*Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com Link all’articolo originale in inglese Aspects of India’s Economy
La sovrappopolazione è la più grave crisi del pianeta?
Le
molteplici pressioni derivanti da una crescita senza vincoli della
popolazione impongono al mondo naturale pretese che possono
sopraffare ogni sforzo per giungere ad un futuro sostenibile. Se
vogliamo fermare la distruzione del nostro ambiente, dobbiamo
accettare dei limiti a tale crescita.
—World
Scientists’ Warning to Humanity, firmato da 1.600 scienziati di 70
paesi, inclusi 102 Premi Nobel, 1992 [1]
Introduzione
Il
mondo che ci circonda sembra in procinto di attraversare una crisi
senza precedenti – apparente scarsità di tutte le risorse
essenziali, incluse acqua, terra e cibo, crescente disoccupazione e
surriscaldamento globale. Il futuro del pianeta, probabilmente, non è
mai sembrato più nero. E a detta di un ampio numero di influenti
personalità – scienziati, accademici, politici, miliardari,
esperti appartenenti ad istituzioni internazionali – uno dei
motivi principali, quando non addirittura il motivo
principale, di questo vero e proprio disastro risiede nel continuo
incremento della popolazione.
La
popolazione mondiale ha superato i 7 miliardi e continua a crescere.
Istituzioni governative e non in tutto il mondo stanno spendendo
miliardi di dollari al fine di affrontare questa sempre più vasta
“crisi”. La popolazione del subcontinente indiano (India 1,23
miliardi, Bangladesh intorno ai 161 milioni e Pakistan 199 milioni) è
di circa 1,6 miliardi di abitanti; ovvero una persona ogni cinque
risiede in quest’area. Dunque, gran parte degli sforzi globali si
concentra sui poveri del subcontinente. L’India viene ripetutamente
comparata alla Cina, la quale, contrariamente alla prima, sembrerebbe
aver avuto successo nel prevenire le proprie masse da una
procreazione incontrollata.
Alcuni
cercano di ammorbidire la loro posizione ricorrendo a termini
eufemistici nel definire i propri obiettivi – come assicurare la
“salute riproduttiva” o elaborare “strategie di sviluppo e
della popolazione” [2]. Alcuni altri sono assai più bruschi.
L’eminente economista Jeffrey Sachs afferma: “il raggiungimento
dei 7 miliardi di abitanti è motivo di profonda preoccupazione a
livello globale… In breve, come possiamo godere di uno ‘sviluppo
sostenibile’ su di un pianeta così affollato?… La riduzione dei
tassi di fertilità andrebbe incoraggiata anche nei paesi più
poveri” [3]. Il noto editorialista Tom Friedman sostiene
semplicemente che “la Terra è SATURA” [4]. Comunque si
esprimano, il messaggio suona forte e chiaro: dobbiamo prevenire i
poveri da una riproduzione senza limiti che minaccia il futuro della
specie ed il pianeta nel suo complesso.
Considerato
che così tanti tra i “migliori e più brillanti” ritengono
essere la sovrappopolazione alla base i tutti i mali del pianeta, è
opportuno esaminare a fondo la questione.
Il
più noto tra i pionieri della teoria dell’eccesso di popolazione
umana è stato Thomas Robert Malthus, un vicario inglese. Malthus era
orgoglioso delle sue capacità di matematico, e perseguì con zelo
una continua ricerca di leggi matematiche (simili alle leggi
naturali) governanti i fenomeni sociali. Il contesto era quello degli
ultimi anni del XVIII secolo. L’Inghilterra sperimentava le doglie
della rivoluzione industriale, annunciata dall’emergere del sistema
di fabbrica e dalla rapida urbanizzazione di ogni angolo dell’isola.
Un’enorme ricchezza iniziava ad essere prodotta nelle fabbriche, e
una classe emergente economicamente potente (la classe capitalista
industriale) si proponeva per la supremazia politica. Eppure, la
stessa rivoluzione industriale era stata foriera di immensa miseria
per il resto della popolazione, cacciata dalla terra e reclutata
nelle fabbriche in condizioni estremamente dure in cambio di salari
ben scarsi. Città impreparate ad un simile afflusso traboccavano di
immigrati provenienti dalle campagne. Ovunque, lo scenario era
caratterizzato da sporcizia e squallore, condizioni
igienico-sanitarie pessime, povertà estrema e fame. Le persone
costrette a vivere in condizioni così malsane morivano come mosche a
causa del frequente scoppio di epidemie. Donne e bambini, per quanto
piccoli, erano costretti a lavorare in fabbrica per lunghe ore in
condizioni assai penose.
Di
fronte a questo desolante stato di cose, Malthus traeva la
conclusione che esso andava imputato alla crescita della popolazione.
Egli sosteneva che la popolazione aumenta secondo una progressione
geometrica – 2, 4, 8, 16, 32,… laddove la produzione di cibo
aumenta esclusivamente secondo una progressione matematica – 2, 4,
6, 8, 10,… e quindi ad un certo punto la popolazione è destinata a
superare il cibo disponibile. Dal punto di vista di Mathus, la
miseria di massa svolgeva un utile ruolo nel ridurre la popolazione
così da ripristinare l’equilibrio tra essa ed i mezzi di
sussistenza. egli espose le sue idee nel libro Saggio
sul principio della popolazione(pubblicato
per la prima volta nel 1798, e in una versione sostanzialmente
rivista nel 1803):
tutti i bambini che nascono al di là del numero indispensabile per tenere la popolazione in tale stato, devono necessariamente perire, salvo che gli adulti muoiano e lascino vuoti i loro posti… Ad esser conseguenti, bisognerà dunque, lungi dal contrariare la natura, agevolare la mortalità che essa fa nascere. E se la carestia ci spaventa, ricorriamo pure per impedirla ad altri mezzi di distruzione. Lungi dal raccomandare ai poveri la nettezza, faremo assai bene ad incoraggiare il loro sudiciume. Nelle città costruiremo strade anguste, accalcheremo gli uomini nelle case, e tanto faremo che la peste torni a visitarci. Nelle campagne, avremo cura di collocare le abitazioni vicino alle acque stagnanti, nei siti malsani e paludosi. Guardiamoci sopratutto dall’adottare quei preservativi che gli uomini benevoli oppongono a certi contagi [5].
Va
tenuto ben presente che Malthus parlava della nazione più ricca
dell’epoca, la quale non solo vantava la più avanzata produzione
industriale, ma aveva anche accesso alle ricchezze di diversi
continenti tramite le sue colonie – e ciò nonostante manteneva la
propria classe lavoratrice nello squallore e nella miseria.
Lo
squallore cui assisteva Malthus era il prodotto di condizioni
storiche e rapporti sociali specifici; ma Malthus ignorò tali
circostanze deducendo invece da esse una legge naturale ed
immutabile. Nel momento in cui la società ha generato abbastanza
mezzi di sussistenza per tutti, darebbe vita ad un eccesso di
popolazione, la quale a sua volta verrebbe posta sotto controllo
dall’operare della legge della necessità – incremento della
mortalità dovuto a “malsane occupazioni”, povertà, malattie
comuni ed epidemie, guerre, pestilenze e carestia. In tal modo,
tramite la miseria e la morte, popolazione e mezzi di sussistenza
torneranno in equilibrio, solo per dare inizio allo stesso processo
ancora e ancora. (Di fatto, per Malthus non vi era una “bomba della
popolazione” in procinto di esplodere nel futuro: la società umana
era ritenuta sempre oscillante
tra la crescita della popolazione e l’intervento dei controlli
naturali su di essa). Dunque, Malthus si opponeva a qualsiasi misura
atta a migliorare la condizione delle masse. Anzi, affermava, sarebbe
stato controproducente fare qualcosa, poiché le avrebbe spinte a
generare ancor più figli; e per la stessa ragione sarebbe stato
dannoso aumentare i salari. Malthus era interdetto dagli sforzi
compiuti dai medici, che a sua detta, col lor zelo ignorante
finalizzato a salvare vite attraverso la medicina, stavano arrecando
danni irreparabili. Egli intraprese una riuscita campagna contro gli
esistenti e magri aiuti ai poveri; in parte grazie all’influenza
del suo trattato, la Poor Law [legge sui poveri] inglese venne
emendata in senso ancor più restrittivo e rigido. Il suo libro fu un enorme successo commerciale, protrattosi per ben sei edizioni. La sua
argomentazione venne abbracciata di tutto cuore dalle classi
dirigenti.
