http://www.libreriasensibiliallefoglie.com/catalogo.asp?sid=76947831120131022091747&categoria=43
Questo
libro propone i risultati di un cantiere socioanalitico tenuto a Brindisi nel
2013 sullo scambio salute-lavoro, al quale hanno partecipato una trentina di
persone, tra lavoratori e famigliari di operai del Petrolchimico, medici
epidemiologi, cittadini impegnati in comitati per la difesa dell’ambiente. Le
narrazioni raccolte nel cantiere hanno fatto emergere la stretta connessione
fra la produzione e disseminazione di veleni del polo industriale – le Centrali
termoelettriche e il Petrolchimico – e l’aumento della mortalità e delle
malattie fra i lavoratori e gli abitanti dei quartieri prossimi agli
stabilimenti. Ci si è allora interrogati sui dispositivi che hanno reso
impossibile, in questi ultimi 50 anni, determinare delle responsabilità e porre
dei rimedi alla situazione. Il libro illustra, attraverso il sapere delle
persone direttamente coinvolte, tali dispositivi e li inquadra in quella
complicità istituzionale che, a Brindisi come in diverse altre parti del mondo,
opera privilegiando il profitto a discapito della salute dei lavoratori e dei
cittadini.
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
lunedì 19 settembre 2016
domenica 18 settembre 2016
Cinque difficoltà per chi scrive la verità (1935)*- Bertolt Brecht
*Da: "Schriften zur Literatur und Kunste"
Shurkamp Verlag, 1967 Edizione italiana "Scritti sulla letteratura
e sull'arte", Einaudi 1973, traduzione di Bianca Zagari e nota
introduttiva di Cesare Cases
Chi ai
nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità,
deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di
scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di
riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di
renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper
scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di
divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che
scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati
cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi
della libertà borghese.
1. Il coraggio di scrivere la verità.
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva
la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non
vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è
assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso
ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso.
Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al
lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni
fama. Per farlo, ci vuole coraggio. Le epoche di massima oppressione sono quasi
sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche
simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e
l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che
più conta è lo spirito di sacrificio. Quando i contadini vengono ricoperti di
onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci
di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno
gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo
istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di
razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame
e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole
coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto.
Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i
propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle
ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro,
i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata
battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una
bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché
non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si
ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire
che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci
vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta
contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata,
ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la
menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire
che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una
menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di
pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.
sabato 17 settembre 2016
Modo di produzione capitalistico*- Alessandro Mazzone
*Da: https://rivistacontraddizione. n.140 Luglio-Settembre 2012
1. Alla fine di questo 1998, centocinquantenario
del Manifesto del partito comunista di K. Marx e F. Engels, è
– a quanto sembra – pacifico e generalmente riconosciuto: la critica del
capitalismo avanzata a metà ‘800 conteneva una singolare capacità di
previsione storica – nelle grandi linee, e dunque non
necessariamente politica.
Ricordiamo brevemente.
Già nel Manifesto il “mondo” appare come un
“mondo”, un processo obiettivo e che si generalizza secondo sue determinazioni
interne. Abbiamo:
- la produzione capitalistica, capace di
abbattere o sottomettersi tutte le forme precorse di riproduzione della vita
umana associata (dunque: espansione illimitata della produzione capitalistica);
- la tendenziale estensione della forma di merce,
e del corrispondente “nudo rapporto d’interesse”, a ogni elemento della
riproduzione della vita umana e del corpo associato (dunque: trasformazione
graduale di tutte le dimensioni societarie in figure “capitalistico-borghesi”);
- la creazione di un mercato mondiale, non come
semplice rete di scambi, ma come regolazione vincente di rapporti sociali, politici,
culturali (dunque: unificazione, in prospettiva, del genere umano nella – contraddittoria –
“civiltà borghese”);
- il primato economico delle “nazioni
borghesi” come tendenza alla sottomissione di tutte le altre, o alla loro
“integrazione” nelle forme economiche e politiche corrispondenti .
Ce n’è abbastanza – può sembrare – per trovare proprio in
Marx un “profeta” del presente, il cui “fantasma” deve inquietare i posteri 1.
