1. La mia frequentazione diretta con Alessandro Mazzone è durata quasi venti anni. Con lui ebbi la mia prima lezione universitaria nell’ottobre del 1992, un corso di Filosofia della storia, dove si leggeva la Filosofia del diritto di Hegel. Inutile negare che tutti noi studenti, per lo più al primo o al secondo anno, subimmo il fascino di un professore molto diverso dagli altri che avevamo o avremmo conosciuto. Eravamo probabilmente giovani ed ingenui, ma avevamo la chiara sensazione che, grazie a quelle lezioni, venivamo introdotti nel mondo rarefatto e sofisticato della vera filosofia, vale a dire del pensiero capace di pensare le cose. Non era come negli altri corsi, dove si faceva il conto dei libri per l’esame, tot pagine dal manuale, tot dal seminario, ecc.; delle fotocopie fatte in copisteria senza la bibliografia per risparmiare i soldi. Era una cosa molto diversa. La consapevolezza che stavamo vivendo un’esperienza per molti aspetti unica, ci spinse a tenere duro quando ci spaccavamo la testa sulle sottigliezze concettuali hegeliane; capivamo la differenze fra ripetere a pappagallo le formule trinitarie e comprendere la dialettica intrinseca delle cose nel loro svolgimento. Accettammo di studiare per un solo esame, quanto altri non studiavano nemmeno per la tesi. Si creò in questo modo la comunità dei “mazzoniani”, un gruppo di strani personaggi innamorati della filosofia marx-hegeliana e guidati da quella singolarissima figura che era Alessandro Mazzone. Difficile spiegare l’effetto delle sue lezioni a chi non vi abbia assistito. Era forse la percezione della incredibile profondità del suo sapere ad impressionarci; come la capacità di leggere, parlare e scrivere in cinque o sei lingue (per noi che a stento parlavamo italiano). Ci sembrava, in poche parole, che il sapere stesse personificato di fronte a noi e che noi avessimo la grande occasione di parlare con lui guardandolo negli occhi.
Con Mazzone abbiamo, tutti noi, imparato a studiare; abbiamo capito che senza una solida base non si ha la strumentazione per capire un bel niente; che educazione popolare non significa banalizzare le cose difficili, ma fornire i mezzi per capirle; le scorciatoie purtroppo non esistono. Così siamo cresciuti; abbiamo cercato di imparare le lingue, di leggere i classici, di pensare – pur con tutti i limiti personali – in grande. Questo è il grande insegnamento umano e di metodo che Alessandro Mazzone mi/ci ha dato.
Naturalmente non di solo metodo si tratta. I primi anni novanta erano i momenti tragici del “crollo”. Troppo semplice etichettare come nostalgici veterostalinisti coloro che, “nonostante tutto”, continuavano a studiare Marx. Mazzone appariva a noi un altro tipo di personaggio, vale a dire un esempio di coerenza. Non di acritica ed irrazionale fedeltà alla bandiera, ma di utilizzo di un metodo investigativo e scientifico, per il quale era chiaro che solo con la strumentazione marx-hegeliana si poteva dare conto di ciò era successo, comprenderlo, digerirlo ed impararne, nel bene e nel male, la grande lezione storica.
Si trattava di un terreno spinoso che, per essere affrontato, aveva bisogno non di slogan, ma, di nuovo, di strumentazione scientifica. La cultura e l’attività politica non erano quindi una cosa “pratica” nel senso più banale del termine. Ci appariva molto chiaro come il fare senza il sapere – la cultura dell’immediato si diceva – era il modo migliore per fare altro rispetto a quelle che erano le nostre pur sincere e disinteressate intenzioni; farsi strumentalizzare, fare il gioco del “nemico”. La pratica del sapere, degli educatori che devono essere educati, della prassi che deve essere pensata per non essere mero spontaneismo inconcludente (o “concludente” per altri) erano per noi acquisizioni definitive. Esse permettono di salvarsi tanto dall’attivismo anarcoide, condito in diverse salse, quanto dal disfattismo della sconfitta assoluta, per cui si butta via tutto e si cade nella disperazione, perché la nostra fede non era quella vera. No, Mazzone ci ha insegnato che se si è sbagliato, si cerca di capire che cosa è successo con gli strumenti della ragione.
