’età, indice di acuta malnutrizione), il 75 percento è anemico ed il 57 percento soffre di carenza di vitamina A [44]. Così, a differenza della loro controparte ricca, i genitori in una famiglia povera non hanno alcuna certezza che il loro bambino sopravviverà oltre l’infanzia.

In seguito, non appena un bambino proveniente da una famiglia svantaggiata supera l’infanzia, sarà costretto probabilmente a dover lavorare. Sulla base della sua pionieristica ricerca sul villaggio di Char goplapur in Bngladesh, Mead Cain fa notare che “i bambini di entrambi i sessi iniziano la loro vita economicamente attiva intorno ai 6 anni, svolgendo compiti come procurare carburante, acqua, trasmettere messaggi e prendersi cura dei bambini più piccoli”. Inoltre, sulla base di alcune ipotesi, conclude che un bambino maschio dell’età di dodici anni diviene un produttore netto, e raggiunti i quindici anni da un contributo netto positivo al reddito familiare – ovvero, guadagna più di quanto non consumi [45]. Sebbene si tratti di una ricerca basata sul caso del Bangladesh, gli studiosi danno per scontato che il quadro tracciatovi sia valido per altri paesi poveri del mondo [46]. Il censimento 2001, in India, ha rilevato che 12,66 milioni di bambini sotto i 14 anni devono lavorare per guadagnarsi da vivere. Tuttavia, il numero di bambini lavoratori potrebbe essere considerevolmente più alto di quanto registrato dai dati ufficiali, poiché il lavoro infantile è spesso invisibile: i bambini, infatti, tendono ad essere impiegati in unità domestiche nel settore informale. L’UNICEF stima che in India vi sono 35 milioni di bambini lavoratori, pari al 14 percento dei minori compresi nel gruppo tra i 5 ed i 14 anni di età. Le stime fornite da organizzazioni non governative, basate sul numero di bambini che non vanno a scuola, fissano la cifra ad oltre 60 milioni [47].

I dati del censimento 2001 rivelano che le principali occupazioni in cui vengono impiegati i bambini includono ‘spezie e tabacchi’ (21 percento), ‘edilizia’ (17 percento), ‘lavoro domestico’ (15 percento) e ‘tessitura e filatura’ (11 percento). È interessante notare che, sino all’età di 14 anni, i minorenni di entrambi i sessi hanno quasi lo stesso tasso di partecipazione alla forza lavoro formale, ma nella categoria compresa tra i 15 ed i 19 anni il numero delle lavoratrici si riduce ad almeno la metà degli omologhi maschili. Questo, ovviamente, non significa che le minorenni comprese in tale gruppo di età non lavorino, ma piuttosto che raggiungono l’esercito dei lavoratori non pagati [47] della nostra economia [49].

Nel complesso, come dovrebbe risultare chiaro da quanto discusso finora, un bambino in una famiglia svantaggiata non costituisce meramente un’altra bocca da sfamare, bensì qualcosa di più simile a due braccia aggiuntive per lavorare e contribuire al reddito familiare. Tra l’altro, un contributo cruciale, data la natura precaria dei mezzi di sussistenza con i quali la maggior parte delle famiglie svantaggiate hanno a che fare. Come rivelato dal rapporto prodotto dalla National Commission for Enterprises in the Unorganized Sector (NCEUS), nell’aprile del 2009, meglio noto come rapporto Arjum Sengupta, malgrado lunghi anni di crescita economica, il 77 percento della popolazione indiana nel 2004-05 continuava a vivere con meno di venti rupie al giorno, ed il 92 percento della forza lavoro indiana consisteva di lavoratori informali/non organizzati. I prezzi dei prodotti alimentari sono saliti alle stelle negli ultimi due anni; persino il grano di base è scomparso dal piatto di un povero, lasciandovi solo legumi e verdure. Considerato ciò, è poi così sorprendente che tutte le braccia di una famiglia povera siano costrette a contribuire a mettere insieme un pasto ogni giorno?

