lunedì 30 ottobre 2017

LA TRUFFA - Paolo Massucci


Nonostante l’impennata della mortalità registrata dall’ISTAT nel primo trimestre del 2017 andremo tutti in pensione cinque mesi più tardi, persino a 71 anni per chi ha iniziato a lavorare dal 1996, senza che il governo si curi se le aziende manterranno il posto di lavoro ai sessantenni e settantenni o se ne libereranno prima. 
Tale assurdità e malvagità svela la realtà del rapporto cittadini-governanti in un paese capitalista definito democratico.

Con il meccanismo attuale l'età della pensione può solo aumentare all'infinito.

Nel triennio 2014–2016 l’ISTAT ha certificato, con un complesso calcolo statistico peraltro contestato da alcune sigle sindacali, un aumento di cinque mesi dell’aspettativa di vita a 65 anni. Detto triennio costituisce il periodo di riferimento per l'adeguamento automatico dell'età della pensione (e dei coefficienti di trasformazione che ne stabiliscono l’importo) da applicarsi da gennaio 2019. Dal 1 gennaio 2019 pertanto l’età pensionabile sarà aumentata di cinque mesi e saranno applicati i nuovi coefficienti che ne riducono l’importo.

Sull’argomento, nel mio precedente articolo del 30/09/2017 pubblicato su La città futura (https://www.lacittafutura.it/interni/la-truffa-si-vive-meno-ma-aumenta-l-eta-per-andare-in-pensione.html) riportavo -riprendendo il giornale cattolico l’Avvenire (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-vero-deficit-italiano)- l’impennata del tasso di mortalità generale del + 15% registrata dall’ISTAT  nel  primo trimestre del 2017, quindi nel periodo immediatamente successivo al triennio del calcolo suddetto. Circa l’andamento nei mesi successivi dell’anno in corso non sono ancora disponibili dati, ma non si può escludere che il gran caldo estivo ne possa aver determinato un ulteriore incremento.

domenica 29 ottobre 2017

“Perchè il socialismo..”- A.Einstein (1949)

Fonte: Pcdi - Da: http://www.tribunodelpopolo.it
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/perche-la-guerra-carteggio-albert.html

E’ prudente per chi non sia esperto in materia economica e sociale esprimere opinioni sul problema del socialismo? Per un complesso di ragioni penso di sì.

Consideriamo dapprima la questione dal punto di vista della conoscenza scientifica. Potrebbe sembrare che non vi siano essenziali differenze di metodo tra l’astronomia e l’economia: in entrambi i campi gli scienziati tentano di scoprire leggi generalmente accettabili per un gruppo circoscritto di fenomeni, allo scopo di rendere il più possibile comprensibili le connessioni tra questi stessi fenomeni. Ma in realtà tali differenze di metodo esistono. La scoperta di leggi generali nel campo economico è resa difficile dal fatto che i fenomeni economici risultano spesso influenzati da molti fattori difficilmente valutabili separatamente. Inoltre l’esperienza accumulata dal principio del cosiddetto periodo civile della storia umana è stata, come ben si sa, largamente influenzata e limitata da cause che non sono di natura esclusivamente economica.

Molti dei maggiori Stati, per esempio, dovettero la loro esistenza a conquiste. I conquistatori si stabilirono, giuridicamente ed economicamente, come classe privilegiata nel Paese conquistato. Essi si presero il monopolio della proprietà terriera e formarono un sacerdozio con uomini della loro classe. I preti, avendo il controllo dell’educazione, trasformarono la divisione in classi della società in un’istituzione permanente e crearono un sistema di valori dal quale, da allora in poi, il popolo si lasciò in gran parte inconsciamente guidare nella sua condotta sociale.

Ma la tradizione storica è, per così dire, di ieri; oggi noi abbiamo realmente superato quella che Thorstein Veblen chiamò la “fase predatoria” dello sviluppo umano. I fatti economici osservabili appartengono a quella fase e anche le leggi che noi possiamo ricavare non sono applicabili alle altre fasi. Poiché il vero scopo del socialismo è precisamente di superare e andare al di là della fase predatoria dello sviluppo umano, la scienza economica nelle sue attuali condizioni può gettare ben poca luce sulla società socialista del futuro.

In secondo luogo, il socialismo mira ad un fine etico-sociale. La scienza, viceversa, non può creare fini, e ancor meno imporli agli esseri umani; essa, al massimo, può fornire i mezzi con cui raggiungere certi fini. Questi sono concepiti da persone con alti ideali etici e se essi non sono sterili, ma vitali e forti, sono assunti e portati avanti da quella larga parte dell’umanità che, per metà inconsciamente, determina la lenta evoluzione della società.

Per queste ragioni, noi dovremmo guardarci dal sopravvalutare la scienza e i metodi scientifici quando si tratta di problemi umani; e non dovremmo presumere che gli esperti siano i soli che hanno il diritto di esprimersi su questioni che concernono l’organizzazione della società.

sabato 28 ottobre 2017

"Riflessioni" 3.0 - Stefano Garroni

Da:  https://www.facebook.com/notes/mirko-bertasi  -  Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/riflessioni-stefano-garroni.html
                      https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/10/riflessioni-20-stefano-garroni-2001.html


Esperienza ed Hegel

La dialettica nasce anche dal fatto che l’esperienza che abbiamo del reale, è contraddittoria e non si colloca in modo ben definito nel nostro pensare: dunque, ha bisogno di essere riplasmata in modo tale da essere assimilabile dal pensiero, “deve dunque esprimersi nella struttura della forma di pensiero” . (Qui, fai riferimento a Leibniz verità di fede e di ragione, ma anche al problema della tassonomia).

Questo sta a dire che, immediatamente, il reale è una gamma di possibilità, e che il passaggio da possibile a reale implica una ‘razionalizzazione’ del reale –la quale non ha una sola forma.

Questo pensare –o riplasmare l’esperienza- fa sì che il soggetto –ovvero, il pensante- si scopra nell’unità e nella differenza con tutta la realtà, che lo circonda.
Conoscere implica socializzare, cioè riconoscersi come un riannodo di rapporti con cose e persone. Ma significa, anche, che esistono forme di rapporti con l’uomo e la natura, che favoriscono oppure immiseriscono questo processo di socializzazione.