Entrambe
le affermazioni di Malthus – riguardanti la crescita della
popolazione e della produzione di cibo – sono state confutate dagli
eventi. La produzione alimentare pro capite è cresciuta
costantemente (non è a causa della mancanza di cibo nel mondo, bensì
dell’accesso ad esso, che si soffre la fame). Per di più,
contrariamente alla tesi di Malthus, secondo la quale l’abbondanza
di mezzi di sussistenza comporterebbe una crescita della popolazione
in eccesso, le società più prospere tendono ad avere bassi (o
persino negativi) tassi di crescita della popolazione. Le società
povere, nelle quali le coppie temono che i loro figli possano non
sopravvivere, tendono invece ad avere tassi di crescita della
popolazione superiori [6].
Anziché
ricercare una spiegazione alla povertà nelle condizioni storiche e
nei rapporti sociali prevalenti, Malthus li ha occultati
sostituendoli con una presunta legge naturale. È proprio tale
approccio ad aver ottenuto l’apprezzamento delle classi dirigenti
dell’epoca e di oggi. Così, nonostante la teoria di Malthus sia
stata empiricamente confutata, essa continua a resistere
all’archiviazione. Per esempio, Jeffrey Sachs cita esplicitamente
Malthus a supporto del suo punto di vista, secondo il quale
“l’eccessiva crescita della popolazione interromperebbe il
progresso economico” [7]. Altri, sebbene inconsapevolmente, basano
le proprie argomentazioni sulla sua teoria. Quando George Bush
sostiene che i crescenti consumi di Cina e India sono la causa
dell’incremento dei prezzi delle risorse alimentari a livello
globale, si inserisce nel solco tracciato da Malthus. Analogamente,
quando i paesi ricchi indicano nell’aumento del dato assoluto delle
attuali emissioni di carbone in paesi come Cina e India una minaccia,
occultano la propria responsabilità circa la stragrande maggioranza
delle emissioni storiche pro capiti.
Dall’eugenetica
al ‘controllo della popolazione’
Sebbene
molti pensatori qualificati del XIX secolo contestassero la ‘teoria’
di Malthus, questa acquisì credibilità scientifica a seguito
dell’approvazione di Darwin [8]. Il quale, nella sua autobiografia,
affermò di dovere la sua teoria dell’origine ed evoluzione delle
specie a Malthus [9].
Nell’ottobre 1838, e cioè quindici mesi dopo l’inizio delle ricerche sistematiche, mi accadde di leggere per svago il libro di Malthus sulla popolazione. Ero pronto ad ammettere la lotta per l’esistenza, che ovunque si deduce da un’osservazione prolungata delle abitudini degli animali e delle piante; ma mi colpì immediatamente il fatto che in queste condizioni le variazioni favorevoli tendessero a esser conservate, le sfavorevoli a essere eliminate. Risultato: la formazione di nuove specie. Dunque avevo trovato finalmente una teoria sulla quale lavorare [10].
Un
nuovo punto di vista sulle preoccupazioni circa la sovrappopolazione
venne fornito dal cugino di Darwin, sir Francis Galton. Quest’ultimo
espose la prospettiva di uno “stock genetico nazionale declinante”
nella sua opera Inquiries
into Human Faculty and its Development.
Al fine di contrastare una simile tendenza ‘disgnica’, egli
proponeva una politica attiva ‘eugenetica’, termine da lui
coniato significante ‘ben nato’. L’eugenetica avrebbe
favorito più figli da parte dei più adatti, e meno – o niente –
da parte degli inadatti, nell’obiettivo di un’ingegneria
dell’ascesa evolutiva dell’uomo.
La ‘dottrina
eugenetica’ venne accolta incondizionatamente dai riformatori
sociali e dall’accademia dell’epoca (il 75 perento dei college,
negli anni Venti del XX secolo, offriva corsi di eugenetica) [11]. A
differenza di Malthus (il quale confidava nel fatto che pestilenze,
influenza ecc., avrebbero eliminato i poveri) questi individui
benintenzionati miravano ad un programma proattivo finalizzato
ad assicurare una ‘popolazione desiderabile’. Non mancava da
parte loro l’impegno affinché il governo intervenisse per
implementare tali iniziative. Persino Margaret Sanger, l’influente
attivista statunitense per il controllo delle nascite e l’educazione
sessuale, nonché fondatrice nel 1916 del movimento ‘Planned
Parenthood’, espresse opinioni di natura eugenetica e talvolta
condivise piattaforme con gli eugenisti. Sanger era una fautrice
dell’eugenetica ‘negativa’, con la quale si puntava a
migliorare i tratti ereditari umani, tramite interventi sociali che
riducessero la riproduzione di coloro che erano ritenuti ‘inadatti’.
La prospettiva della Sanger comprendeva la promozione di una politica
dell’immigrazione restrittiva, libero accesso ai contraccettivi,
completa autonomia di pianificazione familiare per i mentalmente
abili e segregazione e sterilizzazione obbligatorie di chi fosse
ritenuto affetto da gravi ritardi [12]. Nel suo libro The
Pivot of Civilization,
promuoveva la coercizione per impedire che gli “innegabilmente
deboli di mente” procreassero [13].
La
crescente influenza dell’eugenetica statunitense subì una grave
battuta d’arresto con l’ascesa del nazismo negli anni Trenta, nel
momento in cui lo stato tedesco introdusse politiche sociali
razzialmente orientate al fine di stabilire la supremazia della razza
ariana. L’ideologia fondamentale dei nazisti si basava
sull’eugenetica, laddove intere classi di esseri umani identificate
come “vite indegne di essere vissute” (inclusi, ma non solo,
criminali, degenerati, dissidenti, affetti da ritardo mentale,
omosessuali, inattivi, folli e deboli) erano destinate
all’eliminazione dalla catena ereditaria. Oltre 400.000 persone
vennero sterilizzate forzatamente, mentre 275.000 vennero uccise
nella cosiddetta Action T4, un vero e proprio programma
di ‘eutanasia’ [14]. Il più noto dei programmi eugenetici
promossi dallo stato fu la Soluzione finale, il tentativo nazista di
eliminazione di interi gruppi etnici (ebrei, rom, ecc.).
La
condanna mondiale delle politiche naziste aveva gettato il discredito
sull’eugenetica. L’accento sarebbe passato ora al ‘controllo
della popolazione’. Nel 1952 John D. Rockfeller III fondava il The
Population Council,
un’organizzazione non governativa internazionale mirante al
controllo della popolazione dei paesi poveri. Il primo presidente del
Council designato da Rockfeller era un eugenista: Frederick Osborne,
autore di Preface
to Eugenics (New
York, 1940), leader dell’American Eugenics Society. Ad oggi, il
Population Council opera in oltre 60 paesi attraverso le sue sedi in
Asia, America Latina e Africa.
Nel
1969, l’UNFPA (United Nations Population Fund) veniva istituito
principalmente a seguito di una massiccia attività di lobbyng da
parte di John Rockfeller. La missione dichiarata dell’UNFPA
consiste nel “favorire un mondo in cui ogni gravidanza sia voluta,
ogni nascita sicura e il potenziale di ogni giovane persona
pienamente raggiunto”. Tuttavia, l’inconfondibile sotto-testo
dell’attività dell’organizzazione è la ‘crisi di
sovrappopolazione’. Nel suo sito web si dichiara:
Poiché la popolazione mondiale ha raggiunto i 7 miliardi nel 2011 (a partire dai 2,5 miliardi del 1950), ciò ha avuto profonde implicazioni per lo sviluppo. È dunque necessario che i governi raccolgano dati adeguati circa le dinamiche e le tendenze della popolazione, al fine di impostare e gestire politiche efficaci in grado di andare in contro alle esigenze presenti e future dell’umanità. L’UNFPA sostiene i governi in tali compiti, compresi i censimenti, i rilevamenti, le analisi e le ricerche relative alla popolazione e allo sviluppo [15].
Lo
sviluppo del movimento ecologista negli anni Sessanta contribuiva ad attribuire tutti i mali del mondo – fame, inquinamento,
diminuzione delle risorse, rifiuti, ecc. – alla sovrappopolazione.