Un rapido sguardo alla storia rivela che per le masse le cose non erano tanto differenti nei paesi ricchi nel XIX secolo. Le dimensioni delle famiglie erano grandi – “in Gran Bretagna un terzo delle donne sposate nate nei primi anni Cinquanta del secolo avevano almeno sette parti andati a buon fine, il 10-15 percento aveva dieci o più figli… ” [50]. Le condizioni di vita erano disperate:
Orrendi slum, talvolta ampi, talaltra niente più che antri di oscura miseria, costituivano una parte sostanziale delle metropoli… All’interno di grandi, ed un tempo belle, case, trenta o più persone di ogni età abitavano in una singola stanza [51].

Dai bambini ci si aspettava che contribuissero al bilancio familiare e spesso lavoravano per lunghe ore in impieghi  pericolosi, in situazioni difficili e per un salario infimo. Nell’introduzione di un libro pubblicato nel 1851 intitolato London Labour and the London Poor l’autore Henry Mayhew scriveva:
… le condizioni di una classe di persone la cui miseria, ignoranza e vizio nel mezzo dell’immensa ricchezza e conoscenza della “prima città del mondo”, costituisce, quantomeno, una vergogna nazionale per tutti noi [52].

Alla fine del XIX secolo, in larga parte come risultato delle migliori condizioni di vita, la mortalità infantile era straordinariamente diminuita, laddove l’aspettativa di vita era invece rapidamente aumentata. Al contempo, grazie all’organizzarsi della classe operaia nel mondo industrializzato, aumentavano i salari, diminuiva l’orario di lavoro e venivano messe in atto leggi e regolamentazioni anche per il lavoro minorile. Gli spazi di lavoro e abitativi divenivano relativamente igienici e sani, e le dimensioni delle famiglie si riducevano. Col passaggio al XX secolo alcuni paesi europei avevano adottavano misure di stato sociale, prevalentemente legate all’assistenza sociale e sanitaria, a proposito delle quali è interessante notare che vennero introdotte non sulla base di un’agenda socialista, bensì allo scopo di contenere la sindacalizzazione e la militanza dei lavoratori [53]. Le dimensioni delle famiglie, come già detto, erano rapidamente declinate: da una media di circa cinque membri all’inizio del XX secolo a poco più di due alla fine del Novecento [54].

Più vicino a noi, nello stato meridionale del Kerala, dove risiede il 2,76 percento degli abitanti del paese, la densità di popolazione è di 859 persone per km², tre volte la media nazionale. Eppure, grazie alle migliori strutture sanitarie e all’alto tasso di alfabetizzazione (il più alto del paese, 93,91 percento) [55], nonché ad un rapporto tra i due sessi di 1084 (donne per 1000 maschi) rispetto ad una media nazionale di 940, questo stato ha un basso tasso di mortalità infantile, ovvero 13 (su 1000 nascite), comparabile a quello dei paesi sviluppati. Conseguentemente, il Kerala ha uno dei tassi di natalità più bassi, 14,8 su 1000, cioè metà della media nazionale di 23, 1. Inoltre, l’indice di sub-sostituzione del tasso di fecondità di 1,7 (il tasso di sostituzione è almeno di 2), per cui la sua popolazione è data in probabile declino nei prossimi anni [56]. Dunque, si può tranquillamente concludere che il tasso di fecondità non è la causa della povertà, ma al contrario, che la povertà (e la conseguente incertezza) è alla base di un più alto tasso di fecondità [57].

Sia che le proiezioni delle nazioni Unite circa i futuri tassi di crescita demografica (grafico 1) trovino conferma o meno, appare evidente che i tassi di aumento della popolazione stanno già calando in tutto il mondo.

Grafico 1: tasso medio annuale di cambiamento della popolazione, nel mondo e per gruppi di sviluppo 

Siamo di fronte ad una carenza di risorse?

Come risulta evidente dalla tabella 4, il mondo dispone di enorme ricchezza, la quale viene attualmente allocata in gran parte al fine di coprire capi di spesa frivoli o dannosi. I capi di stato ritengono gli incredibili pacchetti di salvataggio dei più potenti e ricchi individui ed istituzioni del mondo una priorità rispetto alla fame nel mondo. Il pacchetto totale di salvataggio societario negli Stati Uniti si è tradotto nell’enormità di ben 9,7 trilioni di dollari.