Da quanto detto non risulta ancora la differenza tra dialettica materialistica e/o idealistica.

Hegel ha chiaramente elaborato la struttura speculativa fondamentale della dialettica, ovvero l’unità delle differenze.
La dialettica va riconosciuta come essere, che è l’altro dallo spirito, in quanto realtà prodotta dallo spirito stesso.
La ragione è coscienza, che lo spirito ha di essere ogni realtà: è per questo che ogni problema immanente di questa costruzione dialettica giunge, alla fine, ad un felice compimento. Lo spirito muta mano a mano l’altro di se stesso nella realtà di se stesso.

Ciò che, all’inizio della Fenomenologia dello Spirito è solo presupposto –lo spirito è la realtà-, alla fine del movimento del pensiero dialettico , si rivela come realtà pensata dello spirito, perché l’esistenza  dell’uomo, interamente esteriore e sviluppatasi storicamente nel pensiero, diviene la realtà autocosciente.
L’hegeliana Fenomenologia dello Spirito descrive il processo dell’esperienza, in cui il pensiero muta la realtà estranea nella realtà propria, spirituale. Il suo scopo è rendere la realtà trasparente allo spirito.

L’esperienza è lo svilupparsi delle relazioni soggetto/oggetto.

La metafisica sostanziale di una volta, la quale pretende pensare in sé il reale, per poter ragionare senza la mediazione dei presupposti del pensiero. come nasce contro la moderna filosofia della coscienza, che fa del soggetto il fondamento universale e perde di vista la concreta realtà, in  sè determinata.
Hegel sviluppa la verità del rapporto con la realtà con la sua rappresentazione pensante, che egli chiama esperienza e che si sviluppa sia storicamente che individualmente.

martedì 24 ottobre 2017

La protestantizzazione dell’America Latina e la penetrazione del pentecostalismo - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it  -  alessandraciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/le-scienze-sociali-e-lantropologia.html

La religione come strumento di lotta per conquistare l’egemonia. 


Questo breve intervento contiene gli aspetti più importanti dell’ultima lezione (la quarta) del corso “Storia religiosa dell’America Latina” da me tenuto per l’Università popolare Antonio Gramsci. Gli altri articoli relativi alle tre lezioni precedenti sono già usciti sul nostro giornale (vedi ultimo).
Vorrei cominciare una garbata nota polemica: in genere i marxisti quando parlano di paesi periferici o di Terzo Mondo si soffermano in profondità sugli aspetti economico-sociali dei contesti esaminati, mettendo da parte la dimensione ideologica o tutt’al più riconducendola alla cosiddetta teoria del riflesso, che presenta molte problematicità, che magari cercherò di approfondire in un’altra occasione. Invece, soprattutto oggi che risulta sempre più evidente come le condizioni oggettive per una protesta organizzata ci siano corposamente tutte, l’importanza del fattore ideologico diventa sempre più determinante e mostra che senza la presa di coscienza niente si muove. Né, d’altra parte – come sosteneva Eric Hobsbawm – le condizioni miserrime di esistenza sono sempre in grado di accendere la scintilla della messa in discussione dell’ordine esistente, giacché da esse spesso si sprigionano rassegnazione, passività, abbrutimento.
Tale importanza della dimensione ideologica, in particolare nella sua forma religiosa [1], emerge se si indaga la storia religiosa dell’America segnata dalla forte collaborazione tra Corona e Chiesa nel processo che abbiamo definito di colono-evangelizzazione.
Chiusa la fase coloniale, che si fa coincidere con il termine delle guerre di indipendenza dalla Spagna (1824) [2], gli Stati che si costituirono in realtà non furono mai completamente autonomi, giacché molti mantennero legami privilegiati con l’antica metropoli o entrarono nella sfera di influenza della Gran Bretagna, che aveva sostenuto la liberazione dal giogo coloniale perché interessata a commerciare liberamente con il nuovo mondo.

lunedì 23 ottobre 2017

Ho Chi Minh (1890-1969) - Walden Bello

Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com   Voce scritta da Walden Bello per The Palgrave Encyclpedia of Imperialism and Anti-Imperialism. 
Walden Bello è attualmente membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine, in rappresentanza di Akbayan (Partito d’azione dei cittadini). Oltre all’attività politica, è Visiting Professor alla St Mary’s University di Halifax, Canada, e Adjunct Professor alla State University di New York a Binghamton.


Una panoramica


Ho Chi Minh – conosciuto anche come Nguyen Sinh Cung, Nguyen Tat Thanh e Nguyen Ai Quoc – è stato la figura centrale della lotta vietnamita per la liberazione nazionale nel XX secolo. Nacque nella provincia di Nghe An, Vietnam centrale, il 19 maggio 1890. Il padre, che era riuscito a superare gli esami per accedere al mandarinato dopo tre tentativi, ma aveva perso l’opportunità di divenire un burocrate reale, gli aveva insegnato la scrittura cinese. Costretto ad interrompere la sua istruzione formale in quanto accusato di aver preso parte ad uno sciopero di contadini, Ho firmò per imbarcarsi come cuoco e tuttofare in una nave francese, lasciando il Vietnam nel 1911. Ciò gli consentì di visitare, nel corso degli anni successivi, New York, Londra, Parigi, l’Algeria, la Tunisia e il Senegal. Il suo primo significativo atto politico consistette nel presentare la “Petizione della nazione annamita” alla conferenza di versailles, nel 1919. Ma sulla base di quanto da lui steso riferito, l’evento trasformativo della sua vita ebbe luogo nel 1920, quando venne a contatto con le “Tesi sulle questioni nazionale e coloniale” di Lenin. Col che ebbe inizio una rimarchevole carriera nel movimento comunista internazionale. Egli fu tra i fondatori del Partito comunista francese, e operò in diversi paesi, particolarmente in Cina, quale agente della Terza internazionale, fondata al fine di assistere le lotte rivoluzionarie a livello globale. 