All’epoca vennero scritti diverse influenti studi, tra cui il
pionieristico lavoro di Rachel Carson, Silent
Spring (1962).
Ma a conquistare un’immediata popolarità fu Population
Bomb di
Paul R. Erlich (1968). Il libro esordiva con questa affermazione:
La battaglia per nutrire l’intera umanità è iniziata. Negli anni Settanta centinaia di milioni di persone moriranno di fame, e ciò a dispetto di ogni programma di emergenza stabilito al momento presente. A questa data niente può prevenire un sostanziale incremento del tasso di mortalità a livello mondiale.
Più
vicino a noi, la sterilizzazione forzata di massa (innanzitutto
tramite vasectomia) venne attuata durante il periodo dell’Emergenza,
nel contesto del programma di controllo delle nascite avviato da
Sanjay Gandhi; esito del programma furono 8,3 milioni di
sterilizzazioni, dai 2,7 milioni dell’anno precedente [16]. La
sconfitta del Congresso alle elezioni del 1977 pose fine alla pratica
della vasectomia forzata. Tuttavia, nel nostro paese, il ricorso alle
pressioni al fine di favorire le sterilizzazioni è proseguito sino
ad oggi in forme differenti, attraverso incentivi e disincentivi. Il
principale bersaglio, al momento, sono però le donne. Laddove 4,6
milioni di donne sono state sterilizzate limitatamente all’India
nel 2011-12, sono stati circa duecentomila gli uomini sottoposti a
vasectomia. Le sterilizzazioni femminili in India rappresentano
grosso modo il 40 percento di quelle effettuate in tutto il mondo
sulle donne di età compresa tra i 15 e i 45 anni [17].
La
brigata del controllo della popolazione ha ricevuto nuovo impulso con
l’ingresso del miliardario Bill Gates nel campo
della ‘filantropia’. Gates ha speso centinaia di migliaia di
dollari al fine di migliorare l’accesso alla contraccezione nel
mondo in via di sviluppo. Suo padre è stato a lungo impegnato nel
gruppo eugenetico Planned Parenthood. Gates senior è co-presidente
della Bill & Melinda Gates Foundation e detiene una grande
influenza riguardo la visione e l’orientamento dell’organizzazione.
Organizzazione che opera massicciamente in Africa e India. Nel 2009,
Gates ha convocato un’incontro a porte chiuse di alcuni dei
principali miliardari USA, con l’obiettivo di discutere in che modo
la loro ricchezza possa essere utilizzata allo scopo di rallentare la
crescita della popolazione. All’incontro erano presenti, fra gli
altri, David Rockfeller Jr., patriarca della più ricca dinastia
statunitense, Warren Buffett e George Soros, entrambi finanzieri,
Michael Bloomberg, sindaco di New York ed i magnati dei media Ted
Turner e Oprah Winfrey. Questi, insieme a Gates, hanno donato più di
45 miliardi di dollari, a partire dal 1996, a quelle che sostengono
essere cause filantropiche. Secondo un partecipante al vertice
citato, “è emerso un certo consenso sulla volontà di sostenere un
strategia in base alla quale la crescita della popolazione andrebbe
affrontata come una minaccia potenzialmente disastrosa dal punto di
vista ambientale, sociale e industriale” [18].
Quale
quintile andrebbe eliminato?
In
un certo senso, è vero per definizione che la dimensione della
popolazione mondiale è un fattore nell’esaurimento delle risorse
naturali, essendo l’altro l’intensità nell’utilizzo di esse.
Ogni essere umano, in una misura o nell’altra, usa le risorse
naturali del pianeta, per cui ad ogni aggiunta alla popolazione
mondiale corrisponderà un carico aggiuntivo. Se davvero siamo in
troppi, vediamo di esaminare clinicamente quanti fra di noi, e quali,
dovrebbero essere sacrificati per un bene comune superiore.
Tabella
1A: suddivisione
delle risorse mondiali – 20% più ricco e 20% più povero
Risorse
mondiali totali
|
Quota del
20% più ricco al mondo
|
Quota del
20% più povero al mondo
|
|
1.
|
Consumo
totale privato
|
86%
|
1,3%
|
2.
|
Consumo
totale di energia
|
58%
|
4,0%
|
3.
|
Consumo
totale di carta
|
84%
|
1,1%
|
4.
|
Proprietà
veicoli a livello mondiale
|
87%
|
1,0%
|
5.
|
Consumo
totale di carne e pesce
|
45%
|
5%
|
Fonte:
Human development Report HDR 1998 Overview, p.2
Tabella
1B: impronta
di carbonio [19] dei diversi paesi
Paese
|
Popolazione
(mln)
|
Impronta
di carbonio
(t CO2 equivalente/per capita)
|
Impronta
totale di carbonio dei diversi paesi (mln. di t. di CO2 equivalente)
|
Stati Uniti
|
317
|
26,5
|
8400
|
Australia
|
23
|
22,5
|
518
|
Gran
Bretagna
|
64
|
16,5
|
1743
|
Federazione
Russa
|
144
|
10,6
|
1527
|
Brasile
|
201
|
3,8
|
764
|
Cina
|
1361
|
4,0
|
5444
|
India
|
1238
|
1,7
|
2067
|
Bangladesh
|
152
|
1,0
|
152
|
Mondo [20]
|
7134
|
4,0
|
28536
|
Fonte:
Carbon Footprint of Nations [21]
Come
reso evidente dai dati forniti nelle tabelle 1A, 1B e 1C, non è il
quintile più povero, bensì quello più ricco a dover essere
eliminato così da ottenere la più vistosa differenza nella
disponibilità delle risorse. Del consumo privato totale, l’86
percento dipende dal 20 percento più ricco; il quale se venisse
rimosso consentirebbe un aumento della media disponibile per il resto
dell’umanità di oltre sei volte. La disponibilità di energia e
prodotti alimentari di alta qualità risulterebbe più che
raddoppiata per tutti noi. Al contrario, rimuovere il quintile più
povero non causerebbe la minima intaccatura alla disponibilità
totale.
Secondo
le statistiche Carbon Footprint la popolazione totale di Cina, India
e Bangladesh combinati (costituenti circa il 40 percento della
popolazione) ha un’impronta di diossido di carbonio inferiore anche
a quella degli Stati Uniti considerati da soli. Di fatto, il 7,7
percento della popolazione (USA, Australia, Federazione Russa e Gran
Bretagna combinati) rappresentano il 43 percento dell’impronta di
carbonio totale.
Tabella
1C: alcuni
altri modelli di distribuzione del consumo nei diversi paesi
Parametro
|
Modello
distribuzione consumo
|
Reddito
|
Nel
1960, il 20 percento della popolazione mondiale nei paesi più
ricchi deteneva un reddito pari a 30 volte quello del 20 percento
più povero – nel 1997, 74 volte [22].
|
Acqua più
ricchi
|
Un
esiguo 12 percento della popolazione mondiale usa l’85 percento
dell’acqua del pianeta, e questo 12 percento non vive nel Terzo
mondo [23].
|
Acqua più
poveri
|
1,7
miliardi di persone sono prive dell’accesso all’acqua
potabile. 2,3 miliardi, ogni anno, soffrono di patologie collegate
all’acqua di cui si servono [24].
|
Energia
|
In
media, uno statunitense consuma tanta energia quanto 2 giapponesi,
6 messicani, 13 cinesi, 31 indiani, 128 Bangladesi, 307
tanzaniani, 307 etiopi [25].
|
Impronta
CO2 più ricchi
|
La
responsabilità dell’80 percento delle emissioni complessive di
diossido di carbonio, a partire dalla Rivoluzione industriale è
da attribuirsi al solo 20 percento degli abitanti dei paesi più
ricchi (nel momento in cui tale dato è stato calcolato includeva
solo Europa, Nord America e Unione Sovietica [24].
|
Impronta
CO2 più poveri
|
L’impronta
di carbonio del miliardo più povero (coloro che vivono con meno
di 1 dollaro al giorno) rappresenta solo il 3 percento del totale
globale, in base alle stime delle Nazioni Unite [26].
|
Impronta
ecologica
|
L’impronta
ecologica [27] in tutto il mondo mostra che se tutta l’umanità
vivesse come un residente medio dell’Indonesia, solo due terzi
della biocapacità del pianeta risulterebbero usati; se ognuno
vivesse come un argentino medio, l’umanità necessiterebbe di
oltre mezzo pianeta aggiuntivo; infine, se ognuno vivesse come un
residente medio degli Stati Uniti, sarebbe necessario un totale di
quattro pianeti terra per rigenerare quanto richiesto dall’umanità
all’ambiente naturale [28].
|
In
un saggio pubblicato nel 2009 vengono prese in considerazione le
emissioni di carbonio di diversi paesi nel corso di 25 anni,
dimostrando in modo convincente che le aree in cui la popolazione è
cresciuta più rapidamente sono anche quelle nelle quali il diossido
di carbonio è aumentato più lentamente, e viceversa. Tra il 1980 ed
il 2005, per esempio, l’Africa sub-sahariana è stata responsabile
del 18,5 percento della crescita della popolazione mondiale e solo
del 2,4 percento di quella di CO2, laddove il Nord America, col suo 4
percento di popolazione extra, ha prodotto il 14 percento di emissioni
supplementari. Il sessantatré percento dell’aumento della
popolazione mondiale è avvenuto in zone con emissioni assai basse.