Tabella 4: alcune priorità di spesa globali

Capi di spesa

Spesa annuale
Mercato mondiale bellezza e cura personale [58] 2011
426 miliardi di dollari
Mercato globale del tabacco [59] 2012
457 miliardi di dollari
Mercato globale della birra [60] 2009
471 miliardi di dollari
Vendita e traffico globali di narcotici [61] 2000
500 miliardi di dollari
Spesa pubblicitaria globale [62] 2012
557 miliardi di dollari
Mercato globale alcolici [63] 2008
947 miliardi di dollari
Industria mondiale dei media e dell’intrattenimento [64] 2012
1600 miliardi di dollari
Spesa militare globale [65] 2012
1700 miliardi di dollari
Spese militari USA in Iraq e Afghanistan
2000 miliardi di dollari
Pacchetto di salvataggio societario USA [66]
9700 miliardi di dollari

In realtà, le priorità mondiali sembrerebbero eliminare i poveri più che la povertà. La spesa militare statunitense per le guerre in Iraq ed Afghanistan va ben oltre quanto necessario al fine di occuparsi delle esigenze basilari del mondo.

Ma perché un tale ribaltamento delle priorità globali? Esaminiamone le ragioni.

Chi decide dell’allocazione delle risorse mondiali?

Per comprendere chi decide dell’allocazione delle risorse globali è necessario comprendere chi controlla la ricchezza mondiale. Secondo il Credit Suisse Global Report 2013, la ricchezza totale mondiale si aggira intorno ai 241 trilioni di dollari – in aumento del 4,9 percento rispetto all’anno precedente [67]. La piramide della ricchezza globale (grafico 2) rappresenta graficamente la distribuzione della ricchezza fra la popolazione.

Grafico 2: la piramide della ricchezza globale 

Fonte: Credit Suisse, Global Wealth Report 2013 [68]

Il vertice della popolazione costituito dall’8,5 percento possiede oltre l’83 percento della ricchezza globale, laddove la quota del 70 percento alla base è di appena il 3 percento. La cima della piramide è ancor più ripida – il valore netto dei 200 individui più ricchi (2,7 trilioni di dollari) [69] è lo stesso della base costituita da 3,2 miliardi di persone, in altri termini, metà della popolazione dell’intero pianeta! Significativamente, tali ricchi individui sono stati in grado di incrementare la propria ricchezza a dispetto della crisi finanziaria. Secondo un recente rapporto di Oxfam, malgrado una riduzione globale della ricchezza i primi 100 miliardari sono riusciti ad aumentare la propria ricchezza di 240 miliardi di dollari nel 2012 [70]. Tra questi super-ricchi, per inciso, sono comprese anche alcune personalità che hanno svolto attività di lobbying  a favore della riduzione e controllo della popolazione del Terzo mondo, finanziando importanti programmi in tal senso. Le politiche statali e quelle delle istituzioni internazionali sembrano essere allineati agli interessi dei ricchi e potenti. Questi cosiddetti Ultra High Net worth (UHNW) [71], detengono anche un immenso potere politico.

Per questa classe, le spese apparentemente dissennate elencate poco più sopra servono un fine assai utile. La pubblicità è necessaria per promuovere i loro prodotti. Considerando che producono, tra le altre cose, prodotti di bellezza, tabacco, alcol, media ed intrattenimento, il consumo di massa di tutto ciò si rende necessario ai detentori del capitale. Le spese militari arricchiscono tale classe sia direttamente (industria degli armamenti) che indirettamente (prendendo e mantenendo il controllo su risorse e mercati, e prevenendo i rivali dal fare altrettanto). I salvataggi costituiscono un trasferimento diretto di fondi statali nelle loro tasche. dunque, ciò che sembra essere un modello irrazionale di spesa, è del tutto razionale in termini di interessi della classe dominante.

Il primo Global Census  mostra che ci sono 2.170 miliardari in tutto il mondo e il numero maggiore di quelli nuovi è concentrato in Asia. A partire dal luglio 2012, 18 nuovi miliardari sono emersi  in Asia, con a seguire il Nord America [72]. Con un contingente di 103 miliardari, l’India si classifica sesta tra i paesi che annoverano i principali di essi [73]. Per di più, vi è un costante flusso di colossali quantità di ricchezza dalla maggioranza più povera del pianeta a più ricchi.