Altro capitolo dell’insegnamento di metodo, anch’esso decisamente marxiano, è il senso del limite ed un’autocritica spietata. Questo perfezionismo esasperato era dettato da una rigorosa serietà scientifica e dal rispetto per la disciplina filosofica. Ciò suona particolarmente strano oggi, dove il sistema universitario incoraggia la pubblicazione di più o meno qualsiasi cosa, come se la quantità facesse immediatamente la qualità. Mazzone ha pubblicato relativamente poco; i suoi testi però, per chi li abbia letti, sono di una densità sorprendente. Non sono stati scritti per avere una pubblicazione da aggiungere in coda ad altre, ma per tentare di mettere un mattoncino nel grande muro del sapere.
In questo senso sono da ricordare i suoi studi sulla teoria dell’ideologia e sul feticismo del capitale. Di particolare pregio la sua riflessione sulla teoria del modo di produzione su cui dirò qualcosa più in dettaglio in seguito. Ciò che vorrei invece ricordare qui è uno dei grandi meriti, direi quasi “storici”, di Alessandro Mazzone: l’introduzione in Italia degli studi filologici su Marx ed Engels sulla base della nuova edizione storico-critica delle loro opere, la Marx-Engels-Gesamtausgabe. Questa grande opera mette per la prima volta a disposizione degli studiosi un’ingente massa di scritti inediti dei due autori, in particolare concernenti Il capitale ma non solo, che cambiano non semplicemente l’interpretazione, ma la stessa base testuale dell’interpretazione. Non mi dilungo qui sulle novità apportate dal grande progetto e rimando ad un’importante raccolta curata proprio da Sandro; mi preme solo ribadire, a chi non lo ricordasse o non lo sapesse, che a lui va attribuito questo merito e che esiste ed è esistita in Italia una tradizione di studi sulla mega che affonda le sue radici addirittura negli anni settanta. La mega, in Italia, è una novità solo per coloro che non conoscono il passato della ricerca marxiana; questo passato è stato scritto in gran parte da Alessandro Mazzone.
Al di là del rapporto personale che ci ha legati, non posso che riconoscere il profondo debito intellettuale che ho con lui, che va oltre l’insegnamento metodologico e lo sprone al sapere di cui parlavo in precedenza. Tutto quello che ho scritto e fatto nella mia produzione intellettuale è sostanzialmente “mazzoniano”. Tanto nei saggi, quanto nelle edizioni che ho scritto o curato, il solido punto di partenza è quanto mi ha insegnato Sandro. Spero anzi, pur con tutti i limiti delle mie produzioni, di aver fatto circolare alcune delle sue idee più importanti, che ritengo un solido punto fermo nel burrascoso mare del marxismo contemporaneo, in cui si assiste ad un progressivo sfaldamento. Invece di stare in ascolto di tutte le sirene dei sette mari, è forse il caso di ripartire dal grande – ed efficace – patrimonio teorico di cui disponiamo. La riflessione di Alessandro Mazzone di questo solido patrimonio sicuramente fa parte.
2. La riflessione teorica di Alessandro Mazzone degli ultimi venticinque anni si è sviluppata intorno a temi di grande attualità e di vitale importanza per la teoria del Materialismo storico. In essa, egli ha ripreso punti essenziali della migliore traduzione marxista, operando una originale sintesi, il cui valore resisterà al tempo.
