mercoledì 30 agosto 2017

La complessità del fenomeno migratorio e le sue determinanti*- Alessandra Ciattini**

*Da: https://www.facebook.com
**Insegna Antropologia culturale alla Sapienza.

Migrare è una tendenza umana spontanea o è frutto di specifiche determinazioni? 

Il sito Italianieuropei, rivista della fondazione di area politica riformista, voluta da una serie di personaggi, tra cui spicca Massimo D’Alema, contiene un articolo sul fenomeno delle migrazioni, volto a rassicurare i lettori spaventati dalle migliaia di arrivi di profughi provenienti dal cosiddetto sud del mondo. Molto significativo è il titolo dell’articolo (Immigrazione: fenomeno inevitabile, sfida da vincere), i cui contenuti cercheremo di smontare con una serie di argomentazioni storiche, economiche e antropologiche.
Innanzi tutto, del tutto ingenui sono i punti di partenza dello scritto: “Spostarsi sul territorio è un fatto naturale della vita. I movimenti migratori sono stati uno dei principali motori del popolamento del pianeta e del suo sviluppo economico e sociale”.
La prima constatazione tende a mettere sullo stesso piano i vari tipi di migrazione, che hanno alla loro base motivazioni assai diverse, come per esempio il passaggio dello stretto di Bering di uomini provenienti dall’Asia e diretti in America, avvenuto durante l’ultima era glaciale (situata in epoche diverse dagli studiosi), e la tratta degli schiavi (non solo africani), che analogamente produce spostamenti, in questo caso indesiderati, di popolazioni. In questo senso banalizza e destorifica eventi originati da problemi complessi e assai diversi tra loro. Questa visione delle migrazioni in termini così astratti e generali (considerata già da Francisco de Victoria un diritto dei popoli) [1] sembrerebbe fare di tali trasferimenti una passeggiata, un ameno spostarsi sul territorio.
La seconda affermazione costituisce un falso, giacché le migrazioni sono di segno diverso ed hanno esiti differenti: sono sollecitate dalla fuga dalle guerre e dalla povertà (provocate da coloro che oggi gridano “aiutiamo i migranti a casa loro” o invocano il principio dell’accoglienza), causano esse stesse nel loro percorso perdite umane (molti africani morivano nella traversata dell’Atlantico per giungere in America), i migranti, spostandosi, conquistano nuove terre e massacrano i loro abitatori. Tanto per fare un esempio: il popolamento dell’America da parte degli europei è stato un vantaggio per gli amerindiani e ha prodotto per loro benefici economici e sociali? Credo che la risposta sia un netto NO e che può apparire un vantaggio solo a chi si mette surrettiziamente dalla parte dei vincitori e che, dunque, l’aspetto positivo del fenomeno può essere differente a seconda del punto di vista di una delle parti in causa fatto proprio dallo studioso. 
Proprio per la critica che faccio a proposito delle nozioni astratte e generali, che pure in certi contesti hanno una loro utilità, mi limiterò a trattare a grandi linee il fenomeno migratorio verificatosi nell’età moderna, cercando di individuarne le cause e le modalità di sviluppo. Per affrontare tale complesso fenomeno, sia pure assai sinteticamente, mi riferirò in particolare al libro dell’antropologo naturalizzato statunitense Eric R. Wolf L’Europa e i popoli senza storia (1982), che considera il mondo come un sistema di relazioni tra gruppi differenti, che si influenzano reciprocamente e dal cui incontro, quasi mai pacifico, scaturisce la storia umana.
Come osserva Wolf: “L’essenza del capitale consiste nella sua capacità di mobilitare il lavoro sociale acquistando forza-lavoro e mettendola all’opera”. Naturalmente ciò presuppone l’esistenza di un mercato in cui la capacità lavorativa dell’individuo può essere comprata e venduta come qualsiasi altra merce; scambio forza-lavoro denaro che si presenta come simmetrico, ma come ben sappiamo esso non lo è mai (p. 491).