Nel 1930 presiedeva, ad Hong Kong, la conferenza che avrebbe portato all’unificazione delle varie organizzazioni comuniste vietnamite. Seguirono alcuni anni durante i quali si trovò messo da parte e assegnato a Mosca, probabilmente a causa di divergenze circa la cosiddetta linea del “Terzo periodo”, allora prevalente nell’Internazionale, in base alla quale veniva posta eguale enfasi sull’opposizione all’imperialismo e sullo svolgimento della lotta di classe interna. Una tendenza che secondo Ho, a quanto pare, minava la creazione di un ampio fronte nazionalista, necessario per abbattere il dominio coloniale francese.

Col fascismo in ascesa in Europa, l’Internazionale comunista abbandonò la linea del Terzo periodo a favore di una strategia basata sulla formazione di un ampio “Fronte popolare”. Questi sviluppi aprirono la strada al ritorno di Ho in Asia, nel 1939, e nel 1941 in Vietnam, dove presiedette l’ottavo congresso del Partito comunista indocinese, obiettivo del quale era la creazione di un largo fronte unito contro l’imperialismo e il fascismo. Da questo momento in poi la sua guida della rivoluzione sarebbe stata indiscussa.

Nell’agosto del 1945, Il Partito comunista lanciava un’insurrezione generale al fine di prendere il potere, ed il 2 settembre Ho leggeva in piazza Ba Dinh, ad Hanoi, la Dichiarazione d’indipendenza dal dominio coloniale francese. Il leader vietnamita cercò di negoziare un ritiro pacifico della Francia, ma una volta fallito questo tentativo condusse una lotta, protrattasi per nove anni, che culminò nella catastrofica disfatta francese di Dien Bien Puh, nel 1954. Quello stesso anno, alla Conferenza di Ginevra, il Vietnam veniva temporaneamente suddiviso in due zone, le quali avrebbero dovuto riunirsi, due anni dopo, a seguito di elezioni nazionali, che ci si aspettava Ho avrebbe vinto agevolmente.

Quando gli statunitensi fecero marcia indietro sull’accordo, installando un governo del Vietnam del sud, ebbero inizio altri 20 anni di guerra, che ebbero fine nel 1975 con la completa sconfitta di Washington. Ho, tuttavia, non visse abbastanza da vedere la vittoria finale e l’unificazione del paese, scomparve infatti il 2 settembre del 1969. Ma la sua fiducia nella futura riunificazione del Vietnam non vacillò mai. Una sicurezza colta da una dichiarazione del 1966, rilasciata nel momento in cui gli USA intensificavano i bombardamenti, preparandosi ad inviare ancora più truppe in Vietnam: “Gli imperialisti USA possono mandare in questo paese 500.000 truppe, e anche di più… La guerra può continuare per cinque, dieci, vent’anni e ancora oltre. Hanoi, Haiphong ed altre città possono essere distrutte. Ma il popolo vietnamita non è in alcun modo intimorito! Niente è più prezioso dell’indipendenza e della libertà. Quando il giorno della vittoria sarà arrivato, ricostruiremo il nostro paese, rendendolo ancora più bello e magnifico” (citato in Vo Nguyen Giap 2011: 42). 

domenica 22 ottobre 2017

Dialettica e contraddizione in Hegel - Massimiliano Biscuso

Da:   AccademiaIISF    MASSIMILIANO-BISCUSO è docente di filosofia.

Testi relativi alla lezione:  http://www.iisf.it/pdfsito/pdncedialettica3.pdf

III° Lezione - Dialettica e contraddizione in Hegel:


I° Lezione - Identità e contraddizione in Parmenide e Platone:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/10/identita-e-contraddizione-in-parmenide.html

II° Lezione - Il principio di non contraddizione in Aristotele:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/10/il-principio-di-non-contraddizione-in.html

venerdì 20 ottobre 2017

L'esaurimento dell'attuale fase storica del capitalismo*- Guglielmo Carchedi**

*Da:  http://www.antiper.org    https://www.sinistrainrete.info **Guglielmo Carchedi is Senior Researcher in the Department of Economics and Econometrics at the University of Amsterdam. 
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/03/la-caduta-tendenziale-del-saggio-del.html 


Una tesi fondamentale per la teoria della storia e della rivoluzione di Marx è che “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso” (Per la Critica dell’economia politica, prefazione). 
Ora, se il marxismo è una scienza, ciò deve essere verificato empiricamente. Ma questa verifica è importante anche per un altro motivo. Come dice Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. (Quaderni del carcere , «Ondata di materialismo» e «crisi di autorità», volume I, quaderno 3, p. 311, scritto intorno al 1930). La verifica empirica ci permette anche di capire perché e soprattutto come il vecchio muore.

Nella fase storica attuale – e cioè dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi – il capitalismo incontra un limite sempre più insormontabile a causa della contraddizione tra la crescita della forza produttiva del lavoro da una parte e il rapporto di produzione, quello tra lavoro e capitale, dall’altra. Questa contraddizione si sta facendo sempre più dirompete e il capitalismo sta esaurendo le sue capacità di svilupparsi nel contesto di questa fase storica. La forma concreta presa da questa contraddizione, da questa sua crescente incapacità di svilupparsi, sono le crisi sempre più violente.

Il punto chiave è il tasso di profitto, l’indice fondamentale dello stato di salute dell’economia capitalista. Nell’ambito di una nazione o di un gruppo di nazioni, quello che conta è il tasso medio di profitto. Consideriamo prima il tasso medio di profitto degli Stati Uniti, la nazione che è ancora di gran lunga la più importante. I dati statistici dimostrano che il tasso di profitto degli Usa è in uno stato di caduta irreversibile. La caduta è tendenziale, cioè attraverso cicli economici ascendenti e discendenti. Tuttavia il trend è chiaramente discendente. 

mercoledì 18 ottobre 2017

L'dea di filosofia pratica dall'antichità ad oggi*- Enrico Berti**

*Da:  Rosmini TV - Philosophical Channel    
**Enrico_Berti è un filosofo italiano, professore emerito di storia della filosofia, presidente onorario dell'Istituto internazionale di filosofia.

lunedì 16 ottobre 2017

Semiotica e Moneta*- Carlo Sini**

*Da:   https://zeroconsensus.wordpress.com/  Fonte: Nòema (https://riviste.unimi.it/index.php/noema/index)
**Carlo_Sini è un filosofo italiano. Laureatosi con Enzo Paci. È membro dell’Accademia dei Lincei e dell’Institut International de Philosophie di Parigi.
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/luomo-e-il-denaro-carlo-sini.html#more


In una celebre pagina della Ricchezza delle nazioni Adam Smith si chiede se la tendenza umana a trafficare, a barattare, a scambiare una cosa con un’altra non sia se non la conseguenza della facoltà della ragione e della parola. Vi sarebbe dunque un nesso profondo tra economia e linguaggio, denaro e parola, e in effetti denaro e linguaggio sono due sistemi di segni che caratterizzano in modo eminente l’umano. Uno scambio semiotico come questo non ha riscontro nel mondo animale, se non per cenni embrionali in ogni senso incomparabili.