Nel saggio già citato si fa notare: “Se il contributo a vita alle
emissioni di gas serra di una persona aggiuntasi alla popolazione
mondiale varia di un fattore di oltre 1.000, dipendente dalle
circostanze in cui è nata e dalle sue scelte di vita, è fuorviante
vedere nella crescita della popolazione la principale causa del
cambiamento climatico” [29].
Inoltre,
molte delle emissioni imputate ai paesi poveri, andrebbero
attribuite, a voler essere corretti, a quelli ricchi – per esempio,
le attività di gas flaring delle compagnie che esportano petrolio
dalla Nigeria hanno prodotto molto più gas serra di tutte le altre
fonti dell’Africa sub-sahariana messe insieme. Analogamente, per
quanto riguarda la Cina, l’assai rapida crescita della produzione
dal 1980 al 2005 (gran parte della quale destinata all’esportazione)
costituisce un importante causa del suo altrettanto rapido aumento in
emissioni di CO2 [30].
Se
dunque è necessario ridurre la popolazione al fine di risparmiare
risorse, allora non è quella povera a dover diminuire, bensì quella
più ricca. Così, rispondendo a coloro che lanciano l’allarme
sulla popolazione, Fred Magdoff suggerisce di applicare una politica
di “zero figli” o del “figlio unico” al 10 percento più
ricco al mondo; l’introduzione immediata di una tassa di
successione del 100 percento per i ricchi; nonché un abbassamento
del loro reddito con una modesta compensazione massima (analoga ad un
salario minimo). “Seguendo tali prescrizioni, potemmo
approssimativamente avere una rapida riduzione nell’utilizzo
complessivo delle risorse e nell’inquinamento di circa la metà”
[31].
Le
risorse disponibile sono davvero scarse?
Al
fine di approfondire ulteriormente la questione della presunta
scarsità di risorse per la popolazione, prendiamo in esame terra e
risorse alimentari.
Densità
di popolazione
Quanto
siano campate in aria le affermazioni secondo le quali il pianeta
sarebbe ‘saturo’, o sovraffollato, risulta evidente
dalle densità di popolazione (persone per km²) nelle differenti
regioni del mondo. Il dato relativo a tutto il mondo e di 53 persone
per km²; per l’Africa, 35; per l’America Latina e i
Caraibi, 29, ma per quanto riguarda i Pesi Bassi, 493. Fra quelli
citati, il più ricco son di gran lunga i Paesi Bassi, i quali, tra
l’altro, rappresentano il secondo maggiore esportatore mondiale di
prodotti agricoli. Una comparazione tra le differenti densità di
popolazione dei vari paesi ed il PIL pro capite, rivela come non vi
sia correlazione tra la loro densità e la rispettiva prosperità
[32].
Risorse
alimentari
Gli
esperti, negli ultimi anni, hanno spesso predetto una crisi
alimentare globale. L’aumento sistematico dei prezzi delle risorse
alimentari, combinato ad avverse condizioni meteorologiche e alla
crisi economica, hanno alimentato simili predizioni apocalittiche.
Allo steso tempo, 1,4 milioni di adulti sono considerati sovrappeso
[33].
Al
mondo sono stati prodotti 13 quadrilioni di chilocalorie (kcal) nel
2010, o 5359 kcal pro capiti al giorno [34]. Ciò nonostante, dato
che gran parte della produzione agricola è stata destinata
all’alimentazione animale per la produzione di carne, o al momento,
verso il biocarburante, la disponibilità pro capite di cibo è più
bassa, precisamente 2790 kcal pro capiti al giorno (2006-08).
Contrariamente alle previsioni malthusiane di un declino delle
risorse alimentari pro capiti, quest’ultimo dato mostra un
incremento rispetto alle 2220 kcal pro capiti giornaliere dei primi
anni Sessanta [35]. Le attuali proiezioni fornite da organismi
internazionali come la FAO non prevedono alcuna difficoltà nel
garantire la sicurezza alimentare. Sebbene la crescita agricola possa
in futuro essere minacciata dal cambiamento climatico, dalla
conversione dei terreni agricoli ad altri fini così come da altre
attività umane, tutto ciò non ha niente a che vedere con la
crescita della popolazione in quanto tale.
Secondo
Joshua Muldavin, docente di geografia al Sarah Lawrence College,
le cui ricerche si concentrano su istruzione alimentare e agricola,
“al momento, disponiamo almeno di due o tre volte la quantità di
cibo necessario per nutrire il numero di persone presenti al mondo”
[36]. Emelie Peine, docente di politica internazionale ed economia
alla University of Puget Sound, così argomenta riguardo alla carenza
di cibo: “non ci troviamo di fronte ad un problema di scarsità di
cibo, bensì ad un problema di distribuzione e reddito” [37].
Nel
1998, Frances Moore, Joseph Collins e Peter Rosset, nel loro famoso
libro World
Hunger: Twelve Myths affermavano
che:
Il termine abbondanza, e non scarsità, descrive al meglio la disponibilità mondiale di cibo. La produzione di grano, riso e altri cereali è sufficiente a fornire ad ogni essere umano 3.200 calorie al giorno. Ciò senza contare molti altri alimenti comunemente consumati – verdure, legumi, noci, radici, frutta, carni allevate al pascolo e pesce. Sono disponibili abbastanza risorse alimentari da garantire 4,3 libre di cibo a persona ogni giorno in tutto il mondo: due libre e mezzo di grano, legumi e noci, all’incirca una libra di frutta e verdura e quasi un’altra libra composta di carne, latte e uova – sufficienti a rendere qualcuno grasso! Il problema risiede nel fatto che molte persone sono troppo povere per comprare cibo prontamente disponibile. Persino buona parte dei “paesi affamati”, in questo momento, possiedono cibo bastante per tutti i loro abitanti. Molti di essi sono esportatori netti di risorse alimentari ed altri prodotti agricoli.
Ed
l’argomentazione secondo la quale vi è cibo più che sufficiente
per la popolazione mondiale sembra essere ancora valida. Eric Holt
Gimenez, direttore esecutivo di Food First/Institute for Food
and Development Policy, ha sostenuto che “la fame è causata dalla
povertà e dalle ineguaglianze, non dalla scarsità”. A sua detta:
Il mondo produce già oltre una volta e mezzo il cibo bastante a nutrire tutti nel pianeta. Ciò è sufficiente a nutrire 10 miliardi di persone, ovvero il picco della popolazione che ci si aspetta per il 2050… In realtà, la maggior parte dei raccolti di grano prodotti industrialmente finisce nei biocarburanti e nei mangimi, anziché in cibo per un miliardo di affamati. L’appello ad aumentare la produzione di alimenti, entro il 2050, è valido solo se continueremo a dare priorità alla crescente popolazione di bestiame ed automobili, rispetto alle persone affamate [38].
Dunque
possiamo in conclusione affermare che la ragione della fame nel mondo
non è la popolazione – si produce già cibo sufficiente, e anche
di più, per tutti. Eppure le famiglie e le nazioni più povere
producono più figli di quelle ricche. Analizziamo quindi anche la
ragione di questo fatto.
Perché
i poveri hanno più figli?