Ma è un’apparenza superficiale, capace di ogni ambiguità, e sostanzialmente ingannevole.
2. Noi sappiamo [i]bis che nel Manifesto la
teoria del modo di produzione capitalistico 2 era appena abbozzata; che Marx,
nel 1848, non aveva una sua teoria della forma di valore (cioè del rapporto di
produzione generale, e che astrattamente “copre” tutto l’arco del mpc), né
del processo di capitale, che, se comprende in sé il
semplice rapporto di capitale (lavoro salariato), si svolge
poi categorialmente fino all’unica e vera “contraddizione” del mpc: la tendenza
allo “sviluppo incondizionato della forza produttiva del lavoro sociale” e lo
“scopo limitato” della valorizzazione, entrambe inerenti allo svolgimento del
mpc in tutto il suo arco. Di conseguenza, solo nell’elaborazione della teoria
del mpc in tutto il corso dell’esperienza scientifica di Marx [ii]bis, si
sviluppa anche la teoria marxiana delle classi. Poiché la nozione di “classe”
dipende concettualmente da quella di “modo di produzione” essa ha,
innanzitutto, uno status teorico del medesimo livello
d’astrazione della teoria del mpc. E come questa non è teoria
delle singole configurazioni del “capitalismo” (i “capitalismi nazionali”, con
le loro determinazioni pregresse e sussunte, “ricchezza” e “tradizioni”
storiche peculiari, etc.), né – in prima istanza – una teoria degli “stadi” o
“fasi” delcapitalismo se non in quanto processo tendenzialmente
universalizzantesi, secondo le sue leggi di moto intrinseche e con sussunzione
di altre pregresse figure sociali in genere – così la teoria delle classi è
(quanto meno per l’autore del Capitale ) una teoria di forme
di moto della riproduzione sociale nella forma del mpc, che solo ulteriormente,
nella utilizzazione analitica dell’intera teoria del modo
di produzione per lo studio di configurazioni sociopolitiche concrete (singoli
“capitalismi” storici, nei loro stati, etc.) può acquistare valenza politica
nel senso più lato del termine. Torneremo più avanti su quest’aspetto.
venerdì 16 settembre 2016
Su HEIDEGGER*
*Da: Ludovico
Geymonat, Storia del pensiero scientifico
e filosofico, Vol. 7, Sez. Nona, Le
grandi correnti filosofiche, Cap.7, L'esistenzialismo,§
IV-V, p.p.153-164.
Per
un ulteriore approfondimento del pensiero heideggeriano proponiamo una lettura
"critica" di notevole interesse... (c.f.m. Stefano Garroni)
IV. HEIDEGGER: « ESSERE E TEMPO»
L'opera Sein und Zeit, erste Halfte costituisce senza dubbio
una delle tappe più importanti dell'itinerario filosofico di Martin Heidegger.
Quando nel 1926 terminò di scriverla era ancora vivamente legato a Husserl,
tanto che - come già ricordammo - la dedicò proprio a lui («con ammirazione e
amicizia») e, come sede per la pubblicazione, scelse per l'appunto
l'husserliano «Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologìsche Forschung»
(«Annali dì filosofia e ricerca fenomenologica»). Tuttavia l'anno stesso in cui
l'opera uscì, cioè il 1927, segnò l'inizio della ben nota rottura fra i due
autori, e da quel momento in poi Heidegger proseguì le proprie ricerche
filosofiche in modo del tutto indipendente dal maestro, onde è sorto il
problema (a cui si è già fatto cenno nel paragrafo II) se tale data rappresenti
o no una vera e propria svolta del pensiero heideggeriano. Questo breve
richiamo intende chiarire il motivo per cui abbiamo deciso di suddividere in
due parti la nostra schematìca esposizione dell'esistenzialismo di Heidegger,
dedicando il presente paragrafo a Sein und Zeit e il prossimo ad enucleare --
dai molti scritti successivi -- alcuni ben determinati temi che posseggono un
particolare interesse dal nostro specifico punto di vista.
