**Insegna Antropologia culturale alla Sapienza.
Migrare è una tendenza umana spontanea o è frutto di specifiche determinazioni?
Il sito Italianieuropei, rivista della fondazione di area politica riformista, voluta da una serie di personaggi, tra cui spicca Massimo D’Alema, contiene un articolo sul fenomeno delle migrazioni, volto a rassicurare i lettori spaventati dalle migliaia di arrivi di profughi provenienti dal cosiddetto sud del mondo. Molto significativo è il titolo dell’articolo (Immigrazione: fenomeno inevitabile, sfida da vincere), i cui contenuti cercheremo di smontare con una serie di argomentazioni storiche, economiche e antropologiche.
Innanzi
tutto, del tutto ingenui sono i punti di partenza dello scritto:
“Spostarsi sul territorio è un fatto naturale della vita. I
movimenti migratori sono stati uno dei principali motori del
popolamento del pianeta e del suo sviluppo economico e sociale”.
La
prima constatazione tende a mettere sullo stesso piano i vari tipi di
migrazione, che hanno alla loro base motivazioni assai diverse, come
per esempio il passaggio dello stretto di Bering di uomini
provenienti dall’Asia e diretti in America, avvenuto durante
l’ultima era glaciale (situata in epoche diverse dagli studiosi), e
la tratta degli schiavi (non solo africani), che analogamente produce
spostamenti, in questo caso indesiderati, di popolazioni. In questo
senso banalizza e destorifica eventi originati da problemi complessi
e assai diversi tra loro. Questa visione delle migrazioni in termini
così astratti e generali (considerata già da Francisco de Victoria
un diritto dei popoli) [1] sembrerebbe fare di tali trasferimenti una
passeggiata, un ameno spostarsi sul territorio.
La
seconda affermazione costituisce un falso, giacché le migrazioni
sono di segno diverso ed hanno esiti differenti: sono sollecitate
dalla fuga dalle guerre e dalla povertà (provocate da coloro che
oggi gridano “aiutiamo i migranti a casa loro” o invocano il
principio dell’accoglienza), causano esse stesse nel loro percorso
perdite umane (molti africani morivano nella traversata
dell’Atlantico per giungere in America), i migranti, spostandosi,
conquistano nuove terre e massacrano i loro abitatori. Tanto per fare
un esempio: il popolamento dell’America da parte degli europei è
stato un vantaggio per gli amerindiani e ha prodotto per loro
benefici economici e sociali? Credo che la risposta sia un netto NO e
che può apparire un vantaggio solo a chi si mette surrettiziamente
dalla parte dei vincitori e che, dunque, l’aspetto positivo del
fenomeno può essere differente a seconda del punto di vista di una
delle parti in causa fatto proprio dallo studioso.
Proprio
per la critica che faccio a proposito delle nozioni astratte e
generali, che pure in certi contesti hanno una loro utilità, mi
limiterò a trattare a grandi linee il fenomeno migratorio
verificatosi nell’età moderna, cercando di individuarne le cause e
le modalità di sviluppo. Per affrontare tale complesso fenomeno, sia
pure assai sinteticamente, mi riferirò in particolare al libro
dell’antropologo naturalizzato statunitense Eric R. Wolf L’Europa
e i popoli senza storia (1982),
che considera il mondo come un sistema di relazioni tra gruppi
differenti, che si influenzano reciprocamente e dal cui incontro,
quasi mai pacifico, scaturisce la storia umana.
Come
osserva Wolf: “L’essenza
del capitale consiste nella sua capacità di mobilitare il lavoro
sociale acquistando forza-lavoro e mettendola all’opera”.
Naturalmente ciò presuppone l’esistenza di un mercato in cui la
capacità lavorativa dell’individuo può essere comprata e venduta
come qualsiasi altra merce; scambio forza-lavoro denaro che si
presenta come simmetrico, ma come ben sappiamo esso non lo è mai (p.
491).
