** Dottore di ricerca in Sviluppo Economico: analisi, politiche e teorie presso l’Università di Macerata
Nowadays,
basic income is acclaimed as the main example of a progressive idea
of society, free from poverty and exploitation. However, as emerges
provocatively by Polanyi and Hayek’s analysis, basic income could
easily become an economic policy alternative to full employment. But
when unemployment is accepted as a natural order in a situation of
unsatisfied basic needs, we are facing a regressive vision of
economic system.
1. Introduzione
Mentre
in Italia la discussione è ancora in divenire, dal gennaio 2017 la
Finlandia ha iniziato la sperimentazione del reddito
di cittadinanza,
fissato per l’occasione a 560 euro mensili. Da un primo sguardo
emergono modalità di attuazione piuttosto singolari, se non
stravaganti: sono stati infatti sorteggiati 2000 cittadini tra i 25 e
i 63 anni, che riceveranno l’assegno indipendentemente dal salario
ma in alternativa al sussidio di disoccupazione. Lo scopo, a detta
del governo presieduto dal centrista Juha Sipilä, è di valutare le
conseguenze dell’erogazione monetaria, percepita dai riceventi come
sicura, sulla propensione ad accettare un lavoro. I risultati saranno
resi noti solo nel 2019, momento in cui verrà deciso se continuare,
modificare o interrompere l’esperimento.
Nel frattempo che il caso finlandese dispieghi i suoi effetti, emerge l’opportunità di alcune considerazioni il più possibile generali, troppo spesso trascurate in favore di analisi empiriche talvolta col fiato corto. Nonostante le modalità specifiche di attuazione siano ovviamente rilevanti per un giudizio non parziale, così come le questioni finanziarie sulla sostenibilità delle erogazioni, lo scopo del presente contributo è diverso: verrà proposta una breve riflessione teorica che provi ad indagare i presupposti fondamentali del reddito di cittadinanza nell’ambito delle scelte complessive di politica economica. Per farlo si proverà a interrogare due autori che la questione del reddito di cittadinanza se la sono già posta, arrivando a giudizi molto diversi ma comunque estremamente interessanti.
Nel frattempo che il caso finlandese dispieghi i suoi effetti, emerge l’opportunità di alcune considerazioni il più possibile generali, troppo spesso trascurate in favore di analisi empiriche talvolta col fiato corto. Nonostante le modalità specifiche di attuazione siano ovviamente rilevanti per un giudizio non parziale, così come le questioni finanziarie sulla sostenibilità delle erogazioni, lo scopo del presente contributo è diverso: verrà proposta una breve riflessione teorica che provi ad indagare i presupposti fondamentali del reddito di cittadinanza nell’ambito delle scelte complessive di politica economica. Per farlo si proverà a interrogare due autori che la questione del reddito di cittadinanza se la sono già posta, arrivando a giudizi molto diversi ma comunque estremamente interessanti.
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Premesse di due diversi punti di vista
Nel
1944 vennero pubblicati due grandi classici del pensiero economico e
politico del secolo scorso, La
grande trasformazione e La
via della schiavitù.
Sono le opere più note rispettivamente di Karl Polanyi e Friedrich
A. Hayek, esempi di opposti che, di tanto in tanto, si attraggono e
convergono sulle stesse tematiche.
Se
secondo Polanyi il libero mercato è un artificioso sistema di
regolazione economica alla lunga non sostenibile, per Hayek
rappresenta l’insostituibile esito di un’evoluzione spontanea, a
sua volta risultato inintenzionale di azioni intenzionali. Le
conseguenze sulla politica economica sono presto dette: per Polanyi
il mercato necessita di mirati e vasti interventi pubblici, che
simultaneamente proteggano le cosiddette merci fittizie (lavoro,
terra e moneta) da un’inclusione disgregativa nell’anonimo
meccanismo della domanda e dell’offerta; ad avviso di Hayek ogni
interferenza esogena nell’ordine del mercato genera inefficienze
allocative e dinamiche, distorcendo i segnali che giungono dai prezzi
e minacciando la libertà individuale con degenerazioni totalitarie.
