Il dissolvimento dell’Unione Sovietica e dei paesi
socialisti dell’est europeo ha prodotto nel movimento comunista la dispersione
dei suoi appartenenti in gruppuscoli di scarsa rilevanza politica; al contempo,
ha generato un profondo senso di sconfitta e di impotenza, probabilmente non
esaminato fino in fondo, e che purtroppo non ha suscitato un’intensa
riflessione sui caratteri del “socialismo realizzato”, che era stata avviata
con l’affermarsi dello stalinismo.
Questi sentimenti comprensibili, accompagnati da un senso di
smarrimento, e dalla martellante propaganda ideologica mirante a farci credere
che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che la “democrazia realizzata” –
come la definisce Luciano Canfora [1] – costituisce il regime politico più
rispettoso dei diritti umani, ci ha fatto dimenticare una serie di vittorie
straordinarie. Ho in mente il fondamentale contributo di Cuba alla
decolonizzazione dell’Africa; processo che negli ultimi decenni – con il mutare
del sistema delle relazioni internazionali – non solo ha subito una battuta
d’arresto, ma addirittura un’involuzione, giacché siamo ormai nel pieno di una
fase neocoloniale e di ritorno alla colonizzazione diretta.
Come scrive lo storico Piero Gleijeses, in una lettera indirizzata a Barack
Obama con l’obiettivo di difendere i cinque cubani fino a qualche
tempo fa ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti, la vittoria cubana in Angola e Namibia ebbe
ampie ripercussioni e – citando Nelson Mandela - aggiunge che
smontò il mito dell’invincibilità dell’oppressore bianco. A suo parere tale
vittoria produsse l’umiliazione degli Stati Uniti, evento che questi ultimi non
possono perdonare a Fidel Castro, e per questo si sono rivalsi sui
cinque cubani agenti dell’antiterrorismo, che di fatto sono stati solo dei
<<prigionieri politici>>. Naturalmente si potrebbe aggiungere a
queste parole che la stessa esistenza di Cuba, dopo cinquant’anni di bloqueo,
costituisce un’umiliazione perenne per la superpotenza, difficile da mandare
giù.