Parlando
durante una sessione del World Population Day nel 2009, il
ministro della sanità e del welfare familiare indiano Ghulam Nabi
Azad, ha sostenuto che “la crescita della popolazione è la causa
principale di numerosi problemi nazionali, compresa la povertà, la
disoccupazione, l’aumento dei prezzi e il deterioramento della
legge e dell’ordine. Molte questioni sociali, come il naxalismo,
sono il riflesso di questa discrepanza tra popolazione e risorse”.
Quale coscienzioso rappresentante del popolo egli non si è limitato
ad evidenziare il problema, ma ha anche proposto una soluzione
singolare – vale a dire, fornire elettricità a tutti i villaggi:
“se vi fosse elettricità in tutti i villaggi, le persone
guarderebbero la TV sino a tarda notte per poi addormentarsi. Non
avrebbero così occasione di fare figli. Laddove non c’è
elettricità, non vi è nient’altro da fare se non procreare”, ha
affermato il ministro della sanità dell’Unione [39].
Qualsiasi
donna abbia portato un bambino nel proprio grembo per nove mesi,
spesso senza accesso ad una dieta adeguata, sopportando
contemporaneamente le fatiche del lavoro, per poi nutrirlo col
proprio corpo a dispetto di una seria anemia, in proposito ha senza
dubbio una conoscenza ben superiore a quella del ministro. Cerchiamo
quindi di comprendere per quali ragioni economiche i poveri hanno più
figli.
A
quanto pare i giovani umani necessitano di cure assai più protratte
rispetto a quelli di altre specie. In realtà i ricchi ed i “bambini”
benestanti non crescono mai completamente, hanno bisogno di attingere
alla ricchezza e alle connessioni dei genitori e della comunità per
cavarsela, persino in età adulta. Molti membri delle élite non
necessitano di guadagnarsi da vivere coi propri mezzi, preferendo
fare affidamento su ricchezze ereditate e lavori ottenuti tramite
connessioni. Inoltre, manifestano orgoglio nell’affermare i propri
legami con i potenti, siano essi determinati dalla nascita o
dall’affiliazione di casta.
Al
contrario, un bambino nato in una famiglia povera si trova a dover
lottare per la propria vita sin dal suo primo respiro. Un devastante
rapporto pubblicato da Save the Children nel 2009 riporta che due
milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono ogni giorno in India,
uno ogni 15 secondi – il numero più alto in tutto il mondo. Oltre
la metà muoiono nel mese immediatamente successivo alla nascita e
400.000 entro le prime 24 ore [40]. Nel 2010, il tasso di moralità
infantile [41] riportato era di 47 a livello nazionale, variando dal
51 delle aree rurali al 31 di quelle urbane [42]. Inoltre, più del
20 percento dei decessi infantili nel mondo si verifica in India,
dove peraltro vive un bambino malnutrito ogni tre al mondo. Un
bambino affetto da grave malnutrizione ha come minimo nove
probabilità in più di morire rispetto ad un altro. Circa il 28
percento dei decessi infantili sono connessi alla scarsa igiene e
all’acqua potabile non sicura [43]. Secondo i dati forniti
da Children
in India 2012,
un rapporto statistico del Ministero della statistica e
dell’attuazione del programma dell’Unione, quasi la metà dei
bambini indiani – approssimativamente 60 milioni – sono
sottopeso, il 45 percento ha una crescita stentata (troppo lenta
rispetto all’età), il 20 percento si trova in stato di consunzione
(eccessiva magrezza in rapporto all’età, indice di acuta
malnutrizione), il 75 percento è anemico ed il 57 percento soffre di
carenza di vitamina A [44]. Così, a differenza della loro
controparte ricca, i genitori in una famiglia povera non hanno alcuna
certezza che il loro bambino sopravviverà oltre l’infanzia.
In
seguito, non appena un bambino proveniente da una famiglia
svantaggiata supera l’infanzia, sarà costretto probabilmente a
dover lavorare. Sulla base della sua pionieristica ricerca sul
villaggio di Char goplapur in Bngladesh, Mead Cain fa notare che “i
bambini di entrambi i sessi iniziano la loro vita economicamente
attiva intorno ai 6 anni, svolgendo compiti come procurare
carburante, acqua, trasmettere messaggi e prendersi cura dei bambini
più piccoli”. Inoltre, sulla base di alcune ipotesi, conclude che
un bambino maschio dell’età di dodici anni diviene un produttore
netto, e raggiunti i quindici anni da un contributo netto positivo al
reddito familiare – ovvero, guadagna più di quanto non consumi
[45]. Sebbene si tratti di una ricerca basata sul caso del
Bangladesh, gli studiosi danno per scontato che il quadro tracciatovi
sia valido per altri paesi poveri del mondo [46]. Il censimento 2001,
in India, ha rilevato che 12,66 milioni di bambini sotto i 14 anni
devono lavorare per guadagnarsi da vivere. Tuttavia, il numero di
bambini lavoratori potrebbe essere considerevolmente più alto di
quanto registrato dai dati ufficiali, poiché il lavoro infantile è
spesso invisibile: i bambini, infatti, tendono ad essere impiegati in
unità domestiche nel settore informale. L’UNICEF stima che in
India vi sono 35 milioni di bambini lavoratori, pari al 14 percento
dei minori compresi nel gruppo tra i 5 ed i 14 anni di età. Le stime
fornite da organizzazioni non governative, basate sul numero di
bambini che non vanno a scuola, fissano la cifra ad oltre 60 milioni
[47].
I
dati del censimento 2001 rivelano che le principali occupazioni in
cui vengono impiegati i bambini includono ‘spezie e tabacchi’ (21
percento), ‘edilizia’ (17 percento), ‘lavoro
domestico’ (15 percento) e ‘tessitura e filatura’ (11
percento). È interessante notare che, sino all’età di 14 anni, i
minorenni di entrambi i sessi hanno quasi lo stesso tasso di
partecipazione alla forza lavoro formale, ma nella categoria compresa
tra i 15 ed i 19 anni il numero delle lavoratrici si riduce ad almeno
la metà degli omologhi maschili. Questo, ovviamente, non significa
che le minorenni comprese in tale gruppo di età non lavorino, ma
piuttosto che raggiungono l’esercito dei lavoratori non pagati [47]
della nostra economia [49].
Nel
complesso, come dovrebbe risultare chiaro da quanto discusso finora,
un bambino in una famiglia svantaggiata non costituisce meramente
un’altra bocca da sfamare, bensì qualcosa di più simile a due
braccia aggiuntive per lavorare e contribuire al reddito familiare.
Tra l’altro, un contributo cruciale, data la natura precaria dei
mezzi di sussistenza con i quali la maggior parte delle famiglie
svantaggiate hanno a che fare. Come rivelato dal rapporto prodotto
dalla National Commission for Enterprises in the Unorganized
Sector (NCEUS), nell’aprile del 2009, meglio noto come rapporto
Arjum Sengupta, malgrado lunghi anni di crescita economica, il 77
percento della popolazione indiana nel 2004-05 continuava a vivere
con meno di venti rupie al giorno, ed il 92 percento della forza
lavoro indiana consisteva di lavoratori informali/non organizzati. I prezzi dei prodotti alimentari sono saliti alle stelle negli ultimi
due anni; persino il grano di base è scomparso dal piatto di un
povero, lasciandovi solo legumi e verdure. Considerato ciò, è poi
così sorprendente che tutte le braccia di una famiglia povera siano
costrette a contribuire a mettere insieme un pasto ogni giorno?
Un
rapido sguardo alla storia rivela che per le masse le cose non erano
tanto differenti nei paesi ricchi nel XIX secolo. Le dimensioni delle
famiglie erano grandi – “in Gran Bretagna un terzo delle donne
sposate nate nei primi anni Cinquanta del secolo avevano almeno sette
parti andati a buon fine, il 10-15 percento aveva dieci o più figli…
” [50]. Le condizioni di vita erano disperate:
Orrendi slum, talvolta ampi, talaltra niente più che antri di oscura miseria, costituivano una parte sostanziale delle metropoli… All’interno di grandi, ed un tempo belle, case, trenta o più persone di ogni età abitavano in una singola stanza [51].