Dallo schema dell'opera (contenuto nell'introduzione) si
ricava che essa doveva risultare suddivisa in due parti: la prima di carattere
prettamente teoretico, la seconda essenzialmente storico-critico. Ciascuna di
esse si sarebbe dovuta articolare in tre sezioni, rispettivamente dedicate ai
seguenti problemi: «L'analisi fondamentale dell'esserci nel suo momento
preparatorio, esserci e temporalità, tempo ed essere» (1 parte), «La dottrina
kantiana dello schematismo e del tempo come avviamento alla problematica della
" temporalità ", il fondamento antologico del" cogito ergo
sum" di Cartesio e l'assunzione dell'ontologia medioevale nella
problematica della"res cogitans", la trattazione aristotelica del
tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti dell'ontologia antica»
(2 parte). [ Per questa e per le altre citazioni, ci valiamo dell'ottima
traduzione dell'opera, curata da Pietro Chiodi (Torino 1969)]. La cosiddetta
«prima metà» dell'opera, cioè l'unica effettivamente pubblicata, non include
l'intera prima parte, ma soltanto le due prime sezioni di essa.
Volendo che il lettore si faccia un 'idea abbastanza esatta
della complessa trattazione, riteniamo opportuno premettere un rapido riassunto
dell'introduzione in cui ne sono tratteggiati, a grandi linee, gli argomenti
generali.
giovedì 15 settembre 2016
mercoledì 14 settembre 2016
martedì 13 settembre 2016
intervista a Emiliano Brancaccio*- Giacomo Russo Spena
*Da: http://temi.repubblica.it/
“Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna
svolta, nessun vento federalista di cambiamento. La sostanza delle politiche
economiche non è cambiata. L’eurozona resta sull’orlo della deflazione, con
effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il
continente. Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile”.
L’economista Emiliano Brancaccio non ha mai aderito allostorytelling renziano
sulle possibilità di rilancio del progetto di unificazione europea. Anzi, nel
commentare le recenti decisioni di politica monetaria e le proposte di gestione
del post-Brexit, Brancaccio mette in luce l’affiorare di crepe sempre più
profonde nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione.
Professore, la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?
Il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà. Le regole attuali impongono alla BCE di acquistare titoli secondo quote pressoché fisse tra i vari Paesi, il che significa che larga parte delle erogazioni della banca centrale finisce in Germania anziché nelle economie che ne avrebbero più bisogno. Per iniziare ad affrontare i problemi di solvibilità dei Paesi più fragili bisognerebbe almeno superare questi aspetti così regressivi della politica monetaria europea. Ma i conservatori, tedeschi e non solo, ormai bloccano anche le più modeste istanze di rinnovamento.
Questo significa che la BCE non riuscirà a perseguire l’obiettivo d’inflazione che si era data?
Le banche centrali non hanno mai avuto il potere di controllare l’inflazione. Il loro vero compito è di definire le condizioni generali di solvibilità delle unità economiche. Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri Paesi del Sud Europa.
lunedì 12 settembre 2016
NEO-AMERICANISMO, marxismo ed esercito di miseria di riserva* - Aurelio Macchioro
1"Un punto centrale di questo
capitalismo post 1945 e post 1970 è il travisamento e l’occultamento
spettacolari dei costi esterni. L’auto accelera i tempi? Ma nella misura (grande)
in cui crea ingorghi e sprechi di trasferimento di quanto li decelera? Se un’intera
insediabilità urbanistica, come quella americana, si è condeterminata e
intercondizionata con l’uso dell’auto, quali i risultati globali di entrata-uscita? E se anche l’atmosfera s’inquina? e se
accentua le ragioni di ospitalizzazione? La chimica industriale, i fertilizzanti
ecc.: quale è il loro attivo di entrata al netto di uscita di costi esterni? L’automazione?