Che cosa è segno ricordiamolo qui in forma molto sintetica: segno, diceva Peirce, è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro; quindi è qualcosa che rappresenta qualcos’altro sulla base dell’uso sociale, ovvero delle risposte comuni. Stando «al posto di», il segno favorisce dunque lo scambio, fornisce una cosa per un’altra o che vale come rappresentante di quell’altra, e ciò fondamentalmente in vista dello scambio di beni e di informazioni. Cioè del possesso di qualcosa e dell’acquisto di conoscenze. È interessante osservare che beni e informazioni si possono scambiare le parti; infatti anche il possesso di un bene informa: se vado in giro su una Ferrari, implicitamente informo che non sono un poveraccio. Se invece so come vanno le cose in luoghi difficilmente accessibili ma per me significativi, è evidente che il possesso di queste informazioni riveste per me la natura di un bene.

Chiediamoci ora quale sia rispettivamente il valore di un’informazione e il valore di uno scambio di beni. Nel primo caso, evidentemente, è che l’informazione sia corretta. Che cosa si debba intendere con il termine ‘correttezza’ non va appiattito, come spesso si fa, sulla base esclusiva delle teorie della informatica novecentesca, teorie che spesso hanno la ridicola pretesa di ridurre alle loro categorie analitiche ogni sorta di messaggio, come chiedersi per esempio quante informazioni contiene la Divina commedia. Le profezie della Sibilla prevedono una loro correttezza di formulazione e d’uso e così i criteri per l’infallibilità del papa o il significato di verità della statistica sociale.

Quanto al valore dello scambio di beni, credo che il criterio sia, in questo caso, che lo scambio sia equo. Ovvero produttivo per entrambi i contraenti, i quali devono altresì essere completamente liberi di addivenire allo scambio oppure no. Il senso di questa «libertà» è peraltro complesso e non facilmente determinabile. Esso non si identifica affatto con l’ottimismo liberistico che lo assegna senz’altro al desiderio soggettivo di aderire allo scambio. Se vi è disparità sul piano del bisogno, nel senso che un contraente può fare a meno senza danno dello scambio in questione e l’altro contraente invece no (è molto spesso il caso del mercato del lavoro), allora lo scambio non è socialmente equo. Così pure, se l’offerta è rivolta a persona ignorante o sprovveduta (per esempio un contraente conosce bene il valore dello scambio in questione e trae profitto dalla totale ignoranza dell’altro contraente circa il valore dei beni comparati), di nuovo lo scambio non è moralmente equo.

domenica 15 ottobre 2017

Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento*- Carla Maria Fabiani**

*Riccardo Bellofiore (a cura di): Da Marx a Marx? Manifestolibri, Roma 2007.  Da:  http://www.recensionifilosofiche.it  **Maria_Fabiani (Università del Salento)
Leggi anche: Bellofiore  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/da-marx-marx-un-bilancio-dei-marxismi.html
                      Corradi  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/panzieri-tronti-negri-le-diverse.html
                      Rieser  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/05/riflessioni-senili-ruota-libera-su.html
Vedi anche:   Finelli  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/i-marxismi-in-italia-roberto-finelli.html
                      Fineschi  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/marx-hegel-ed-il-metodo-note.html

     Il volume nasce come raccolta degli atti di un convegno organizzato da Riccardo Bellofiore presso l’Università di Bergamo (Facoltà di Economia) in occasione dell’uscita, sempre per la Manifestolibri, del volume di Cristina Corradi dal titolo Storia dei marxismi in Italia. Allora, è bene innanzitutto riportare le tesi sintetiche che Corradi espone in questa raccolta alle pagine 9-31. 

  1. Rapporto teoria e prassi. I protagonisti italiani di questo intricato rapporto sono innanzitutto Antonio Labriola e poi Antonio Gramsci. Se il primo incentra la sua lettura di Marx sulla nozione di “materialismo storico”, il secondo restituisce una originale lettura delle Tesi su Feuerbach “da cui ha ricavato una filosofia della prassi intesa come produzione di soggettività politica”. Subentrano nel secondo dopoguerra, lo storicismo marxista e lo scientismo dellavolpiano. L’operaismo degli anni ’60 sgancia il marxismo dall’idealismo tedesco, dal socialismo francese e dall’economia politica inglese, proponendo “la tesi politica della potenza antagonistica della classe operaia”. La crisi del marxismo degli anni ’70 si manifesta nell’abbandono del paradigma della critica dell’economia politica, relegando la lettura marxiana del capitalismo all’Ottocento.
  2. L’emblematica vicenda di Luporini. Negli anni ’60, Cesare Luporini rilegge Marx alla luce di Althusser, sganciandolo da Hegel e da Feuerbach. Nei successivi anni ’70, propone una lettura più attenta della prima sezione del Capitale, sottolineando poi la rilevanza del contesto mondiale in cui si inserisce il rapporto di produzione capitalistico, da tenere costantemente assieme con il problema dell’egemonia.
  3. Fallimento teorico del marxismo degli anni ’70 ovvero l’eclettismo filosofico marxista. Alla fine degli anni ’60, Lucio Colletti, critico di Della Volpe, sembra ispirare la ricerca, in campo marxista, di un’alternativa allo storicismo e al dellavolpismo. Nella seconda metà degli anni Settanta, tale linea viene però abbandonata da Colletti, a favore di una riscoperta di Gramsci, atta a legittimare le vicende politiche del compromesso storico. Con l’operaismo di Tronti e l’autonomia operaia di un Negri, si tenta un rovesciamento della critica dell’economia politica in critica dello Stato. Con Massimo Cacciari si propone la cosiddetta autonomia del politico, sostanzialmente liberata da lacci e lacciuoli della critica economico-politica. Marx, Nietzsche e Heidegger vengono tenuti insieme per criticare storicismo e umanismo, considerando definitivo l’approdo del capitalismo nella tecnica, senza più alcun richiamo al valore. Viene altresì dipinta con toni tragico-melanconici la politica di sinistra, che spazia dal “pensiero della differenza” fino al “pensiero del negativo” che ripiega, negli anni ’80, “su un concetto di politica limitata e infondata, che rinuncia alla rappresentazione di soggettività sociali e a qualsiasi idea di bene comune per affidare un debole messaggio messianico a figure angeliche.” Contestualmente, il binomio Keynes-Sraffa non perviene a una critica compiuta nei confronti dell’economia neoclassica, dove salario e profitto sono semplicemente considerati prezzi di fattori produttivi relativamente scarsi.