Dai
bambini ci si aspettava che contribuissero al bilancio familiare e
spesso lavoravano per lunghe ore in impieghi pericolosi, in
situazioni difficili e per un salario infimo. Nell’introduzione di
un libro pubblicato nel 1851 intitolato London
Labour and the London Poor l’autore
Henry Mayhew scriveva:
… le condizioni di una classe di persone la cui miseria, ignoranza e vizio nel mezzo dell’immensa ricchezza e conoscenza della “prima città del mondo”, costituisce, quantomeno, una vergogna nazionale per tutti noi [52].
Alla
fine del XIX secolo, in larga parte come risultato delle migliori
condizioni di vita, la mortalità infantile era straordinariamente
diminuita, laddove l’aspettativa di vita era invece rapidamente
aumentata. Al contempo, grazie all’organizzarsi della classe
operaia nel mondo industrializzato, aumentavano i salari, diminuiva
l’orario di lavoro e venivano messe in atto leggi e
regolamentazioni anche per il lavoro minorile. Gli spazi di lavoro e
abitativi divenivano relativamente igienici e sani, e le dimensioni
delle famiglie si riducevano. Col passaggio al XX secolo alcuni paesi
europei avevano adottavano misure di stato sociale, prevalentemente
legate all’assistenza sociale e sanitaria, a proposito delle quali
è interessante notare che vennero introdotte non sulla base di
un’agenda socialista, bensì allo scopo di contenere la
sindacalizzazione e la militanza dei lavoratori [53]. Le dimensioni
delle famiglie, come già detto, erano rapidamente declinate: da una
media di circa cinque membri all’inizio del XX secolo a poco più
di due alla fine del Novecento [54].
Più
vicino a noi, nello stato meridionale del Kerala, dove risiede il
2,76 percento degli abitanti del paese, la densità di popolazione è
di 859 persone per km², tre volte la media nazionale. Eppure, grazie
alle migliori strutture sanitarie e all’alto tasso di
alfabetizzazione (il più alto del paese, 93,91 percento) [55],
nonché ad un rapporto tra i due sessi di 1084 (donne per 1000
maschi) rispetto ad una media nazionale di 940, questo stato ha un
basso tasso di mortalità infantile, ovvero 13 (su 1000 nascite),
comparabile a quello dei paesi sviluppati. Conseguentemente, il
Kerala ha uno dei tassi di natalità più bassi, 14,8 su 1000, cioè
metà della media nazionale di 23, 1. Inoltre, l’indice di
sub-sostituzione del tasso di fecondità di 1,7 (il tasso di
sostituzione è almeno di 2), per cui la sua popolazione è data in
probabile declino nei prossimi anni [56]. Dunque, si può
tranquillamente concludere che il tasso di fecondità non è la causa
della povertà, ma al contrario, che la povertà (e la conseguente
incertezza) è alla base di un più alto tasso di fecondità [57].
Sia
che le proiezioni delle nazioni Unite circa i futuri tassi di
crescita demografica (grafico 1) trovino conferma o meno, appare
evidente che i tassi di aumento della popolazione stanno già calando
in tutto il mondo.
Grafico
1: tasso medio annuale di cambiamento della popolazione, nel mondo e
per gruppi di sviluppo
Siamo
di fronte ad una carenza di risorse?
Come
risulta evidente dalla tabella 4, il mondo dispone di enorme
ricchezza, la quale viene attualmente allocata in gran parte al fine
di coprire capi di spesa frivoli o dannosi. I capi di stato ritengono
gli incredibili pacchetti di salvataggio dei più potenti e ricchi
individui ed istituzioni del mondo una priorità rispetto alla fame
nel mondo. Il pacchetto totale di salvataggio societario negli Stati
Uniti si è tradotto nell’enormità di ben 9,7 trilioni di dollari.
Tabella
4: alcune priorità di spesa globali
Capi di
spesa
|
Spesa
annuale
|
Mercato
mondiale bellezza e cura personale [58] 2011
|
426
miliardi di dollari
|
Mercato
globale del tabacco [59] 2012
|
457
miliardi di dollari
|
Mercato
globale della birra [60] 2009
|
471
miliardi di dollari
|
Vendita e
traffico globali di narcotici [61] 2000
|
500
miliardi di dollari
|
Spesa
pubblicitaria globale [62] 2012
|
557
miliardi di dollari
|
Mercato
globale alcolici [63] 2008
|
947
miliardi di dollari
|
Industria
mondiale dei media e dell’intrattenimento [64] 2012
|
1600
miliardi di dollari
|
Spesa
militare globale [65] 2012
|
1700
miliardi di dollari
|
Spese
militari USA in Iraq e Afghanistan
|
2000
miliardi di dollari
|
Pacchetto
di salvataggio societario USA [66]
|
9700
miliardi di dollari
|
In
realtà, le priorità mondiali sembrerebbero eliminare i poveri più
che la povertà. La spesa militare statunitense per le guerre in Iraq
ed Afghanistan va ben oltre quanto necessario al fine di occuparsi
delle esigenze basilari del mondo.
Ma
perché un tale ribaltamento delle priorità globali? Esaminiamone le
ragioni.
Chi
decide dell’allocazione delle risorse mondiali?
Per
comprendere chi decide dell’allocazione delle risorse globali è
necessario comprendere chi controlla la ricchezza mondiale. Secondo
il Credit Suisse Global Report 2013, la ricchezza totale mondiale si
aggira intorno ai 241 trilioni di dollari – in aumento del 4,9
percento rispetto all’anno precedente [67]. La piramide della
ricchezza globale (grafico 2) rappresenta graficamente la
distribuzione della ricchezza fra la popolazione.
Grafico
2: la piramide della ricchezza globale
Fonte: Credit Suisse, Global Wealth Report
2013 [68]
Il
vertice della popolazione costituito dall’8,5 percento possiede
oltre l’83 percento della ricchezza globale, laddove la quota del
70 percento alla base è di appena il 3 percento. La cima della
piramide è ancor più ripida – il valore netto dei 200 individui
più ricchi (2,7 trilioni di dollari) [69] è lo stesso della base
costituita da 3,2 miliardi di persone, in altri termini, metà della
popolazione dell’intero pianeta! Significativamente, tali ricchi
individui sono stati in grado di incrementare la propria ricchezza a
dispetto della crisi finanziaria. Secondo un recente rapporto di
Oxfam, malgrado una riduzione globale della ricchezza i primi 100
miliardari sono riusciti ad aumentare la propria ricchezza di 240
miliardi di dollari nel 2012 [70]. Tra questi super-ricchi, per
inciso, sono comprese anche alcune personalità che hanno svolto
attività di lobbying a favore della riduzione e controllo
della popolazione del Terzo mondo, finanziando importanti programmi
in tal senso. Le politiche statali e quelle delle istituzioni
internazionali sembrano essere allineati agli interessi dei ricchi e
potenti. Questi cosiddetti Ultra High Net worth (UHNW) [71],
detengono anche un immenso potere politico.
Per
questa classe, le spese apparentemente dissennate elencate poco più
sopra servono un fine assai utile. La pubblicità è necessaria per
promuovere i loro prodotti. Considerando che producono, tra le altre
cose, prodotti di bellezza, tabacco, alcol, media ed intrattenimento,
il consumo di massa di tutto ciò si rende necessario ai detentori
del capitale. Le spese militari arricchiscono tale classe sia
direttamente (industria degli armamenti) che indirettamente
(prendendo e mantenendo il controllo su risorse e mercati, e
prevenendo i rivali dal fare altrettanto). I salvataggi costituiscono
un trasferimento diretto di fondi statali nelle loro tasche. dunque,
ciò che sembra essere un modello irrazionale di spesa, è del tutto
razionale in termini di interessi della classe dominante.
Il
primo Global Census mostra che ci sono 2.170 miliardari in
tutto il mondo e il numero maggiore di quelli nuovi è concentrato in
Asia. A partire dal luglio 2012, 18 nuovi miliardari sono emersi in
Asia, con a seguire il Nord America [72]. Con un contingente di 103
miliardari, l’India si classifica sesta tra i paesi che annoverano
i principali di essi [73]. Per di più, vi è un costante flusso di
colossali quantità di ricchezza dalla maggioranza più povera del
pianeta a più ricchi.