Esiste, in proposito una enorme confusione fra efficienza e rendimenti: un
calcolatore versatile in un’agenzia bancaria risparmia (efficienza aziendale)
sui costi di personale, generalizzando la disoccupazione rende più efficiente
un certo controllo interno di personale; ma quando (frequentissimamente) la
macchina si inceppa è la paralisi (un’ora, un giorno?) per un’intera comunità
di utenti: con quale attivo/passivo complessivo? Ed ancora, in tema di controllo
di personale: quanto più all’azienda ridondano benefici di ricatto sul
personale generale, tanto più ridondano sprechi di ricatto dal personale
specializzato (ricatti sensibilissimi, ad es. nelle compagnie di volo) e si fa
ricattare l’azienda dall’avanzamento tecnologico stesso: dal rapidissimo e
artificiale tasso di obsolescenza, dalla specialità dei costi di assistenza
ecc. Con quali bilanci globali di entrata e uscita? Se in un ufficio si rende in linea assoluta impossibile il
controllo di efficienza o assiduità sul personale\uomo, quali ne sono i costi
ai fini dell’utenza finale? Come calcolare (in termini contabilistici) i costi
di minor rendimento (specialmente esterni) della efficienza (tecnologica) una
volta che questi costi sono diventati sproporzionatamente
elevati rispetto ad altre rivoluzioni tecnologiche? E che dire delle
applicazioni belliche? E così via. L’occultamento spettacolare di tutto questo
è che lo studio di questa nuova contabilità viene tradotto e assorbito nel
sistema diffuso sotto forma di americanismo di parata: movimenti ecologici o,
meglio, ecologistici, gli indiani metropolitani, la visività contestativa, il
profetismo, la fioritura sociologica o, meglio, sociologistica ... la
poematica, insomma, come traslato della prosaicità e della contabilistica. Gli
occultamenti sono tali che costringono me stesso a occultarmi ; non essendosi
creata una”contabilità del globale” e neppure essendosene posto il problema. In
mancanza di dati sono costretto a relegare in nota quanto, invece, fa parte
principale di testo e contesto; si riduce a spunto e suggerimento
– e spuntino postprandiale – quanto invece, se è lecito dire, dovrebbe fondare
il prandium."
Il fenomeno più saliente su cui vorrei richiamare la
vostra attenzione è la coesistenza di sviluppo o sottosviluppo tanto nel suo
significato originariamente marxiano (il capitalismo ha per sua intrinseca
dialettica la formazione di eserciti di disoccupazione di riserva),
quanto sotto forma di scambio ineguale, quanto nelle sue “odierne” specificità
di riscoperta della miseria.
domenica 11 settembre 2016
La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei di Francesco Postorino*
Remo Bodei ha recentemente pubblicato Limite (il Mulino),
una importante riflessione filosofica sull'idea di limite nell'epoca della
globalizzazione. In questa intervista, si ricapitolano di questa riflessione i
tratti principali.
Il concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche
e, in particolare, nella modernità?
Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini
stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al
di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue
avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il
pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura,
del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come
“concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione
trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei
ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla
tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.
Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta
globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I
confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o
indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di
comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali
civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio
sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente
rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e
comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della
sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti
da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte
del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata
conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da
un vigile senso di responsabilità.
Se guardiamo specificamente alla filosofia, nel periodo da
Locke a Kant, la filosofia moderna si è interrogata a lungo sui limiti
dell’intelletto umano. Fin dove può giungere una solida conoscenza basata
sull’esperienza o sul sapere matematico prima di lasciare spazio alla fede o
alla metafisica, ossia a questioni indecidibili e a convinzioni non
razionalmente argomentabili? Se per Locke ogni idea trae il suo materiale
unicamente dall’esperienza dei sensi, è chiaro che non si può attribuire valore
di verità a quanto si pone al di fuori di essa. Kant, a sua volta, delimita la
sfera di validità dell’esperienza paragonando l’intelletto a un’isola dai
confini ben precisi, circondata da un mare di apparenze, verso il quale gli
uomini si sentono però irresistibilmente attratti.
La tentazione da evitare è quella di lasciarsi attirare
dalle Sirene della metafisica, che invitano allo scriteriato viaggio
nell’oceano dell’apparenza, di lasciarsi sedurre da ciò che è inverificabile e
contrario all’unica verità alla nostra portata, quella dettata dall’esperienza.
Non bisogna quindi abbandonare il solido terreno di quest’isola dai “confini
immutabili” per affrontare un’impresa che è, comunque, destinata al naufragio.