sabato 14 ottobre 2017

Per la rinascita del marxismo in Occidente. L’analisi di Domenico Losurdo*- Aldo Trotta

*Da:  http://www.marx21.it 

Manca ormai da tempo un dibattito teorico-politico sullo stato di salute e sulle prospettive del marxismo in Italia e non solo. Un dibattito tanto più necessario e urgente a fronte di una sinistra residuale che, dopo più di un quarto di secolo di abiure e di congedi dalla propria storia, continua ad annaspare nelle sabbie mobili di un “nuovismo” esasperato ed esasperante, alla ricerca affannosa e inconcludente di “nuovi” orizzonti teorici, di “nuovi” linguaggi, di “nuove” forme e pratiche politiche, di “nuove” identità, e via declinando. L’ultimo volume di Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì e come può rinascere, può senza dubbio fornire un contributo prezioso per provare a rianimare una discussione che vada oltre le pur importanti contingenze politiche. Pubblicato da poco per i tipi della Laterza, il testo si presenta nel panorama editoriale nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, in una fase storica in cui sullo scenario internazionale piovono bombe come fossero coriandoli, i focolai di crisi aumentano e i rischi di una conflagrazione bellica su ampia scala si addensano sempre più pericolosamente all’orizzonte, nella preoccupante assenza di un movimento pacifista in grado di far sentire preventivamente la sua voce prima che l’incendio divampi.

Agosto 1914 e ottobre 1917: marxismo occidentale e marxismo orientale

Dalla prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione d’Ottobre, atti di nascita rispettivamente del marxismo occidentale e di quello orientale, prende le mosse la ricostruzione storico-filosofica che l’autore compie analizzando ragioni oggettive, aspetti culturali e questioni di natura teorica che fin dagli inizi hanno portato i due marxismi a intraprendere strade diverse. La denuncia della guerra e la lotta contro l’utilizzo delle masse popolari come carne da macello da inviare nelle trincee sono i temi prioritari che spiegano l’origine e lo sviluppo del marxismo ad Ovest. Più che lodevoli, questi motivi si intrecciavano però con una diffusa incomprensione della questione coloniale, con toni di carattere anarcoide – dalla demonizzazione dello Stato ad una generale sfiducia nei confronti della scienza e della tecnica – e ancor più con aspettative di redenzione del mondo, le cui radici Losurdo colloca nel messianismo della tradizione ebraico-cristiana. Comprensibili dinanzi alle devastazioni della guerra, le attese di palingenesi sociale e l’impronta messianica erano purtroppo destinate ad avere una lunga durata nell’ambito del marxismo occidentale.

Motivi e speranze utopiche si avvertivano anche in Russia e nel gruppo dirigente bolscevico, prima, durante e dopo la Rivoluzione d’Ottobre: diffusa era la convinzione della imminente sconfitta del capitalismo e del trionfo dell’internazionalismo proletario, da cui sarebbe scaturito un mondo liberato per sempre dal flagello della guerra e della miseria. E tuttavia, le incalzanti esigenze di gestione amministrativa del potere e forse anche il ricordo della tragica fine cui erano andati incontro pochi decenni prima i comunardi di Parigi, comportavano tempestivamente il dissolversi delle illusioni. Si innescava così un «processo di apprendimento» che consentiva a quasi tutto il gruppo dirigente bolscevico di acquisire la consapevolezza che la rivoluzione mondiale non era lì dietro l’angolo, che il progetto di costruzione di un nuovo ordine economico-sociale era questione complessa e di lunga durata. E che di tale progetto era parte essenziale la lotta per la liberazione dei popoli colonizzati. Ciò spiega l’appello di Lenin agli schiavi delle colonie a spezzare le catene della loro plurisecolare oppressione, appello da cui traevano linfa vitale le speranze di libertà dei popoli soggiogati dal colonialismo/imperialismo e lo sviluppo del marxismo orientale. Quest’ultimo, consapevole che da parte del movimento comunista occidentale c’era una sostanziale sottovalutazione delle terribili condizioni in cui versavano paesi e popoli oppressi, fin dalla sua prima formazione assumeva un carattere più realistico, rimanendo con il trascorrere del tempo pressoché immune agli slanci astrattamente utopistici propri del marxismo occidentale.

giovedì 12 ottobre 2017

Goodbye Lenin?*- Susanna Bhome-Kuby

*da Ossietzky 15/2017, scritto da SUSANNA BÖHME-KUBYtrauzione dal tedesco di Giuliana Mandara  



 "Economia della rivoluzione" di Vladimiro Giacché raccoglie gli scritti economici dal 1917 al 1923 del leader della Rivoluzione d'Ottobre. Una lettura che apre interessanti visuali sul nostro mondo di oggi. 


Quasi niente è sembrato essere meno attuale in questa infuocata estate italiana dei testi di Lenin sulla rivoluzione, ormai centenari. Eppure, credo, dal saggio di ben 520 pagine che Vladimiro Giacché ha recentemente pubblicato (“Economia della rivoluzione”, Il Saggiatore), raccogliendo gli scritti economici di Lenin dal 1917 al 1923, si aprono interessanti visuali sul nostro mondo di oggi. Ciò potrebbe sorprendere alcuni, poiché, con la fine dell`Unione Sovietica, il suo fondatore e i suoi pensieri sono in gran parte scomparsi nell’oblio. L’implosione dell’ex-economia sovietica e la selvaggia degenerazione far west che la seguì immediatamente sono considerati dai più come fase già prevista nel contesto della vittoria globale del capitalismo – una semplificazione che manca di qualsiasi complessità storica.