Anche se – come abbiamo visto vi sono stati importanti fenomeni migratori nella fase mercantilista come la tratta degli schiavi, le deportazioni dei vinti da parte dei vincitori (si pensi alle reducciones opera dei gesuiti in America Latina) – è nel corso del XIX secolo che, con l’avanzamento dell’industrializzazione e il passaggio dalla manifattura alla macchinofattura, si fece sempre più pressante la richiesta della forza-lavoro salariata. Così per esempio, nel 1849 la più grande acciaieria del Regno Unito aveva più di 7.000 operai, nel 1873 a Essen nelle fabbriche Krupp lavoravano in 12.000. Anche l’agricoltura di piantagione (definita “agricoltura militare” per la sua forma organizzativa), diffusasi nei vari continenti, richiedeva un massiccio apporto di manodopera (pp. 493-494).
L’espressione “classi operaie” comparve nel 1815 ed era plurale perché questi gruppi di individui si differenziavano per la loro origine, per il momento in cui erano entrati in queste classi, nella loro composizione e per le differenti modalità di relazionarsi alle altre classi sociali. Alcuni paesi dettero vita alle classi operaie con elementi loro interni (per esempio costringendo i contadini ad inurbarsi), altri come gli Stati Uniti importarono gruppi etnici diversi e disomogenei tra loro (p. 497). Quanto alla composizione segnaliamo che gran parte dei lavoratori degli opifici tessili inglesi all’inizio dell’industrializzazione era costituita da donne e bambini e si potrebbero citare anche altri casi. In Sud Africa, invece, i lavoratori delle miniere erano prelevati dalle “riserve tribali” e per ivi lavorare sul base di un contratto temporale. Ciò ha ostacolato il formarsi di una classe operaia africana insediata stabilmente in un certo luogo.
Abbiamo già accennato al fenomeno dell’urbanizzazione, il quale nell’Ottocento si fece straordinariamente consistente con l’abbandono del putting-out system (lavoro a domicilio), con la nascita delle grandi città industriali come Manchester o Essen e il conseguente allontanamento dalle campagne e dai piccoli borghi da parte di numerose famiglie (p. 500).
Pertanto, con il consolidarsi del capitalismo assistiamo allo spostamento dei proletari dalle regioni con scarsità di lavoro, perché l’agricoltura e l’industria rurale richiedevano meno braccia, verso zone di sviluppo industriale e di agricoltura commerciale. Tale fenomeno suscitò serie preoccupazioni nelle classi borghesi, di cui la letteratura dell’epoca reca testimonianza, perché essi rappresentavano dei barbari venuti a sconvolgere sistemi consolidati di vita; inoltre, essi erano visti come masse incapaci di ragionare in maniera critica e consapevole.
Il libro di Wolf descrive con molta precisione gli spostamenti a livello mondiale iniziati con l’industrializzazione e perpetuatisi con l’imperialismo, sottolineando il ruolo che ha avuto ed ha in questi processi l’accumulazione capitalistica. Egli scrive: “Il processo grazie al quale nuove classi operaie vengono simultaneamente create e frammentate è continuato fino ad oggi. Ha seguito il ritmo generale dell’accumulazione capitalistica, che spingeva verso lo sviluppo di nuovi mercati del lavoro nei momenti di successo e che restringeva la richiesta di forza-lavoro nei momenti di rallentamento” (p. 528).
Ma facciamo alcuni esempi che possono illustrare meglio il ragionamento di Wolf. Come si è visto, la prima ondata migratoria del periodo capitalistico spinse masse di contadini verso i centri industriali, successivamente la seconda ondata riguardò milioni di europei che abbandonarono il loro continente. Si calcola che circa in 50 milioni se ne allontanarono tra il 1800 e il 1914, dei quali 32 milioni si stabilirono negli Stati Uniti. Un terzo flusso coinvolse lavoratori di origini differenti, assunti con contratti temporali, diretti verso le miniere e le piantagioni situate nelle zone tropicali. Tra questi l’antropologo statunitense menziona i già ricordati minatori del Sud Africa, i lavoratori indiani e cinesi – in regime di semischiavitù -, gli emigrati italiani che andarono a lavorare nelle regioni brasiliane del caffè (pp. 503-504), in particolare dopo l’abolizione della schiavitù avvenuta in quel paese nel 1888.