Nell’ambito
delle loro analisi non mancano puntuali riflessioni sul reddito di
cittadinanza molto stimolanti per i dibattiti odierni. Non tanto,
probabilmente, per una diretta spendibilità in eventuali studi di
caso, quanto per un invito a guardare la questione da una prospettiva
troppo trascurata (il rapporto di fondo tra il reddito di
cittadinanza e il libero mercato) e per andare in direzione contraria
rispetto al senso comune odierno (secondo cui il sostegno al reddito
di cittadinanza è per forza di cose espressione di una posizione
progressista, o di sinistra, che dir si voglia).
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La critica di Polanyi
Polanyi
parla esplicitamente del reddito di cittadinanza con riferimento a un
contesto storico specifico, il disastro sociale di Speenhamland
iniziato nel 1795. In questo remoto villaggio inglese del Berkshire
venne infatti decisa l’istituzione di una sorta di sussidio
integrativo del salario nelle fasi in cui questo fosse sceso al di
sotto di una certa soglia, fissata con riferimento al prezzo del
pane. Fu un provvedimento effettivamente rivoluzionario per l’epoca
e da un severo critico del mercato come Polanyi si sarebbe attesa
un’approvazione della legge, soprattutto nella sua funzione di
temperamento degli effetti perniciosi dei bassi salari o della
disoccupazione. E invece la censura è senza appello:
Con
la Speenhamland Law un individuo veniva aiutato anche se aveva un
lavoro fintantoché il suo salario ammontava a meno del reddito
familiare che gli era assegnato dalla scala […]. Alla lunga il
risultato fu agghiacciante. Per quanto occorresse del tempo affinché
il rispetto dell’uomo comune cadesse così in basso da preferire il
sussidio per i poveri al salario, i salari che venivano integrati per
mezzo di fondi pubblici erano in numero illimitato tanto da spingerlo
a sostenersi ad essi. Poco a poco la gente della campagna fu
immiserita, l’adagio «una volta il sussidio, sempre il sussidio»
era una verità[1].
Anche
se la critica di Polanyi sembra riferirsi più alle modalità
specifiche di erogazione del sussidio (la stretta dipendenza dal
salario) che ai suoi principi di fondo, al termine de La
grande trasformazione l’analisi
travalica gli orizzonti di un caso circoscritto per affrontare la
questione in chiave comparata. Il confronto è con un contesto molto
caro allo studioso ungherese, vale a dire l’eccezionale, nel senso
di irripetuta, esperienza socialista della cosiddetta Vienna rossa:
Se
Speenhamland produsse un vero e proprio disastro per il popolo,
Vienna conseguì uno dei più spettacolari trionfi culturali della
storia occidentale. L’anno 1795 condusse a una degradazione senza
precedenti delle classi lavoratrici alle quali si impediva di
raggiungere il nuovo status di operai dell’industria. Nel 1918
iniziava un’ascesa morale e intellettuale ugualmente senza
precedenti nelle condizioni di una classe lavoratrice industriale
molto sviluppata che, protetta dal sistema di Vienna, resisteva agli
effetti degradanti del grave sconvolgimento economico e raggiungeva
un livello mai superato dalle masse popolari in nessun paese
industriale[2].
