Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì.
Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a
Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo
poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio.
E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che
non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti
dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu,
straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni
dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde
togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina,
caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci,
non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio
Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e
non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”.
E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una
minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non
fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile
patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte.
A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm –
apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un
sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo
due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede
certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in
Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.
Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà,
all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma
spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà
sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre,
lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni
arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in
mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti
facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano,
che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo
squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità,
l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare
all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si
presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani
hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una
specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a
pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di
essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere
che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi
ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e
quelli che non hanno paura di nessuno.