I
flussi di capitale dai più poveri ai più ricchi
Servizio
del debito: deflusso dai più poveri ai più ricchi
L’economista
Charles Abruge calcola che vi sono stati massicci deflussi netti
provenienti dai paesi in via di sviluppo, resi in tal modo fornitori
netti di capitali ai paesi ricchi – per un ammontare cumulativo
pari a 2.577 miliardi di dollari nel periodo 2002-07 [74]. Secondo
Jason Hickel, della London School of Economics, “oggi, i paesi
poveri pagano a quelli ricchi, ogni anno, all’incirca 600 miliardi
di dollari di servizio del debito, gran parte di esso costituito
dall’interesse composto relativo ai prestiti accumulati da
governanti deposti da lungo tempo” [75].
Solo
questo è già pari a quasi cinque volte l’ammontare del budget per
gli aiuti. Dunque, la cosiddetta “assistenza estera allo sviluppo”
(AES) non lascia mai veramente le rive dei paesi donatori; viceversa,
la ricchezza defluisce più volte verso di essi dai paesi
destinatari.
Flussi
finanziari illeciti dai paesi in via di sviluppo a quelli ricchi
Secondo
il rapporto annuale di Global
Financial Integrity,
2012, il mondo in via di sviluppo, nel 2010, ha perso 859 miliardi di
dollari tramite flussi illeciti, un incremento dell’11 percento
rispetto al 2009. Tali deflussi di capitali derivano dall’evasione
fiscale, dalla corruzione, dal crimine e da altre attività illecite.
Il mondo sviluppato ne è il principale beneficiario. Il rapporto
citato rileva che, dal 2001 al 2010, i paesi in via di sviluppo hanno
perso 5,86 trilioni di dollari in flussi illeciti [76]. L’ammontare
annuale di questi ultimi, dai paesi in via di sviluppo a quelli
ricchi e alle multinazionali, è pari grosso modo a 10 volte il
bilancio degli aiuti.
Politiche
neoliberiste e perdite per i paesi in via di sviluppo
Come
se tutto ciò non fosse sufficiente, le multinazionali hanno ottenuto
concessioni ancor più generose grazie alle politiche neoliberiste
imposte ai paesi poveri da istituzioni internazionali come la Banca
mondiale, il Fondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione
mondiale del commercio (OMC). Queste politiche economiche sono
finalizzate ad aprire forzatamente i mercati dei paesi in via di
sviluppo in modo da garantire alle multinazionali un acceso senza
precedenti a terra, risorse e lavoro tutti a buon mercato. Secondo
l’economista Robert Pollin della University of Massachusetts,
i paesi poveri hanno perso intorno ai 500 miliardi di dollari
all’anno di PIL, in conseguenza di simili politiche, un importo
pari a quattro volte gli aiuti forniti dal mondo sviluppato alle
nazioni povere [77].
Land
grabbing ed élite globale
Fred
Pearce nel suo libro, The
Land Grabbers: The New Fight over Who Owns the Earth,
mostra come una porzione di terra che supera le dimensioni
dell’Europa occidentale sia stata sottratta ai paesi poveri dalle
multinazionali, il tutto solo nel decennio passato [78]. Anche le
società indiane hanno acquisito terre equivalenti a nove volte le
dimensioni di Delhi. Land Matrix, un’iniziativa globale di
monitoraggio delle terre, la quale traccia accordi riguardanti il
suolo in tutto il mondo, piazza l’India tra i primi 10 paesi ad
aver acquisito larghe porzioni di terreno all’estero,
prevalentemente per l’agricoltura, in Africa ed Asia [79]. Soltanto
nella regione dell’Africa orientale, più di 80 società indiane
hanno già investito circa 2,4 miliardi di dollari nell’acquisto o
affitto di enormi piantagioni in paesi come Etiopia, Kenya,
Madagascar, Senegal e Mozambico [80].
Danno
ambientale causato dalle multinazionali – un debito verso i poveri
del mondo
Un
recente rapporto preparato per conto delle Nazioni Unite dalla
società di consulenza britannica Trucost, ha rilevato che già
solo 3.000 multinazionali provocano 2,1 trilioni di dollari di danno
ambientale ogni anno [81]. Stephen Pacala, direttore del Princeton
Environmental Institute, ha sostenuto che i 500 milioni di persone
più ricche al mondo (il 7 percento ai vertici) sono state
responsabili di un incredibile 50 percento di tutte le emissioni di
gas serra. Ciò sottostima sostanzialmente i danni, poiché esclude i
costi che risulterebbero da “eventi potenzialmente ad alto impatto
come la pesca ed il collasso di ecosistemi”, nonché “i costi
esterni causati dall’uso e smaltimento dei prodotti, così come lo
sfruttamento d parte delle multinazionali, di altre risorse naturali
ed il rilascio di ulteriori agenti inquinanti tramite le loro
operazioni e quelle dei loro fornitori” [82]. Il professor Richard
Norgaard, economista della University of California-Berkeley,
afferma che i paesi ricchi del mondo devono ai poveri 2,3 trilioni di
dollari per aver causato il cambiamento climatico – un ammontare
che eclissa agevolmente il totale del debito del Terzo mondo (1,8
trilioni di dollari [83].
Conclusioni
Negli
ultimi duecento anni gli interessi delle classi dominanti hanno
portato al propagarsi della nozione secondo la quale la
sovrappopolazione rappresenta la più grave crisi globale. Pressoché
ogni questione – comprese le guerre, la guerra fredda, i conflitti
etnici, la violenza, i disastri ecologici, la disoccupazione, la
povertà, la fame, la scomparsa delle risorse naturali, ecc. – è
stata in qualche modo collegata alla sovrappopolazione. Tutta
l’attenzione ed il biasimo, in proposito, sono stati indirizzati
nei confronti della maggioranza povera del mondo; si dà per scontato
che i poveri debbano essere contenuti con ogni mezzo ai fini della
sopravvivenza del pianeta.
Sulla
base dell’analisi qui svolta, siamo anche noi giunti alla
conclusione che effettivamente il mondo si dirige verso una grave
crisi, e che una porzione della popolazione è primariamente
responsabile di ciò. La sola differenza consiste nel fatto che non
si tratta della maggioranza, bensì di un’infima minoranza –
individui ed entità societarie ai vertici della piramide della
ricchezza. Eppure, ironicamente, questa potente minoranza scarica la
colpa dei propri eccessi sulle vittime – i ricchi del mondo sono i
principali sostenitori della ‘problematica della
sovrappopolazione’. Essi finanziano, guidano e svolgono attività
di lobbying per molteplici programmi su larga scala, miranti a
contenere e controllare gli strati poveri della popolazione. Proprio
qui, a nostro modo di vedere, risiede la più grande crisi cui deve
far fronte il pianeta: ‘troppa ricchezza (e potere, sia
politico che militare) nelle mani di pochi’. La società globale
nel suo complesso, quindi, può essere meglio descritta come
una plutocrazia [84].
Per
quale motivo, dunque, le élite creano un simile allarme circa la
sovrappopolazione? Come all’epoca di Malthus, la teoria della
sovrappopolazione serve dei fini ideologici fondamentali. La storia è
stata testimone di cambiamenti inimmaginabili grazie agli sforzi
collettivi compiuti dalle persone comuni per ottenere un mondo
migliore. E possiamo vedere in tutto il mondo agitarsi ed esplodere
il disincanto delle masse nei confronti dell’ordine presente,
nonché le lotte contro di esso. Dalla Primavera araba in Piazza
Tahrir alle proteste di Shahbag Square in Bnagladesh, dal
movimento per l’occupazione delle fabbriche in Argentina a Occupy
Wall Street negli Stati Uniti, passando per la POSCO e la
Maruti, sino alla Bolivia e al Chattisgarh, le persone comuni
stanno protestando, resistendo e rispondendo, sfidando il sistema. E
nonostante lo svantaggio di forze, stanno contestando l’oscena
disparità di possedimenti e proprietà privata. Lottano per un mondo
più egualitario, per liberarsi dal dissipativo perseguimento delle
nude necessità, dalla perdita di vite dovuta alla semplice fame e
malnutrizione, a malattie facilmente trattabili e prevenibili, dalla
mancanza di un riparo e dalle guerre di aggressione.