I flussi di capitale dai più poveri ai più ricchi

Servizio del debito: deflusso dai più poveri ai più ricchi

L’economista Charles Abruge calcola che vi sono stati massicci deflussi netti provenienti dai paesi in via di sviluppo, resi in tal modo fornitori netti di capitali ai paesi ricchi – per un ammontare cumulativo pari a 2.577 miliardi di dollari nel periodo 2002-07 [74]. Secondo Jason Hickel, della London School of Economics, “oggi, i paesi poveri pagano a quelli ricchi, ogni anno, all’incirca 600 miliardi di dollari di servizio del debito, gran parte di esso costituito dall’interesse composto relativo ai prestiti accumulati da governanti deposti da lungo tempo” [75].

Solo questo è già pari a quasi cinque volte l’ammontare del budget per gli aiuti. Dunque, la cosiddetta “assistenza estera allo sviluppo” (AES) non lascia mai veramente le rive dei paesi donatori; viceversa, la ricchezza defluisce più volte verso di essi dai paesi destinatari.

Flussi finanziari illeciti dai paesi in via di sviluppo a quelli ricchi

Secondo il rapporto annuale di Global Financial Integrity, 2012, il mondo in via di sviluppo, nel 2010, ha perso 859 miliardi di dollari tramite flussi illeciti, un incremento dell’11 percento rispetto al 2009. Tali deflussi di capitali derivano dall’evasione fiscale, dalla corruzione, dal crimine e da altre attività illecite. Il mondo sviluppato ne è il principale beneficiario. Il rapporto citato rileva che, dal 2001 al 2010, i paesi in via di sviluppo hanno perso 5,86 trilioni di dollari in flussi illeciti [76]. L’ammontare annuale di questi ultimi, dai paesi in via di sviluppo a quelli ricchi e alle multinazionali, è pari grosso modo a 10 volte il bilancio degli aiuti.

Politiche neoliberiste e perdite per i paesi in via di sviluppo

Come se tutto ciò non fosse sufficiente, le multinazionali hanno ottenuto concessioni ancor più generose grazie alle politiche neoliberiste imposte ai paesi poveri da istituzioni internazionali come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Queste politiche economiche sono finalizzate ad aprire forzatamente i mercati dei paesi in via di sviluppo in modo da garantire alle multinazionali un acceso senza precedenti a terra, risorse e lavoro tutti a buon mercato. Secondo l’economista Robert Pollin della University of Massachusetts, i paesi poveri hanno perso intorno ai 500 miliardi di dollari all’anno di PIL, in conseguenza di simili politiche, un importo pari a quattro volte gli aiuti forniti dal mondo sviluppato alle nazioni povere [77].

Land grabbing ed élite globale

Fred Pearce nel suo libro,  The Land Grabbers: The New Fight over Who Owns the Earth, mostra come una porzione di terra che supera le dimensioni dell’Europa occidentale sia stata sottratta ai paesi poveri dalle multinazionali, il tutto solo nel decennio passato [78]. Anche le società indiane hanno acquisito terre equivalenti a nove volte le dimensioni di Delhi. Land Matrix, un’iniziativa globale di monitoraggio delle terre, la quale traccia accordi riguardanti il suolo in tutto il mondo, piazza l’India tra i primi 10 paesi ad aver acquisito larghe porzioni di terreno all’estero, prevalentemente per l’agricoltura, in Africa ed Asia [79]. Soltanto nella regione dell’Africa orientale, più di 80 società indiane hanno già investito circa 2,4 miliardi di dollari nell’acquisto o affitto di enormi piantagioni in paesi come Etiopia, Kenya, Madagascar, Senegal e Mozambico [80].

Danno ambientale causato dalle multinazionali – un debito verso i poveri del mondo