Anche
se – come abbiamo visto vi sono stati importanti fenomeni migratori
nella fase mercantilista come la tratta degli schiavi, le
deportazioni dei vinti da parte dei vincitori (si pensi
alle reducciones opera
dei gesuiti in America Latina) – è nel corso del XIX secolo che,
con l’avanzamento dell’industrializzazione e il passaggio dalla
manifattura alla macchinofattura, si fece sempre più pressante la
richiesta della forza-lavoro salariata. Così per esempio, nel 1849
la più grande acciaieria del Regno Unito aveva più di 7.000 operai,
nel 1873 a Essen nelle fabbriche Krupp lavoravano in 12.000. Anche
l’agricoltura di piantagione (definita “agricoltura militare”
per la sua forma organizzativa), diffusasi nei vari continenti,
richiedeva un massiccio apporto di manodopera (pp. 493-494).
L’espressione
“classi operaie” comparve nel 1815 ed era plurale perché questi
gruppi di individui si differenziavano per la loro origine, per il
momento in cui erano entrati in queste classi, nella loro
composizione e per le differenti modalità di relazionarsi alle altre
classi sociali. Alcuni paesi dettero vita alle classi operaie con
elementi loro interni (per esempio costringendo i contadini ad
inurbarsi), altri come gli Stati Uniti importarono gruppi etnici
diversi e disomogenei tra loro (p. 497). Quanto alla composizione
segnaliamo che gran parte dei lavoratori degli opifici tessili
inglesi all’inizio dell’industrializzazione era costituita da
donne e bambini e si potrebbero citare anche altri casi. In Sud
Africa, invece, i lavoratori delle miniere erano prelevati dalle
“riserve tribali” e per ivi lavorare sul base di un contratto
temporale. Ciò ha ostacolato il formarsi di una classe operaia
africana insediata stabilmente in un certo luogo.
Abbiamo
già accennato al fenomeno dell’urbanizzazione, il quale
nell’Ottocento si fece straordinariamente consistente con
l’abbandono del putting-out
system (lavoro
a domicilio), con la nascita delle grandi città industriali come
Manchester o Essen e il conseguente allontanamento dalle campagne e
dai piccoli borghi da parte di numerose famiglie (p. 500).
Pertanto, con
il consolidarsi del capitalismo assistiamo allo spostamento dei
proletari dalle regioni con scarsità di lavoro, perché
l’agricoltura e l’industria rurale richiedevano meno braccia,
verso zone di sviluppo industriale e di agricoltura commerciale.
Tale fenomeno suscitò serie preoccupazioni nelle classi borghesi, di
cui la letteratura dell’epoca reca testimonianza, perché essi
rappresentavano dei barbari venuti a sconvolgere sistemi consolidati
di vita; inoltre, essi erano visti come masse incapaci di ragionare
in maniera critica e consapevole.
Il
libro di Wolf descrive con molta precisione gli spostamenti a livello
mondiale iniziati con l’industrializzazione e perpetuatisi con
l’imperialismo, sottolineando il ruolo che ha avuto ed ha in questi
processi l’accumulazione
capitalistica. Egli
scrive: “Il processo grazie al quale nuove classi operaie vengono
simultaneamente create e frammentate è continuato fino ad oggi. Ha
seguito il ritmo generale dell’accumulazione
capitalistica,
che spingeva verso lo sviluppo di nuovi mercati del lavoro nei
momenti di successo e che restringeva la richiesta di forza-lavoro
nei momenti di rallentamento” (p. 528).
Ma
facciamo alcuni esempi che possono illustrare meglio il ragionamento
di Wolf. Come si è visto, la prima ondata migratoria del periodo
capitalistico spinse masse di contadini verso i centri industriali,
successivamente la seconda ondata riguardò milioni di europei che
abbandonarono il loro continente. Si calcola che circa in 50 milioni
se ne allontanarono tra il 1800 e il 1914, dei quali 32 milioni si
stabilirono negli Stati Uniti. Un terzo flusso coinvolse lavoratori
di origini differenti, assunti con contratti temporali, diretti verso
le miniere e le piantagioni situate nelle zone tropicali. Tra questi
l’antropologo statunitense menziona i già ricordati minatori del
Sud Africa, i lavoratori indiani e cinesi – in regime di
semischiavitù -, gli emigrati italiani che andarono a lavorare nelle
regioni brasiliane del caffè (pp. 503-504), in particolare dopo
l’abolizione della schiavitù avvenuta in quel paese nel 1888.