Sempre dopo l’abolizione della schiavitù, realizzatasi nei vari paesi in tempi diversi, i proprietari delle piantagioni (caffè, zucchero, tè, ecc.) cercarono di trovare altri lavoratori, dando vita a quella che è stata chiamata la “seconda schiavitù”. Per esempio, gli inglesi bloccavano le navi con gli schiavi diretti in Brasile e, liberati formalmente, li mandavano a lavorare nelle loro piantagioni delle Indie occidentali. In Malesia, invece, gli inglesi importarono servi indiani e lavoratori a contratto cinesi per lavorare nelle piantagioni, nelle miniere e nelle costruzioni. Altre terre che richiedevano lavoratori indiani sono state la Guyana, Trinidad e la Giamaica, dove nelle prime due costituiscono ancora oggi gran parte della popolazione. Dal 1860 le piantagioni di tè dell’Assam e del Bhutan assorbirono circa 750.000 lavoratori; anche le isole Figi (tra Melanesia e Polinesia) ricevettero un gran numero di immigrati indiani, che oggi superano la popolazione nativa. D’altra parte, questi lavoratori si recarono anche nel Natal (Sud Africa) per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero (pp. 510-512).
Importanti fenomeni migratori si verificavano anche in Europa, dove per esempio gli Junkers della Germania orientale sostituirono i loro affittuari tedeschi con lavoratori polacchi. In Italia, invece, la crisi dell’agricoltura e gli stravolgimenti prodotti dall’affermazione delle Stato unitario (vendita di terreni pubblici, di beni ecclesiastici, accrescimento dei latifondi, crollo dei prezzi agricoli e crisi dell’artigianato locale) dal 1870 dettero impulso all’emigrazione prima verso il Nord Europa e successivamente verso altri continenti come l’America (in particolare Brasile e Argentina). Tra il 1861 e il 1911 furono 4 milioni gli italiani, soprattutto meridionali, che abbandonarono il nostro paese per migliorare le loro condizioni economiche (pp. 514-515). Anche l’Europa orientale vide molti dei suoi abitanti emigrare: dall’impero austroungarico, dai Balcani, dalla Russia (ebrei e tedeschi del Volga), mentre molti russi si diressero verso la Siberia (506). I nuovi arrivati cominciavano a lavorare senza una particolare qualificazione e con un salario più basso; pertanto, la loro presenza e la meccanizzazione delle fabbriche consentiva ai capitalisti statunitensi, per esempio, di mantenere in generale bassi i salari.
Questi straordinari spostamenti di masse di manodopera da territori, in cui produrre non produceva profitti e che potevano solo fornire forza-lavoro alle industrie, verso regioni specializzate nella produzione di certe risorse o ricche di preziose materie prime, provocò la frammentazione dei lavoratori, rendendo difficoltosa la loro aggregazione. Tali processi hanno trasformato e continuano a trasformare ancora oggi intere regioni in fornitrici di lavoro eccedente coatto [2], collocando ai gradi inferiori dell’esercito industriale o nell’esercito di riserva gli individui appartenenti a certe categorie razziali (“indiani” e “neri”), generando al contempo conflitti con i lavoratori stanziati nel territorio e meglio remunerati.
Tale schema articolato e complessivo di Wolf è sicuramente utile per capire anche quello sta succedendo oggi, mostrandoci che nessuno emigra volontariamente e che è sempre spinto dalla logica che produce l’impoverimento di alcuni e l’arricchimento di pochi privilegiati.
Note
[1] Domenicano ed esponente della Scuola di Salamanca (1483-1546).

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