Un recente rapporto preparato per conto delle Nazioni Unite dalla società di consulenza britannica Trucost, ha rilevato che  già solo 3.000 multinazionali provocano 2,1 trilioni di dollari di danno ambientale ogni anno [81]. Stephen Pacala, direttore del Princeton Environmental Institute, ha sostenuto che i 500 milioni di persone più ricche al mondo (il 7 percento ai vertici) sono state responsabili di un incredibile 50 percento di tutte le emissioni di gas serra. Ciò sottostima sostanzialmente i danni, poiché esclude i costi che risulterebbero da “eventi potenzialmente ad alto impatto come la pesca ed il collasso di ecosistemi”, nonché “i costi esterni causati dall’uso e smaltimento dei prodotti, così come lo sfruttamento d parte delle multinazionali, di altre risorse naturali ed il rilascio di ulteriori agenti inquinanti tramite le loro operazioni e quelle dei loro fornitori” [82]. Il professor Richard Norgaard, economista della University of California-Berkeley, afferma che i paesi ricchi del mondo devono ai poveri 2,3 trilioni di dollari per aver causato il cambiamento climatico – un ammontare che eclissa agevolmente il totale del debito del Terzo mondo (1,8 trilioni di dollari [83].

Conclusioni

Negli ultimi duecento anni gli interessi delle classi dominanti hanno portato al propagarsi della nozione secondo la quale la sovrappopolazione rappresenta la più grave crisi globale. Pressoché ogni questione – comprese le guerre, la guerra fredda, i conflitti etnici, la violenza, i disastri ecologici, la disoccupazione, la povertà, la fame, la scomparsa delle risorse naturali, ecc. – è stata in qualche modo collegata alla sovrappopolazione. Tutta l’attenzione ed il biasimo, in proposito, sono stati indirizzati nei confronti della maggioranza povera del mondo; si dà per scontato che i poveri debbano essere contenuti con ogni mezzo ai fini della sopravvivenza del pianeta.

Sulla base dell’analisi qui svolta, siamo anche noi giunti alla conclusione che effettivamente il mondo si dirige verso una grave crisi, e che una porzione della popolazione è primariamente responsabile di ciò. La sola differenza consiste nel fatto che non si tratta della maggioranza, bensì di un’infima minoranza – individui ed entità societarie ai vertici della piramide della ricchezza. Eppure, ironicamente, questa potente minoranza scarica la colpa dei propri eccessi sulle vittime – i ricchi del mondo sono i principali sostenitori della ‘problematica della sovrappopolazione’. Essi finanziano, guidano e svolgono attività di lobbying per molteplici programmi su larga scala, miranti a contenere e controllare gli strati poveri della popolazione. Proprio qui, a nostro modo di vedere, risiede la più grande crisi cui deve far fronte il pianeta:  ‘troppa ricchezza (e potere, sia politico che militare) nelle mani di pochi’. La società globale nel suo complesso, quindi, può essere meglio descritta come una plutocrazia [84].

Per quale motivo, dunque, le élite creano un simile allarme circa la sovrappopolazione? Come all’epoca di Malthus, la teoria della sovrappopolazione serve dei fini ideologici fondamentali. La storia è stata testimone di cambiamenti inimmaginabili grazie agli sforzi collettivi compiuti dalle persone comuni per ottenere un mondo migliore. E possiamo vedere in tutto il mondo agitarsi ed esplodere il disincanto delle masse nei confronti dell’ordine presente, nonché le lotte contro di esso. Dalla Primavera araba in Piazza Tahrir alle proteste di  Shahbag Square in Bnagladesh, dal movimento per l’occupazione delle fabbriche in Argentina a Occupy Wall Street negli Stati Uniti, passando per la POSCO  e la Maruti, sino alla Bolivia e al Chattisgarh, le persone comuni stanno protestando, resistendo e rispondendo, sfidando il sistema. E nonostante lo svantaggio di forze, stanno contestando l’oscena disparità di possedimenti e proprietà privata. Lottano per un mondo più egualitario, per liberarsi dal dissipativo perseguimento delle nude necessità, dalla perdita di vite dovuta alla semplice fame e malnutrizione, a malattie facilmente trattabili e prevenibili, dalla mancanza di un riparo e dalle guerre di aggressione.
I dominanti hanno sempre fatto ricorso a tutto il  loro arsenale al fine di consolidare la loro sproporzionata appropriazione di surplus e ricchezza, e alcune delle  loro armi più influenti sono sempre state di natura ideologica. La teoria maltusiana della ‘sovrappopolazione’ ha svolto un ruolo fondamentale nello stabilirsi del nuovo ordine mondiale in procinto di emergere nel XIX secolo. Duecento anni dopo, gli eredi di Malthus continuano a volerci far credere che le persone  sono responsabili della propria miseria; che semplicemente non vi è abbastanza per tutti; e che per migliorare tale stato di cose non bisogna provare ad alterare la proprietà della ricchezza sociale  e redistribuire il prodotto sociale, bensì concentrarsi nella riduzione del numero di persone. La lotta per un mondo migliore, dunque, richiede anche una battaglia contro simili armi ideologiche. Del resto, almeno a partire dalla Rivoluzione francese, l’ideologia è stata l’arma più potente anche degli oppressi.