Che
senso ha questo accostamento, tanto distante nel tempo e nello
spazio? Il rischio di anacronismo è reale. Viene però scongiurato
se si segue attentamente Polanyi nelle sue analogie, in particolare
quando spiega che l’intervento pubblico a Vienna, perseguito
principalmente per garantire il diritto alla casa e all’istruzione,
aveva l’obiettivo di combattere, attraverso la leva fiscale e una
politica sociale (scuola, istruzione per gli adulti, attività
ricreative) di medio periodo, gli effetti iniqui in termini
distributivi e di alienazione generati dal mercato. La
contrapposizione col reddito di cittadinanza ideato a Speenhamland ha
una ragione cruciale: al contrario dell’esperimento viennese che
nel suo complesso mira a una generale emancipazione della classe
operaia, il sussidio decretato dai magistrati inglesi nel XVII secolo
non è altro che una forma di paternalismo, colpevole di reificare i
difetti tipici del meccanismo di mercato e condurre gli stessi
lavoratori a diventare vittime passive dell’assistenzialismo. A ciò
è necessario aggiungere, sempre seguendo le considerazioni di
Polanyi, che a Speenhamland il salario toccò in pochi mesi
praticamente lo zero, in quanto nessun datore di lavoro voleva pagare
per un reddito comunque garantito dalla collettività. La sussistenza
del lavoratore veniva garantita attraverso una pubblicizzazione dei
costi e una privatizzazione dei profitti.
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Il sostegno di Hayek
Non
meno acuto è il giudizio di Hayek, la cui approvazione del reddito
di cittadinanza va di pari passo con la radicalizzazione della sua
prospettiva liberista. Scrive in una delle opere più ambiziose,
pubblicata negli anni Settanta quando il suo pensiero aveva raggiunto
la piena maturità:
Non
vi è motivo per cui in una società libera lo stato non debba
assicurare a tutti la protezione contro la miseria sotto forma di un
reddito minimo garantito, o di un livello sotto il quale nessuno
scende. È nell’interesse di tutti partecipare all’assicurazione
contro l’estrema sventura, o può essere un dovere di tutti
assistere, all’interno di una comunità organizzata, chi non può
provvedere a se stesso. Se tale reddito minimo uniforme è fornito
fuori dal mercato a tutti coloro che, per qualsiasi ragione, non sono
in grado di guadagnare sul mercato un reddito adeguato, ciò non
porta a una restrizione della libertà, o a un conflitto col primato
del diritto[3].
Il
punto nodale del ragionamento di Hayek è la delimitazione del
reddito minimo (che in questo caso assomiglia all’idea di un
sussidio universale) in un ambito che rimane «fuori dal mercato».
In questo modo il reddito di cittadinanza assume il ruolo di
salvagente del libero mercato nei momenti di performance negativa
di quest’ultimo, quando cioè l’agognato equilibrio sul mercato
del lavoro non si realizza e la disoccupazione rischia di diventare
una minaccia all’integrità dell’intero sistema. Ad essere
protetti, pertanto, non sono direttamente i lavoratori, ma il mercato
stesso nella sua concezione liberale, secondo Hayek una necessità
epistemologica prima ancora che economica. Così, con una visione
tipica del darwinismo sociale, l’economista austriaco spiega le
ragioni che rendono necessaria la salvaguardia delle regole
istituzionalizzate dal mercato (in un’ottica di common
law)
e la limitazione di ogni intervento pubblico attivo:
L’eredità
culturale in cui l’uomo è nato consiste di un complesso di modi
d’agire o regole di condotta che sono prevalse perché aumentavano
il successo del gruppo […]. Non è tanto che la mente produca delle
regole, quanto piuttosto che essa consista di regole d’azione, di
un complesso di regole cioè che essa non ha fatto, ma che hanno
finito col governare le azioni degli individui perché le azioni che
seguivano tali regole si sono dimostrate di maggior successo rispetto
a quelle di individui o gruppi rivali[4].
Da
Hayek emerge come l’approvazione del mercato – nell’accezione
austriaca di processo competitivo in cui, a beneficio dell’intero
sistema sociale, devono prevalere i più forti e soccombere i più
deboli[5] –
non sia in opposizione al dovere di assistenza nei confronti di chi è
rimasto indietro, ma anzi è ad esso del tutto complementare.