Sempre
dopo l’abolizione della schiavitù, realizzatasi nei vari paesi in
tempi diversi, i proprietari delle piantagioni (caffè, zucchero, tè,
ecc.) cercarono di trovare altri lavoratori, dando vita a quella che
è stata chiamata la “seconda schiavitù”. Per esempio, gli
inglesi bloccavano le navi con gli schiavi diretti in Brasile e,
liberati formalmente, li mandavano a lavorare nelle loro piantagioni
delle Indie occidentali. In Malesia, invece, gli inglesi importarono
servi indiani e lavoratori a contratto cinesi per lavorare nelle
piantagioni, nelle miniere e nelle costruzioni. Altre terre che
richiedevano lavoratori indiani sono state la Guyana, Trinidad e la
Giamaica, dove nelle prime due costituiscono ancora oggi gran parte
della popolazione. Dal 1860 le piantagioni di tè dell’Assam e del
Bhutan assorbirono circa 750.000 lavoratori; anche le isole Figi (tra
Melanesia e Polinesia) ricevettero un gran numero di immigrati
indiani, che oggi superano la popolazione nativa. D’altra parte,
questi lavoratori si recarono anche nel Natal (Sud Africa) per
lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero (pp. 510-512).
Importanti
fenomeni migratori si verificavano anche in Europa, dove per esempio
gli Junkers della Germania orientale sostituirono i loro affittuari
tedeschi con lavoratori polacchi. In Italia, invece, la crisi
dell’agricoltura e gli stravolgimenti prodotti dall’affermazione
delle Stato unitario (vendita di terreni pubblici, di beni
ecclesiastici, accrescimento dei latifondi, crollo dei prezzi
agricoli e crisi dell’artigianato locale) dal 1870 dettero impulso
all’emigrazione prima verso il Nord Europa e successivamente verso
altri continenti come l’America (in particolare Brasile e
Argentina). Tra
il 1861 e il 1911 furono 4 milioni gli italiani, soprattutto
meridionali, che abbandonarono il nostro paese per migliorare le loro
condizioni economiche (pp.
514-515). Anche l’Europa orientale vide molti dei suoi abitanti
emigrare: dall’impero austroungarico, dai Balcani, dalla Russia
(ebrei e tedeschi del Volga), mentre molti russi si diressero verso
la Siberia (506). I nuovi arrivati cominciavano a lavorare senza una
particolare qualificazione e con un salario più basso; pertanto, la
loro presenza e la meccanizzazione delle fabbriche consentiva ai
capitalisti statunitensi, per esempio, di mantenere in generale bassi
i salari.
Questi
straordinari spostamenti di masse di manodopera da territori, in cui
produrre non produceva profitti e che potevano solo fornire
forza-lavoro alle industrie, verso regioni specializzate nella
produzione di certe risorse o ricche di preziose materie prime,
provocò la frammentazione dei lavoratori, rendendo difficoltosa la
loro aggregazione. Tali processi hanno trasformato e continuano a
trasformare ancora oggi intere regioni in fornitrici di lavoro
eccedente coatto [2], collocando ai gradi inferiori dell’esercito
industriale o nell’esercito di riserva gli individui appartenenti a
certe categorie razziali (“indiani” e “neri”), generando al
contempo conflitti con i lavoratori stanziati nel territorio e meglio
remunerati.
Tale
schema articolato e complessivo di Wolf è sicuramente utile per
capire anche quello sta succedendo oggi, mostrandoci che nessuno
emigra volontariamente e che è sempre spinto dalla logica che
produce l’impoverimento di alcuni e l’arricchimento di pochi
privilegiati.
Note
[1]
Domenicano ed esponente della Scuola di Salamanca (1483-1546).
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