I
dominanti hanno sempre fatto ricorso a tutto il loro arsenale
al fine di consolidare la loro sproporzionata appropriazione di
surplus e ricchezza, e alcune delle loro armi più influenti
sono sempre state di natura ideologica. La teoria maltusiana
della ‘sovrappopolazione’ ha svolto un ruolo fondamentale
nello stabilirsi del nuovo ordine mondiale in procinto di emergere
nel XIX secolo. Duecento anni dopo, gli eredi di Malthus continuano a
volerci far credere che le persone sono
responsabili della propria miseria; che semplicemente non vi è
abbastanza per tutti; e che per migliorare tale stato di cose non
bisogna provare ad alterare la proprietà della ricchezza sociale e
redistribuire il prodotto sociale, bensì concentrarsi nella
riduzione del numero di persone. La lotta per un mondo migliore,
dunque, richiede anche una battaglia contro simili armi ideologiche.
Del resto, almeno a partire dalla Rivoluzione francese, l’ideologia
è stata l’arma più potente anche degli oppressi.
Note:
-
Jeffrey Sachs, “Con 7 miliardi di persone sulla terra, ci troviamo di fronte ad un enorme compito”, http://edition.cnn.com/2011/10/17/opinion/sachs-global-population/
-
Malthus, Saggio sul principio della popolazione, Stamperia dell’Unione-tipografico editrice, 1868, libro IV, capitolo V, p. 354.
-
Pakistan, Nigeria, le Filippine, Etiopia, la Repubblica democratica del Congo, la Repubblica unita di Tanzania, Sudan, Kenya, Uganda, Iraq, Afghanistan, Ghana, Yemen, Mozambico e Madagascar, in termini di dimensioni della popolazione, rappresentano il 75 percento della popolazione dei pesi ad alto tasso di fecondità. — http://esa.un.org/wpp/Other-Information/Press_Release_WPP2010.pdf
-
Sachs, op. cit.
-
Bellamy Foster, John 1998 ‘Malthus’ Essay on Population at Age 200: A Marxian View’ Monthly Review, Vol 50, Issue 7.
-
Sebbene come evidenzia Foster ‘per Marx era significativo che Darwin stesso aveva (inconsapevolmente) confutato Malthus tramite la storia naturale’.
-
Ibid.
-
Davis, Tom (2005), Sacred Work: Planned Parenthood and Its Clergy Alliances. Rutgers University Press. p. 35.
-
Ian Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Capitolo VI, (Laterza, 2007).
-
Carl Haub and O. P. Sharma, “India’s Population Reality: Reconciling Change and Tradition,” Population Bulletin (2006) 61#3 pp 3+.
-
“Billionaire Club in a bid to curb overpopulation” http://www.thesundaytimes.co.uk/sto/news/world_news/article169829.ece
-
Un’impronta di carbonio costituisce la misura dell’impatto ambientale dello stile di vita o operato di un particolare individuo, organizzazione o paese, misurato in unità di diossido di carbonio. Il concetto di impronta di carbonio concentra l’attenzione sul consumo e dunque fornisce approfondimenti sulle ripercussioni ambientali degli stili di vita dei paesi in discussione. L’ONU si serve del convenzionale inventario delle emissioni, il quale è incentrato sulla produzione e quindi sull’attività dell’industria. Entrambi i fattori sono rilevanti e vanno presi in considerazione. Tuttavia, il secondo non tiene conto di politiche che spostano le emissioni in altri paesi considerando questo un successo per il clima. Al fine di assicurare che le politiche riducano realmente le emissioni di gas serra, il loro effetto sull’impronta di carbonio va calcolata.
-
1999 Human Development Report, United Nations Development Programme.
-
Maude Barlow, Water as Commodity – The Wrong Prescription, The Institute for Food and Development Policy, Backgrounder, estate 2001, Vol. 7, No. 3.
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L’impronta ecologica è una misura delle pretese umane sugli ecosistemi terrestri. Rappresenta la quantità di terreno e mare biologicamente produttivi necessari a fornire le risorse che consuma una popolazione umana e assimilare i rifiuti associati. Utilizzando questa valutazione, è possibile stimare quanta parte della Terra (o quanti pianeti terrestri) sarebbero necessari per sostentare l’umanità se tutti seguissero un determinato stile di vita.
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Living Planet Report 2012, Summary.
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David Satterthwaite, September 2009,” The implications of population growth and urbanization for climate change” Environment & Urbanization, Vol 21(2). http://cstpr.colorado.edu/students/envs_5720/satterthwaite_2009.pdf
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Si veda FAO, Statistical Yearbook 2013. E anche World Bank, World Development Report 2010.
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Ibid.
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Ibid.
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We Already Grow Enough Food For 10 Billion People — and Still Can’t End Hunger http://www.huffingtonpost.com/eric-holt-gimenez/world-hunger_b_1463429.html
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“Azad’s population control mantra: Watch late night TV”, http://www.deccanherald.com/content/13278/azads-population-control-mantra-watch.html
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http://www.guardian .co.uk/world/ 2009/oct/ 04/india- slums-children- death-rate
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Il tasso di mortalità infantile è il numero di decessi di minori entro il primo anno di età per 1000 nati vivi. Il tasso per una determinata regione è il numero di bambini che muoiono sotto un anno di età, diviso per il numero di nati vivi durante l’anno, moltiplicato per 1.000. http://en.wikipedia.org/wiki/Infant_mortality
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Children in India 2012– Ministry of Statistics and Programme Implementation, GOI http://mospi.nic.in/mospi_new/upload/Children_in_India_2012.pdf
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Cain Mead T. The economic activities of children in a village in Bangladesh. Population and Development Review. 1977;3(3):201–227., p212
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Cockburn John, 2002, Income contribution of child work in rural Ethiopia, p 2 http://www.csae.ox.ac.uk/workingpapers/pdfs/2002-12text.pdf
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Jayati Ghosh, “Stolen childhood”, Frontline, 4 Novembre 2006.
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L’economia capitalistica è costruita sulle spalle di lavoratori non pagati, non riconosciuti e sottovalutati. Molti di essi sono donne e buona parte del lavoro non pagato ha luogo in ambito domestico. Quest’ultimo ha una duplice funzione: riproduce gli esseri umani – la forza lavoro – e mantiene e prepara i lavoratori per il loro impiego giornaliero: secondo lo Human Development Report 1995, Gender and Human Development, UNDP, tenere conto del lavoro non pagato incrementerebbe la produzione globale del 70 percento, o di circa 50 trilioni di dollari al valore attuale.
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Chakrabarti, Manali ‘Capitalism has no free lunches’ in Alternate Economic Survey, 2012-13, p 167.
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Davidoff, Leonore, Thicker than Water: Siblings and Their Relations, 1780-1920, 2012, p. 79.
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Kellow Chesney, The Victorian Underworld , 1972, citato in http://www.hiddenlives.org.uk/articles/poverty.html
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Henry Mayhew, London Labour and the London Poor, 1985, citato in http://www.hiddenlives.org.uk/articles/poverty.html
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Tomka, Bella A Social History of Twentieth-Century Europe, Routledge, 2013.
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La presente discussione non può soffermarsi adeguatamente sulle altre importanti cause sociopolitiche della più alta fecondità derivante da ineguaglianze di genere e patriarcato.
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Chossudovsky, M. The Spoils of War: Afghanistan’s Multibillion Dollar Heroin Trade
http://www.globalresearch.ca/the-spoils-of-war-afghanistan-s-multibillion-dollar-heroin-trade/91 -
Iraq, Afghan wars ‘most expensive’ in US history, drained defense budget for decades http://rt.com/usa/us-wars-most-expensive-109/ e http://nationalpriorities.org/cost-of/
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Credit Suisse, Global Wealth Report 2013, http://images.smh.com.au/file/2013/10/09/4815797/cs_global_wealth_report_2013_WEB_low%2520pdf.pdf?rand=1381288140715
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Oxfam, The Cost of Inequality: How Wealth and Income Extremes Hurt us All http://www.oxfam.org/sites/www.oxfam.org/files/cost-of-inequality-oxfam-mb180113.pdf
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Citazione tratta da The truth about extreme global inequality http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/04/201349124135226392.html
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Angus, Ian, and Simon Butler, What’s Causing The Environmental Crisis: 7 Billion Or 1%? http://grist.org/population/2011-10-26-is-the-environmental-crisis-caused-by-7-billion-or-the-1-percent
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Una società o un sistema governato e dominato dalla ristretta minoranza dei cittadini più ricchi. http://en.wikipedia.org/wiki/Plutocracy
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