Sul terreno della dialettica, ossia dell’illusione di poter risolvere problemi
insolubili (ad esempio, se l’anima è mortale o immortale o se l’universo è
finito o meno), non ci sono altro che “antinomie”, soluzioni in contraddizione
tra loro.
sabato 10 settembre 2016
Un discorso di Hegel*
*Da: http://www.badiale-tringali.it/
(Nel 1808 Hegel assunse l'incarico di rettore del
Ginnasio di Norimberga. Nel settembre del 1809, a conclusione del primo anno
scolastico, tenne il seguente discorso sul significato degli studi classici.
Paolo Di Remigio ci propone questa traduzione commentata. Leggendola siamo
stati colpiti dalla lucidità e dall'attualità delle parole di Hegel su cosa
siano cultura ed educazione. Per questo ci sembra interessante proporvelo.
Ringraziamo l'amico Di Remigio per questa opportunità. Il testo appare anche su
"Appello al popolo". M.Badiale)
In occasione del conferimento solenne dei premi che l'Autorità
Suprema conferisce agli alunni distintisi per i loro progressi al fine
di gratificarli e ancor più di spronarli, sono incaricato da Graziosissimo
Ordine di illustrare in un pubblico discorso la storia del Ginnasio nell'anno
passato, e di toccare quegli argomenti di cui può essere utile parlare per la
loro relazione al pubblico. L'invito alla deferenza con cui ho da compiere
questo incarico è proprio della natura dell'oggetto e del contenuto, che
consiste in una serie di liberalità del Re o di loro
conseguenze, e la cui illustrazione implica la necessità di esprimere la più
profonda gratitudine per esse –una gratitudine che, insieme al pubblico,
mostriamo alla cura sublime che l'Autorità dedica agli Istituti pubblici di
istruzione1. –
Ci sono due rami dell'amministrazione pubblica per il cui buon ordinamento i
popoli usano essere più di ogni altra cosa riconoscenti: buona amministrazione
della giustizia e buoni istituti di istruzione; infatti soprattutto di questi
due rami, dei quali uno tocca la sua proprietà privata in generale, l'altro la
sua proprietà più cara, i suoi figli, il privato comprende e sente i vantaggi e
gli effetti immediati, vicini e individualizzati.
Questa città ha riconosciuto il bene di un nuovo ordinamento scolastico con
tanta più vivacità quanto maggiore e più universalmente sentito era il bisogno
di un cambiamento2.
Il nuovo Istituto ha poi avuto il vantaggio di seguire
Istituti non nuovi, ma antichi, durati più secoli; così
gli è si potuta connettere la pronta rappresentazione di una lunga durata, di
una permanenza, e la fiducia corrispondente non è stata disturbata dal pensiero
opposto che il nuovo ordinamento sia qualcosa di soltanto fuggevole, di
sperimentale, – un pensiero che spesso, in particolare quando si fissa negli
animi di coloro ai quali è affidata l'esecuzione immediata, finisce con lo
svilire di fatto un ordinamento a un mero esperimento3.
Un motivo interno di fiducia è però che, nel migliorare ed estendere
essenzialmente il tutto, il nuovo Istituto ha conservato il principio
dell'antico e ne è soltanto una prosecuzione. Ed è notevole che questa
circostanza costituisca il caratteristico e l'eccellenza del nuovo ordinamento4.
venerdì 9 settembre 2016
CULTURA O IDEOLOGIA?*- Alessandra Ciattini
Ascoltando con atteggiamento critico il linguaggio politico
e quello massmediatico, assai spesso coincidenti, si può cogliere questa
paradossale contraddizione: da un lato, le ideologie sono finite ed è quindi
opportuno fare costantemente riferimento ai “fatti”; dall’altro, formulando
qualche considerazione, ci si appresta a sottolineare che essa è esclusivamente
frutto della propria personale opinione, ovviamente sempre rispettabile perché
viviamo in un “sistema democratico”.
Sembrerebbe, quindi, che per un verso, si è del tutto
convinti che esistano “fatti” osservabili e identificabili indipendentemente
dal punto di vista di chi esprime una valutazione; e, infatti, a proposito ad
esempio di una certa misura economica da prendere, si ripete ciò non è
né di destra né di sinistra, perché sta nelle cose. Per l’altro
verso, con una vena relativistica, assai antipatica alla Chiesa cattolica, si
ribadisce che ognuno ha legittimamente le proprie opinioni, in cui si esprimono
scelte culturali differenti, tutte accettabili.