Dopo quasi tre decenni la demonizzazione anti-sovietica continua e anche nelle prossime settimane potremo leggere qualcosa di simile al riguardo in più di un commento, a meno ché non si preferisca sottacere del tutto l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. E perché mai, quando di “cambio di sistema” non si parla più da tempo? O la storia non è ancora giunta alla sua “fine”?

Nell’intensificarsi della lotta globale delle potenze in campo per la spartizione delle risorse ancora restanti, il benessere della maggioranza dell`umanità è definitivamente scomparso dall`orizzonte. La minoranza che ancora possiede qualcosa si tiene stretti i suoi beni – con tutte le conseguenze sgradevoli che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi, almeno se vogliamo percepirli.

Dieci anni dopo l’esplosione della crisi economica mondiale nel 2007/8 persiste ancora la fase di depressione e le maggiori potenze non possiedono strumenti efficaci per superarla. Il mercato è stato in grado di recuperare parte dei profitti a scapito dei paesi più deboli (nell’UE, per esempio, la Germania a spese dell’Europa meridionale) soltanto con l`utilizzo massiccio di fondi pubblici per salvare le banche e l’intero sistema finanziario. Sul capitale finanziario vero e proprio tuttavia non è stata imposta restrizione alcuna.

mercoledì 11 ottobre 2017

Democrazia e momento populista: dall'America Latina all'Europa*- Carlo Formenti**


In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel novembre del 2016 il direttore del “Wall Street Journal”, Gerard Baker ha detto che, in futuro, lo scontro politico non sarà più fra progressisti e conservatori, ma fra globalisti e populisti. Riletta oggi, l’affermazione suona come una dichiarazione di guerra. Eventi come la Brexit, l’elezione di Trump, la disfatta di Renzi nel referendum sulle riforme costituzionali, e le preoccupazioni suscitate dall’ascesa di leader politici come Tsipras (prima della resa ai diktat della Troika), Bernie Sanders, James Corbyn, Pablo Iglesias, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen , hanno fatto sì che si costituisse un poderoso fronte mondiale antipopulista. I media hanno orchestrato una massiccia campagna propagandistica in sostegno dei governi guidati dalle forze politiche tradizionali (conservatori, liberali e socialdemocratici), invitandole a coalizzarsi contro la minaccia di forze genericamente definite populiste – senza distinguere fra le radicali differenze reciproche - in quanto sovraniste, protezioniste, stataliste e antiglobaliste, contrarie cioè alla libera circolazione di merci e capitali e dunque nemiche del sistema democratico, identificato tout court con il mercato. La sostanziale adesione delle sinistre europee – non di rado anche le radicali – a questo appello antipopulista delle élite politiche ed economiche liberiste e dei media mainstream, introduce uno dei temi di fondo che intendo affrontare: l’appello ha funzionato perché le sinistre considerano il sovranismo come un’ideologia ancora più pericolosa del neoliberismo. Prima di esaminare questo atteggiamento, occorre però decostruire il senso del termine populismo.
La narrazione mainstream presenta il populismo come una visione del mondo unitaria, che si contrappone a quella liberista allo stesso modo in cui vi si contrapponeva il comunismo. Questa tesi è insostenibile ove si consideri il fatto che non esiste un corpus di testi fondativi che definiscano principi, valori e obiettivi di questa presunta “ideologia”. Se passiamo poi alla descrizione “scientifica” del fenomeno, vediamo come essa si basi su un elenco di caratteristiche - iperpersonalizzazione della figura del leader, legame diretto fra leader e masse, nazionalismo, linguaggio semplificato, statalismo, interclassismo, polarizzazione fra popolo ed élite, polemica anticasta (contro politici di professione, accademici, finanzieri ecc.), atteggiamento anti istituzionale - compilato negli anni Sessanta del secolo scorso sulla base dell’osservazione dei regimi latinoamericani della metà del Novecento. Si tratta di un elenco di scarso valore euristico ove si consideri che alcune di tali caratteristiche sono tipiche di tutti i movimenti allo stato nascente mentre svaniscono quando essi raggiungono la maturità, e che esse possono essere ricombinate in modi diversi dando origine a regimi altrettanto diversi. Se poi ci si riferisce allo stile populista [1] come tecnica di comunicazione politica, è evidente che si tratta di una modalità adottata da tutti i partiti in quest’epoca caratterizzata dalla mediatizzazione, spettacolarizzazione e personalizzazione della politica. E dunque? La mia risposta è che, per comprendere il fenomeno populista, occorre comprenderne la natura di rivolta (spesso prepolitica) delle masse popolari nei confronti della “guerra di classe dall’alto” [2] iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso. Dietro al termine populismo si cela un insieme articolato e complesso di fenomeni che potremmo definire la forma che la lotta di classe assume nell’era neoliberista.

lunedì 9 ottobre 2017

La colonizzazione globale: le false unità e le false identità nelle ideologie dell’impero*- Edoarda Masi**



*Da:  http://www.ospiteingrato.unisi.it 

 **Edoarda_Masi è stata una saggista italiana, specializzata nella cultura della Cina e nella lingua cinese.


Il significato dei nomi cambia perché nel dipanarsi della storia cambiano i concetti che essi designano. Nello stesso tempo, le costruzioni mentali collettive durano in sostrati profondi, al di sotto delle mutazioni, e nella coscienza comune i nuovi significati contengono in qualche misura quelli apparentemente cancellati, anche i più antichi. Da questo derivano anche mistificazioni ideologiche, dove appare uniforme quello che è differente, e viceversa. Allora l’esistenza dei sostrati profondi da ricchezza può trasformarsi in contributo alla confusione delle menti. Perfino chi combatte le attuali forme di dominio è a volte in qualche misura partecipe inconscio delle ideologie che le sostengono, qualora (per usare l’immagine di Salman Rushdie) si trovi dentro il ventre della balena. 

