Il contenuto del discorso che lo spirito tiene di se stesso e intorno a se stesso è dunque l’inversione di tutti i concetti e di tutte le realtà; è il generale inganno di se medesimi e degli altri; e l’impidenza di enunciare questo inganno è appunto perciò la suprema verità. Tale discorso è la frenesia di quel musico “che ammucchiava e mescolava trenta arie, italiane e francesi, tragiche e comiche, di ogni risma; ora scendeva con nota da basso profondo sino all’inferno; ora, contraendo l’ugola, lacerava col suo falsetto le altezze dell’aria, a volta a volta furente e mansueto, imperioso e schernitore”. – Alla coscienza posata, la quale fa onestamente consistere la melodia del bene e del vero nell’eguaglianza dei toni, cioè nell’unisono, siffatto discorso appare come “un guazzabuglio di saggezza e di demenza, una miscela di capacità e istrioneria, di idee giuste e di false, di completa perversione del sentimento, di completa sfrontatezza, e insieme di piena sincerità, di piena verità. Non si potrà fare a meno di passare per tutti questi toni, di percorrere su e giù l’intera gamma dei sentimenti, dal più profondo dispregio e dalla più profonda abiezione fino alla suprema ammirazione e alla suprema commozione. In questi ultimi sentimenti si diffonderà un che di ridicolo a caratterizzare la loro natura”; i primi invece avranno nella loro sincerità perfino un che di conciliante; avranno nella loro sconvolgente profondità quella nota che tutto domina e che restituisce lo spirito a se stesso.
Se di fronte al discorso di questa confusione chiara a se stessa, noi consideriamo il discorso di quella coscienza semplice del vero e del bene, ecco che, rispetto all’aperta eloquenza, e di sé consapevole, dello spirito della cultura, tale discorso può essere soltanto un monosillabo; siffatta coscienza non può infatti dire niente a quello spirito, qualora esso non lo sappia e non lo dica da sé. Se questa coscienza va oltre al suo monosillabo essa dice allora quella stessa cosa che anche quello spirito dice; ma con ciò commette inoltre la pazzia di credere di dire qualcosa di nuovo e di diverso. Già le sue scempie e spregevoli sillabe sono questa pazzia; quello spirito infatti le dice di se stesso. Se nel suo discorso esso inverte tutto ciò che ha un tono solo, poiché questa identità con se stesso è mera astrazione, mentre nella sua effettualità è invece l’inversione in se stessa; e se per contro la coscienza retta prende sotto la sua egida il buono e il nobile, - vale a dire ciò che nella sua estrinsecazione si mantiene eguale, - nell’unico modo che qui è possibile, in modo cioè ch’esso non perda il proprio valore per quanto sia congiunto o mischiato al male (questa è infatti la sua condizione e necessità, questa è la saggezza della natura); - allora tale coscienza credendo di contraddire, altro non ha fatto che costringere il contenuto del discorso dello spirito entro una forma triviale; questa forma senza pensiero, rendendo il contrario del nobile e del buono condizione e necessità del nobile e del buono, crede di dire qualcos’altro da ciò: che il cosiddetto nobile e buono è nella sua essenza l’inverso di se medesimo, al modo stesso che, per contro, il cattivo è l’eccellente.