Nel primo caso si identifica l’ideologia con un insieme di
preconcetti, appartenenti ad un passato ormai superato, e applicati in maniera
dottrinaria e semplificatoria. Nel secondo caso il richiamo implicito è,
invece, alla nozione di cultura, che a sua volta rimanda alla convinzione che
l’uomo contemporaneo abbia di fronte a sé una miriade di opzioni culturali, tra
le quali potrà individuare quella che gli consentirà una più piena
realizzazione di sé. Per verificare il carattere mistificante di quest’ultima
affermazione, basta fare un’operazione assai semplice: esaminare i diversi
programmi televisivi, offerti dai numerosissimi canali che abbiamo a
disposizione, cercando di cogliere punti di vista differenti a proposito di
questioni che non siano la scelta tra mode effimere ed evanescenti. Insomma,
sostanzialmente ci viene servita sempre la stessa salsa, anche se si cerca di
presentarla come innovatrice o addirittura trasgressiva. Quindi,
contraddittoriamente, talvolta, ci si richiama alla “positività immutabile dei
fatti”, talaltra, invece si mette in luce la possibilità del pluralismo
culturale, in realtà praticato assai superficialmente e certamente non in
ambiti di cruciale rilevanza (come per esempio il carattere effettivamente
democratico dei nostri sistemi politici). Pluralismo culturale che ha anche
prodotto la bizzarra equiparazione tra cultura quotidiana e cultura alta,
concepite come forme semplicemente diverse, ma ugualmente profonde, di
attribuire significati al momento storico, cui appartengono.
giovedì 8 settembre 2016
Il concetto marxiano di bisogno[1]*- Agnes Heller
"Il comunismo è pane e rose, il necessario e
il superfluo, una società dove si mangia meglio e di più (non solo pane), dove
si lavora meglio e di meno, ma anche una società dove si è più felici,
realizzati, liberi" (Marx)
Riassumendo le proprie scoperte economiche, rispetto
all’economia politica classica, Marx elenca i seguenti punti:
1. Elaborazione della teoria secondo la quale il lavoratore vende al capitalista non il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro.
2. Elaborazione della categoria generale del plusvalore e sua dimostrazione (profitto, salario e rendita fondiaria sono soltanto forme fenomeniche del plusvalore).
3. Scoperta del significato del valore d’uso (Marx scrive che le categorie valore e valore di scambio non sono nuove, ma sono riprese dall’economia politica classica).
Se si analizzano le tre scoperte che Marx si attribuisce, non è difficile dimostrare che in qualche modo sono costruite tutte sul concetto di bisogno.
Esaminiamo dapprima il valore d’uso. Marx definisce la merce come valore d’uso nel modo seguente: “La merce è [...] una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo.”[2] È irrilevante a questo proposito se si tratti di bisogni dello stomaco o della fantasia. La soddisfazione del bisogno è la conditio sine qua non per qualunque merce. Non esiste alcun valore (valore di scambio) senza valore d’uso (soddisfazione di bisogni), ma possono ben esistere valori d’uso (beni) senza valore (valore di scambio), sebbene soddisfino bisogni (secondo la loro definizione). Sia fin d’ora chiaro che Marx è solito definire attraverso il concetto di bisogno, ma non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non descrive nemmeno cosa si debba intendere con tale termine.
1. Elaborazione della teoria secondo la quale il lavoratore vende al capitalista non il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro.
2. Elaborazione della categoria generale del plusvalore e sua dimostrazione (profitto, salario e rendita fondiaria sono soltanto forme fenomeniche del plusvalore).
3. Scoperta del significato del valore d’uso (Marx scrive che le categorie valore e valore di scambio non sono nuove, ma sono riprese dall’economia politica classica).
Se si analizzano le tre scoperte che Marx si attribuisce, non è difficile dimostrare che in qualche modo sono costruite tutte sul concetto di bisogno.