Come rimedio (di forte valore teorico se pure di scarso risultato pratico) agli equivoci che emergono col mutare dei concetti e delle definizioni, fin dalla remota antichità si è fatto appello alla “verifica dei nomi” – per dirla in termini confuciani. 

Nomi antichi, che più volte hanno mutato significato nel corso del tempo, sono quelli di colonia, colonizzazione, impero; più recente (ma attribuito anche a vicende antiche) quello di imperialismo. 

Ogni civiltà (al limite, ogni individuo) pone se stessa al centro del mondo, e di sé fa misura di ogni cosa. Quando il cerchio ristretto si allarga in un grande spazio unitario che include luoghi e popoli lontani – in impero, nell’accezione generica del termine – i nuovi soggetti dominati appaiono dapprima alieni, diversi; giacché dal luogo centrale si riesce ad assoggettarli, in qualche modo inferiori. La dimensione che si vuole universale si nutre del localismo che ignora altrui. Da Atene a Roma alla Cina a Venezia. Chi non parla greco è barbaro, non conosce la lingua. (Alcuni montanari spagnoli emarginati isolati dal resto del mondo, di cui racconta Costancia de la Mora, incontrati certi turisti di lingua inglese li accolsero come gente incapace di parlare.) 

domenica 8 ottobre 2017

FASCISMO* - Errico Malatesta**

*Da:  http://bentornatabandierarossa.blogspot.it  **Errico_Malatesta è stato tra i principali teorici del movimento anarchico.



L’anarchico campano (1853-1932) fu uno dei pochi, sia in campo rivoluzionario che in campo riformista, a comprendere la vera essenza del fenomeno autoritario in atto. 


A coronamento di una lunga serie di delitti, il fascismo si è infine insediato al governo.
E Mussolini, il duce, tanto per distinguersi, ha cominciato col trattare i deputati al parlamento come un padrone insolente tratterebbe dei servi stupidi e pigri.
Il parlamento, quello che doveva essere “il palladio della libertà”, ha dato la sua misura.

Questo ci lascia perfettamente indifferenti. Tra un gradasso che vitupera e minaccia, perché si sente al sicuro, ed una accolita di vili che pare si delizi nella sua abiezione, noi non abbiamo da scegliere. Constatiamo soltanto – e non senza vergogna – quale specie di gente è quella che ci domina ed al cui giogo non riusciamo a sottrarci.

Ma qual è il significato, quale la portata, quale il risultato probabile di questo nuovo modo di arrivare al potere in nome ed in servizio del re, violando la costituzione che il re aveva giurato di rispettare e di difendere?

A parte le pose che vorrebbero parere napoleoniche e non sono invece che pose da operetta, quando non sono atti da capobrigante, noi crediamo che in fondo non vi sarà nulla di cambiato, salvo per un certo tempo una maggiore pressione poliziesca contro i sovversivi e contro i lavoratori. Una nuova edizione di Crispi e di Pelloux è sempre la vecchia storia del brigante che diventa gendarme!

sabato 7 ottobre 2017

"Democrazia" e Dittatura*- Vladimir Lenin (1918)

*Da:   https://www.marxists.org   Scritto a Mosca il 23 dicembre 1918. Pubblicato sulla Pravda n°2 del 3 gennaio 1919
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/03/democrazia-borghese-e-democrazia.html



I pochi numeri della berlinese Die Rote Fahne e del viennese Der Veckruf, organo del Partito comunista dell'Austria tedesca, pervenuti a Mosca, ci mostrano che i veri rappresentanti dei proletari rivoluzionari di Germania e d'Austria dànno la risposta che si meritano ai traditori del socialismo, che hanno sostenuto la guerra dei predoni imperialisti, a tutti questi Scheidemann, Ebert, Austerlitz e Renner. Salutiamo calorosamente questi due organi di stampa. 


Oggi la questione principale della rivoluzione, sia in Germania che in Austria, è senza dubbio la seguente: Assemblea costituente o potere dei Soviet? Tutti i rappresentanti della fallita II Internazionale, da Scheidemann a Kautsky, sono favorevoli all'Assemblea costituente e affermano che il loro punto di vista è una difesa della "democrazia" (Kautsky è persino arrivato a parlare di "democrazia pura"), in opposizione alla dittatura. Ho analizzato ampiamente le posizioni di Kautsky in un opuscolo apparso recentemente a Mosca e a Pietrogrado: La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Tenterò qui di esporre concisamente la sostanza della questione controversa, che si pone oggi praticamente all'ordine del giorno in tutti i paesi capitalistici progrediti. 

venerdì 6 ottobre 2017

"Riflessioni" 2.0 - Stefano Garroni (2001)

Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/riflessioni-stefano-garroni.html