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Conclusioni
Dove
vanno allora rintracciate le ragioni di fondo per cui un critico del
libero mercato come Polanyi si oppone duramente al reddito di
cittadinanza, mentre un fervente liberista come Hayek lo approva
piuttosto convintamente? Una risposta può partire dalla
constatazione che il reddito di cittadinanza rappresenta, sia in
quanto teoria sociale che come azione di politica economica, un
sostituito della piena occupazione, la quale può prevedere come
unico strumento «una socializzazione di una certa ampiezza
dell’investimento»[6].
Proprio nella misura in cui quest’ultima questione viene condannata
all’oblio, il diritto di vivere, come lo aveva definito Polanyi,
diventa un principio esterno al processo di mercato. È allora
proprio in questo momento che il mercato necessita di legittimazione
sociale, trovandola anche nella capacità di assistere chi dal
processo produttivo viene escluso, senza però mettere in atto
politiche strutturali finalizzate a reintegrarlo.
Non
si può che concludere, quindi, che la visione hayekiana è oggi
dominante, paradossalmente anche a sinistra. Il monito polanyiano,
nonostante il caso finlandese presenti analogie sorprendenti con le
leggi di Speenhamland, è invece del tutto ignorato. Eppure, nella
situazione odierna in cui alla disoccupazione strutturale si
accompagnano enormi bisogni sociali insoddisfatti, ritenere
necessario il reddito di cittadinanza non può che essere l’ennesimo
frutto tossico di una certa «obsoleta mentalità di mercato»[7],
da cui Polanyi ci metteva severamente in guardia. Se è ancora
possibile credere che la cittadinanza sia completamente conquistata
solo quando ogni uomo e donna viene messo in grado di concorrere «al
progresso materiale e spirituale della società»[8],
allora l’assistenza come alternativa al lavoro è un atto
subdolamente regressivo.
Bibliografia
Hayek
F. A., La
via della schiavitù,
Rubbettino, Catanzaro, 2011 (1944).
Hayek
F. A., Legge,
legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata,
Il Saggiatore, Milano, 2010 (1973).
Polanyi
K., Economie
primitive, arcaiche e moderne. Ricerca storica e antropologia
economica,
a cura di Dalton G., Einaudi, Torino, 1980 (1968).
Polanyi
K., La
grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra
epoca,
Einaudi, Torino, 2010 (1944).
Note
[2] K.
Polanyi, cit., p 359.
[4] F.
A. Hayek, cit., pp. 25-26.
[5] «In
questo gioco [il mercato, ndr]
ove i risultati dei singoli dipendono in parte dal caso e in parte
dall’abilità, è evidentemente insensato definire un risultato
giusto o ingiusto. Si tratta di una situazione simile a quella di una
gara per un premio in cui si cerca di creare le condizioni per
premiare la miglior prestazione ma in cui non si può dire se la
miglior prestazione sia la dimostrazione di un maggior merito» (F.
A. Hayek, Legge,
legislazione e libertà,
cit., p. 335)
[6] J.
M. Keynes, Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta,
Utet, Torino, 2013, p. 572.
[7]«Siamo
ridotti all’impotenza dal retaggio di un’economia di mercato che
ci ha trasmesso concezioni semplicistiche della funzione e del ruolo
del sistema economico nella società. Se si vuole superare la crisi,
si deve recuperare una visione più realistica del mondo umano e
modellare il nostro comune intento alla luce di quella consapevolezza
[…]. La creatività dell’uomo è venuta meno soltanto perché si
è lasciato che il mercato stritolasse il materiale umano
riconducendolo alla piatta uniformità di un paesaggio di detriti
selenici. Non v’è da meravigliarsi che l’immaginazione sociale
dell’uomo mostri segni di stanchezza» (K. Polanyi, La
nostra obsoleta mentalità di mercato,
in K. Polanyi, Economie
primitive, arcaiche e moderne,
Einaudi, Torino, 1980, pp. 59, 70).
[8] Cfr.
Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 4, comma 2.
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