Esaminiamo dapprima il valore d’uso. Marx definisce la merce come valore d’uso nel modo seguente: “La merce è [...] una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo.”[2] È irrilevante a questo proposito se si tratti di bisogni dello stomaco o della fantasia. La soddisfazione del bisogno è la conditio sine qua non per qualunque merce. Non esiste alcun valore (valore di scambio) senza valore d’uso (soddisfazione di bisogni), ma possono ben esistere valori d’uso (beni) senza valore (valore di scambio), sebbene soddisfino bisogni (secondo la loro definizione). Sia fin d’ora chiaro che Marx è solito definire attraverso il concetto di bisogno, ma non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non descrive nemmeno cosa si debba intendere con tale termine.
mercoledì 7 settembre 2016
KANT - Maurizio Ferraris
http://www.filosofia.rai.it/articoli-programma/zettel-presenta-maurizio-ferraris-kant-e-lilluminismo/31677/default.aspx
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/10/kant-brandt-dusing-henrich-hosle.html https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/husserl-roberta-de-monticelli.html
« L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di
minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di
valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se
stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto
d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del
proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere
aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È
questo il motto dell'Illuminismo. »
|
martedì 6 settembre 2016
Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey
Proponiamo un’interessante intervista al geografo e
sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve
storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più
citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei
concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione
attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni
dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La
prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica
e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato
conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della
confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre
ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di
produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo
per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe
ricordarsi.
Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve
storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi
uno dei libri più citati sull’argomento.
Gli anni passati da allora hanno visto nuove crisi economiche
e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che di per se spesso
mettono nel mirino proprio il “neoliberismo” nella loro critica della società
contemporanea.
Cornell West parla del
movimento “Black Lives Matter” (il movimento originatosi nella comunità
afro-americana contro le continue violenze della polizia contro le persone di
colore, ndt) come di “un’accusa verso il potere neoliberale”; Hugo Chavez
chiamava il neoliberismo un “percorso verso l’inferno”;
e i leader sindacali stanno usando in maniera crescente il termine per
descrivere il tipo di struttura più ampia in cui avvengono le lotte per il
lavoro. Anche la stampa mainstream ha iniziato ad usare il termine, se non
altro per argomentare che il
neoliberismo non esiste.
Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di
neoliberismo? È un bersaglio utile per dei militanti socialisti? E come è
cambiato dalla sua genesi avvenuta nel tardo ventesimo secolo?
Bjarke Skærlund Risager, un dottorando presso il
Dipartimento di Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, si è seduto al
tavolo con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come
esso ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra deve ancora
essere seria riguardo all’obbiettivo di terminare il capitalismo.
lunedì 5 settembre 2016
Hannah Arendt*- Simona Forti**
*Da: BCT Biblioteche Civiche Torinesi **Simona_Forti è una filosofa italiana.
Leggi anche: http://www.pansofia.it/files/2014/11/06/396-vita-activa_Arendt.pdf
http://isematadellessere.blogspot.it/2010/03/hannah-arendt-la-vita-della-mente.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/le-passioni-tra-heidegger-e-aristotele.html
Leggi anche: http://www.pansofia.it/files/2014/11/06/396-vita-activa_Arendt.pdf
http://isematadellessere.blogspot.it/2010/03/hannah-arendt-la-vita-della-mente.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/le-passioni-tra-heidegger-e-aristotele.html
domenica 4 settembre 2016
sabato 3 settembre 2016
Simone Weil* - Riccardo Bellofiore
*in "Nuvole", n. 2, dicembre 1991-gennaio
1992)(seguita da breve antologia, stesso numero)
La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati a torto o a ragione efficaci. Se la repubblica di Weimar, invece che Hitler, avesse deciso per le vie più rigorosamente parlamentari e legali di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli raffinatamente fino alla morte, le torture non avrebbero per questo un atomo di legittimità in più di quanto non ne abbiano attualmente. E una cosa simile non è affatto inconcepibile.
(Simone Weil, Diario, n. 6, p.4, 1943)
Scrive di lei Georges Bataille in L'azzurro del
cielo: "Sentivo che una simile esistenza non poteva avere senso se non
per uomini e per un mondo votato alla sventura." E ancora: "Pensai: è
macabra, ma è l'unica che capisca." Eccessiva e irritante. Ma anche:
un'intelligenza affilata come una lama, un'inesausta volontà di capire e
trasformare. La sua inquietudine, e in certo senso anche la sua
autodistruttività, si accompagnano a quella domanda tutt'ora inevasa che ci
viene da un'esperienza al tempo stesso radicale e razionale. Di chi non ha
rimosso, né si è acquietata, nell'impotenza e nella sconfitta. Di chi ha
lottato con il cuore caldo e la mente lucida. Di chi ha saputo tenere alti,
insieme, i valori dell'individuo e quelli di una liberazione collettiva. Di chi
ha saputo, insomma, essere di parte senza mai essere di partito - fosse una
qualche Internazionale, o una qualche Chiesa.