Note:
  1. Jeffrey Sachs, “Con 7 miliardi di persone sulla terra, ci troviamo di fronte ad un enorme compito”, http://edition.cnn.com/2011/10/17/opinion/sachs-global-population/
  2. Malthus, Saggio sul principio della popolazione, Stamperia dell’Unione-tipografico editrice, 1868, libro IV, capitolo V, p. 354.
  3. Pakistan, Nigeria, le Filippine, Etiopia, la Repubblica democratica del Congo, la Repubblica unita di Tanzania, Sudan, Kenya, Uganda, Iraq, Afghanistan, Ghana, Yemen, Mozambico e Madagascar, in termini di dimensioni della popolazione, rappresentano il 75 percento della popolazione dei pesi ad alto tasso di fecondità. — http://esa.un.org/wpp/Other-Information/Press_Release_WPP2010.pdf
  4. Sachs, op. cit.
  5. Bellamy Foster, John 1998 ‘Malthus’ Essay on Population at Age 200: A Marxian View’ Monthly Review, Vol 50, Issue 7.
  6. Sebbene come evidenzia Foster ‘per Marx era significativo che Darwin stesso aveva (inconsapevolmente) confutato Malthus tramite la storia naturale’.
  7. Ibid.
  8. Davis, Tom (2005), Sacred Work: Planned Parenthood and Its Clergy Alliances. Rutgers University Press. p. 35.
  9. Ian Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Capitolo VI, (Laterza, 2007).
  10. Carl Haub and O. P. Sharma, “India’s Population Reality: Reconciling Change and Tradition,” Population Bulletin (2006) 61#3 pp 3+.
  11. Billionaire Club in a bid to curb overpopulation” http://www.thesundaytimes.co.uk/sto/news/world_news/article169829.ece
  12. Un’impronta di carbonio costituisce la misura dell’impatto ambientale dello stile di vita o operato di un particolare individuo, organizzazione o paese, misurato in unità di diossido di carbonio. Il concetto di impronta di carbonio concentra l’attenzione sul consumo e dunque fornisce approfondimenti sulle ripercussioni ambientali degli stili di vita dei paesi in discussione. L’ONU si serve del convenzionale inventario delle emissioni, il quale è incentrato sulla produzione e quindi sull’attività dell’industria. Entrambi i fattori sono rilevanti e vanno presi in considerazione. Tuttavia, il secondo non tiene conto di politiche che spostano le emissioni in altri paesi considerando questo un successo per il clima. Al fine di assicurare che le politiche riducano realmente le emissioni di gas serra, il loro effetto sull’impronta di carbonio va calcolata.
  13. 1999 Human Development Report, United Nations Development Programme.
  14. Maude Barlow, Water as Commodity – The Wrong Prescription, The Institute for Food and Development Policy, Backgrounder, estate 2001, Vol. 7, No. 3.
  15. Rich, poor and climate change”, http://edition.cnn.com/2008/BUSINESS/02/17/eco.class/
  16. L’impronta ecologica è una misura delle pretese umane sugli ecosistemi terrestri. Rappresenta la quantità di terreno e mare biologicamente produttivi necessari a fornire le risorse che consuma una popolazione umana e assimilare i rifiuti associati. Utilizzando questa valutazione, è possibile stimare quanta parte della Terra (o quanti pianeti terrestri) sarebbero necessari per sostentare l’umanità se tutti seguissero un determinato stile di vita.
  17.  Living Planet Report 2012, Summary.
  18. David Satterthwaite, September 2009,” The implications of population growth and urbanization for climate change” Environment & Urbanization, Vol 21(2). http://cstpr.colorado.edu/students/envs_5720/satterthwaite_2009.pdf
  19. Si veda FAO, Statistical Yearbook 2013. E anche World Bank, World Development Report 2010.
  20. FAO Statistical Yearbook 2012, http://www.fao.org/docrep/015/i2490e/i2490e00.htm.
  21. Ibid.
  22.  A hungry world: Lots of food, in too few places http://www.cnbc.com/id/100893540