[...] Ma c’è un’altra mistificazione, io credo: noi siamo francamente bloccati dal fallimento del campo socialista. È crollata l’URSS, è questo che ci rende profondamente incerti: dentro di noi non sappiamo più che vuol dire esattamente esser comunista. Siamo per la dittatura del proletariato? Siamo per l’economia pianificata? Ma tutte queste cose sono fallite! Ma non è questa la realtà: quello che è fallito realmente è il movimento comunista in occidente. 
È fallito realmente il movimento comunista, nei momenti di capitalismo alto. L’Unione Sovietica ha fatto passi enormi, noi dobbiamo essere grati fino in fondo all’Unione Sovietica, perché – pur operando in situazioni assolutamente contraddittorie con il progetto rivoluzionario – ha dimostrato la fattibilità di certe cose, come per esempio l’economia pianificata ecc. ecc., ma si è mossa in condizioni assolutamente contraddittorie con la realizzabilità effettiva di questi obiettivi. Siamo noi in occidente che non ci siamo mossi, dove avevamo le condizioni più adeguate per poterle fare le cose. 
E voi ricordate che nel ’19 -’20 Lenin dice: “In Italia nessun membro del gruppo dirigente socialista si è dimostrato marxista”. Nessuno. Capite bene che vuol dire quel ‘nessuno’? Voi sapete bene che i compagni che dettero luogo al Partito Comunista d’Italia, quello serio, non quello ML, ma quello vero, che cosa volevano fare? Volevano battere quella merdosa – come loro dicevano – tradizione socialista, del sottogoverno, del compromesso, del prender le cose alla cattolica, cioè non sul serio, dire una cosa e farne un’altra: volevano rompere con questo e creare realmente un partito comunista. Io credo che nella nostra storia, anche il Partito Comunista Italiano è andato a finire con la vecchia merda socialista. 
E credo che noi oggi stiamo ripercorrendo quella vecchia merda, nello stesso momento in cui dimentichiamo un piccolo particolare: se facessimo il nome di qualche grande dirigente comunista, noi avremmo sempre a che fare con persone dalla grande e formidabile preparazione culturale, dalla grande e formidabile dirittura morale, e capacità di sacrificio pratico. Grande e formidabile preparazione culturale. Compagni, ci rendiamo conto … noi conosciamo la realtà – diciamo così – dell’attuale movimento comunista: è coniugabile con cultura? 
Voi capite … i compagni di Rifondazione mi consentano, ma è chiaro che il giornale di un’organizzazione è una sorta di biglietto da visita. Ma l’abbiamo letto qualche volta Liberazione? Come è possibile che un compagno tolleri che quel giornale esista? A quell’infimo livello come è possibile? È possibile solo perché non si comprende più l’importanza centrale della robustezza culturale del movimento comunista, perché non ricordiamo più che Lenin diceva: “Il socialismo non lo fanno i partiti, lo fanno i proletari”. È una cosa enorme, perché vuol dire appunto che quella nuova fase della storia universale che si chiama comunismo, ha da essere fatto dai lavoratori. Questo vuol dire la necessità di un vasto, enorme, processo di elevamento culturale, e ovviamente, prima di tutto, della così detta avanguardia è evidente. 
Ma se dimentichiamo questo, se dimentichiamo il nesso profondo tra lotta per il socialismo ed elevamento della cultura e lotta per l’affermazione dei principi morali contro la degenerazione capitalistica ... compagna Carla è un’altra cosa combattere contro, per esempio, con articoli che difendono i diritti sindacali o combattere contro la droga. 
Io non credo che noi comunisti siamo coniugabili con i drogati: noi non ci battiamo in difesa della droga. Noi ci battiamo per ben altre cose, e contro, fino in fondo, alla droga, e tutte le forme di droga che il sistema capitalistico ci dà, in tutti i modi. E non cadiamo nel trabocchetto di confondere noi con il postmoderno, cioè con la corruzione del capitalismo. 
Avevano ragione i compagni sovietici, ma noi non ci credevamo, quando dicevano: “Attenti, quel tipo di cultura che in occidente viene dato ai giovani, quel tipo di musica, sono forme di corruzione”. È vero, perché la lotta per il comunismo è lotta per una nuova dignità dell’uomo. Allora significa avere una sensibilità morale più evoluta, più sviluppata. Certo non è data né dalla droga, né dall’omosessualità e né da quest’altra robaccia chiamata musica, ma è data da altre faccende. 
Allora, per esempio, è una cosa interessante se non fosse drammaticissima, basta accendere internet per prendere notizie dalla Jugoslavia: voi sapete che non c’è nessuna ricostruzione. Cioè non solo li hanno bombardati, ma la ricostruzione che fanno è impedire che rinascano le fabbriche. Perché è chiaro, come fanno in una crisi economica internazionale? Possono aprire nuovi luoghi di produzione, quando non riescono a vendere neanche quello che già producono? Allora di fatto, non c’è neanche la ricostruzione. [...]

giovedì 5 ottobre 2017

L'ASSASSINIO DELLA STORIA*- John Pilger**

*(Da “https://www.counterpunch.org/”, 22 settembre 2017 l'articolo di Pilger anche sul sito www.luciomanisco.eu)
**John_Pilger è un giornalista australiano.

Uno degli “eventi” più pubblicizzati della televisione americana “La Guerra del Vietnam” ha preso il via sulla “Public Broadcasting System”, registi e conduttori Ken Burns e Lynn Novick. Acclamato per i suoi documentari sulla Guerra Civile, la Grande Depressione e la Storia del Jazz, Burns dice di questi suoi filmati sul Vietnam:”Ispireranno il nostro paese a discutere e pensare sulla guerra del Vietnam da una prospettiva del tutto nuova”.

In una società spesso privata di memoria storica e schiava della propaganda sul suo “eccezionalismo”, la “prospettiva del tutto nuova sulla guerra del Vietnam” viene presentata come “un'opera epica, storica”. L'imponente campagna pubblicitaria elogia la sua principale finanziatrice, la Banca d'America, la cui sede nel 1971 venne incendiata dagli studenti di Santa Barbara in California come simbolo emblematico della detestata guerra del Vietnam. Burns professa la sua gratitudine “all'intera famiglia della Banca d'America” che “da molto tempo sostiene la causa dei reduci di guerra nel nostro paese”. La Banca d'America ha in realtà fornito un sostegno corporativo ad un'invasione che ha provocato la morte di qualcosa come quattro milioni di vietnamiti e devastato ed avvelenato una terra una volta bella. Più di 58.000 i caduti tra i soldati americani e si stima che un numero pressocché uguale                                                                                               di essi si siano suicidati.

Ho visto a New York la prima puntata. Sin dall'inizio non vi lascia alcun dubbio sui suoi intenti. La narrativa esplicita che “la guerra venne varata in buona fede da personaggi onesti sulla base di fatali malintesi, un'esagerata sicumera americana, una generica incomprensione della guerra fredda. La disonestà di queste asserzioni non deve suscitare sorpresa. La cinica fabbricazione di falsi vessilli che portà all'invasione è ormai basata su inoppugnabili documenti. L'”incidente” del Golfo del Tonkino del 1964 – che Burns sostiene sia realmente accaduto - è un esempio indicativo. Le menzogne pullulano in un enorme numero di documenti ufficiali, prime tra tutte le Carte del Pentagono che il grande denunziatore dei misfatti governativi Daniel Ellesberg rese di pubblica ragione nel 1971.

Non c'è mai stata buona fede. La fede è stata sempre marcia e cancerogena. Per me – come dovrebbe essere per molti americani – è molto difficile seguire nel filmato il cumolo di mappe sul “pericolo rosso”, incomprensibili intervistatori, inetti tagli ai materiali di archivio e le disconnesse sequenze dei combattimenti.