Nasce a Parigi nel 1909, da una famiglia ebraica ma non
confessante. Si dichiara bolscevica a dieci anni: ma il suo sarà sempre un
comunismo libertario, con tratti anarchici. Allieva al liceo di Alain, si
laurea con una tesi su Descartes, autore che non cesserà di amare. Insegnante,
sindacalista rivoluzionaria, va in Germania nell'agosto del 1932, e vi vede
l'impotenza del proletariato tedesco e del movimento rivoluzionario, la
competizione tra le burocrazie socialdemocratica e comunista, la divisione e la
cecità della sinistra che preparano la disfatta. Ne cerca le cause dapprima in
una analisi non compiacente della crisi sociale ed economica, e poi in un
ripensamento radicale del marxismo, della forma e dell'origine dello
sfruttamento. Consegnerà le sue tesi ad uno scritto pubblicato postumo, quelle Riflessioni
sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale (1934) a cui premette
una frase di Spinoza: "Riguardo alle cose umane non ridere, non piangere,
non indignarsi, ma capire." Un atteggiamento stoico che la avvicina a Rosa
Luxemburg, cui dedicherà una recensione breve ed appassionata.
venerdì 2 settembre 2016
giovedì 1 settembre 2016
Studio su Hegel: LA LOGICA - Stefano Garroni
Quarta parte: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/studio-su-hegel-filosofia-storia-etica_13.html
[1] - Hegel,
1130.1, §. 19 - La logica è la scienza (Wissenschaft)
della pura (reine) idea, cioè dell’idea
nell’ astratto elemento del pensare (Denken)... La logica è la scienza del
pensare, delle sue determinazioni e leggi, ma il pensare in quanto tale
definisce solo la determinatezza generale
o l’ elemento, in cui l’idea è in
quanto logica. L’idea non è il pensiero formale, ma (il pensare) in quanto la
totalità sviluppantesi delle sue (del pensiero) proprie determinatezze e leggi,
che esso stesso si dà -non che ha o trova già in sé.[1]
La logica può esser detta la scienza più
difficile, in quanto non ha a che fare con intuizioni (Anschauung) e neppure con astratte rappresentazioni sensibili come
la geometria; essa ha invece a che fare con le pure astrazioni e richiede la
capacità e la forza di districarsi nel puro pensiero, di muoversi con sicurezza
entro di esso, in quanto puro pensiero. (67). La differenza tra logica e
matematica -l’argomento è lo stesso fatto per la geometria-, in pp. 70s (cf.
Cingoli, 7464: 22).
[Quindi,
la logica studia l’idea, ma nell’ astratto elemento del pensare non nel Dasein; la logica studia l’astratto pensare, come una totalità, che produce
le sue stesse leggi e determinazioni. Il
tutto avviene entro lo spazio del puro pensiero astratto; qui non compare
affatto il Dasein].
Ma la logica può anche esser detta la scienza più
facile, in quanto il suo oggetto è il pensare e le sue famigliari (geläufig) determinazioni. -[Si può dire, in questo senso, che Hegel
stabilisce una relazione fra logica e conoscenza ordinaria? Per come prosegue il testo di Hegel, per
come sottolinea che nelle mani della logica
la Bekanntschaft
diventa tale in un senso diverso da quello della quotidianità, direi che è
legittima la tesi seguente: l’elaborazione hegeliana si applica sul
<comune>, sull’<abituale> -in questo senso, sul <quotidiano>,
ovviamente riplasmandolo.]
La logica è utile in quanto apprende a pensare, ad
avere in testa il pensieri in quanto pensieri; ma la logica è anche la forma
assoluta della verità, dunque, la verità stessa: la logica è utile in quanto
assicura il formale uso del pensare.
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