  23. Ibid. 
  24. We Already Grow Enough Food For 10 Billion People — and Still Can’t End Hunger http://www.huffingtonpost.com/eric-holt-gimenez/world-hunger_b_1463429.html
  25. Azad’s population control mantra: Watch late night TV”, http://www.deccanherald.com/content/13278/azads-population-control-mantra-watch.html
  26. http://www.guardian .co.uk/world/ 2009/oct/ 04/india- slums-children- death-rate
  27. Il tasso di mortalità infantile è il numero di decessi di minori entro il primo anno di età per 1000 nati vivi. Il tasso per una determinata regione è il numero di bambini che muoiono sotto un anno di età, diviso per il numero di nati vivi durante l’anno, moltiplicato per 1.000. http://en.wikipedia.org/wiki/Infant_mortality
  28. Children in India 2012– Ministry of Statistics and Programme Implementation, GOI http://mospi.nic.in/mospi_new/upload/Children_in_India_2012.pdf
  29. Cain Mead T. The economic activities of children in a village in Bangladesh. Population and Development Review. 1977;3(3):201–227., p212
  30.  Cockburn John, 2002,  Income contribution of child work in rural Ethiopia,  p 2 http://www.csae.ox.ac.uk/workingpapers/pdfs/2002-12text.pdf
  31.  Jayati Ghosh, “Stolen childhood”, Frontline, 4 Novembre 2006.
  32. L’economia capitalistica è costruita sulle spalle di lavoratori non pagati, non riconosciuti e sottovalutati. Molti di essi sono donne e buona parte del lavoro non pagato ha luogo in ambito domestico. Quest’ultimo ha una duplice funzione: riproduce gli esseri umani – la forza lavoro –  e mantiene e prepara i lavoratori per il loro impiego giornaliero: secondo lo Human Development Report 1995, Gender and Human Development, UNDP, tenere conto del lavoro non pagato incrementerebbe la produzione globale del 70 percento, o di circa 50 trilioni di dollari al valore attuale.
  33. Chakrabarti, Manali ‘Capitalism has no free lunches’ in Alternate Economic Survey, 2012-13, p 167.
  34. Davidoff, Leonore, Thicker than Water: Siblings and Their Relations, 1780-1920, 2012, p. 79.
  35.  Kellow Chesney, The Victorian Underworld , 1972, citato in http://www.hiddenlives.org.uk/articles/poverty.html
  36. Henry Mayhew, London Labour and the London Poor, 1985, citato in http://www.hiddenlives.org.uk/articles/poverty.html
  37. Tomka, Bella A Social History of Twentieth-Century Europe, Routledge, 2013.
  38.  http://www.censusindia.gov.in/ accesso del 5/01/2014.
  39. La presente discussione non può soffermarsi adeguatamente sulle altre importanti cause sociopolitiche della più alta fecondità derivante da ineguaglianze di genere e patriarcato.
  40. Chossudovsky, M. The Spoils of War: Afghanistan’s Multibillion Dollar Heroin Trade
    http://www.globalresearch.ca/the-spoils-of-war-afghanistan-s-multibillion-dollar-heroin-trade/91
  41.  Iraq, Afghan wars ‘most expensive’ in US history, drained defense budget for decades http://rt.com/usa/us-wars-most-expensive-109/ e  http://nationalpriorities.org/cost-of/
  42. Oxfam, The Cost of Inequality: How Wealth and Income Extremes Hurt us All http://www.oxfam.org/sites/www.oxfam.org/files/cost-of-inequality-oxfam-mb180113.pdf
  43. Citazione tratta da The truth about extreme global inequality http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/04/201349124135226392.html
  44. Angus, Ian, and Simon Butler, What’s Causing The Environmental Crisis: 7 Billion Or 1%? http://grist.org/population/2011-10-26-is-the-environmental-crisis-caused-by-7-billion-or-the-1-percent
  45. Una società o un sistema governato e dominato dalla ristretta minoranza dei cittadini più ricchi. http://en.wikipedia.org/wiki/Plutocracy




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