a. Processo storico. La nozione chiave intorno alla quale ruota la ricerca di Mazzone, dalla quale poi si dipanano come conseguenza necessaria tutta una serie di complesse categorie secondarie, è quella di processo storico. È fin troppo popolare l’ingenua idea che tutto è storico, ovvero che tutto passa; quello che c’era ieri non c’è più oggi, quello che c’è oggi non ci sarà domani, ecc. Tutti nasciamo, viviamo, moriamo, e via dicendo. Questo è quello che già Luporini chiamava “storicismo invertebrato”, ovvero il susseguirsi di momenti diversi, ma sostanzialmente indefiniti: io non sono per esempio uguale a mia madre, siamo fattualmente diversi, siamo due storie diverse. Nonostante i cambiamenti, tuttavia, non è diverso il rapporto qualitativo per cui il genere umano, almeno per ora, si riproduce così: le mamme generano i figli. Finché i figli nasceranno dalle mamme, figli e mamme individuali saranno diversi, ma il rapporto qualitativo sarà sempre lo stesso. Il cambiare degli individui non implica quindi necessariamente storia vera e propria; singole diversità non implicano necessariamente differenza: ci sono diversi protagonisti della stessa cosa. Allo stesso modo, se in Toscana per settecento anni circa l’agricoltura è stata organizzata in base al sistema della mezzadria, migliaia di contadini si sono avvicendati a zappare la terra, ma la storia complessiva è sempre stata la stessa: settecento anni di mezzadria. Diverse storie individuali della stessa Storia.
Processo storico significa invece elaborare una teoria che cerchi di spiegare come funziona la logica di un determinato periodo nel suo complesso. Allo stesso modo la medicina generale non studia perché io mi sono preso il raffreddore, perché lo prendo più spesso di mia sorella, quali medicine sono più efficaci per farmelo passare perché sono intollerante a questo o quello; studia piuttosto come funziona l’organismo in generale, quindi perché in certe circostanze può non funzionare bene; che cosa si deve fare in generale per risistemarlo se succede qualcosa. Non il mio organismo, ma l’organismo, non la mia influenza, ma la patologia, ecc. Allo stesso modo è diverso studiare la mezzadria in Toscana e le modalità di funzionamento del sistema mezzadrile (che poi in Toscana avranno avuto una loro particolare attuazione); similmente è diverso studiare il capitalismo inglese dell’ottocento, oppure italiano, oppure contemporaneo, e cercare invece di sviluppare una teoria che cerchi di spiegare quali sono in generale le regole di funzionamento del capitalismo (che poi sarà più specificamente coniugato in realtà storiche e geografiche particolari).
Quindi, pensare il processo storico non significa semplicemente tener conto del cambiamento dei singoli momenti; significa piuttosto trovare le leggi per cui possiamo dire che un determinato periodo è identificabile come qualcosa di unitario e ricostruire la logica per cui questo qualcosa di unitario non è immobile e stazionario, ma ha delle tendenze per cui si modifica internamente e determina uno sviluppo che, ad un certo punto, può culminare in un cambiamento qualitativo. Qui cambiamento significa che quello che verrà dopo non sarà riconducibile alle leggi di ciò che c’era prima; esso funziona e si sviluppa in base a nuove leggi complessivamente diverse. Non è quindi semplicemente un istante successivo al precedente, ma una nuova fase storica, perché quell’istante successivo ubbidisce a logiche diverse.
b. Natura e fasi storiche. Per sviluppare una simile teoria Mazzone, sulla scia di Marx e Hegel, cerca di tenere insieme due fili: continuità e discontinuità, a più livelli: fra natura e storia, fra diverse fasi storiche.
L’uomo fa parte della natura, è un animale. La storia umana è elemento integrante della storia naturale. Tuttavia ha delle sue particolarità specifiche che ne fanno qualcosa di qualitativamente diverso rispetto agli altri animali: l’uomo lavora. Su questa sua specificità si costruisce la sua peculiare vicenda, che tuttavia non è altro che uno dei tanti modi della natura. Questa è la base “materialista” del pensiero marxiano. È questa, fra l’altro, terra di confine con lo studio dell’evoluzione della specie, della preistoria, ecc.
Stabilità la continuità/discontinuità fra uomo e natura, si tratta adesso di capire che l’uomo in generale non esiste. L’astrazione dell’uomo in generale è un prodotto stesso della vicenda umana che ha generato questa nozione astratta solo di recente, mentre in precedenza si avevano, per stare agli esempi classici, greci e barbari, liberi e schiavi, ecc. A non esistere era proprio l’idea che greci, barbari, schiavi e cittadini fossero tutti uguali in quanto esseri umani. La cosiddetta natura umana, tanto cara a molte versioni antropologiche del marxismo, è un terreno molto delicato dove si rischia spesso di cadere in braccio alle ideologie più reazionarie. Infatti, il problema è stabilire quali siano le caratteristiche astratte da attribuire a questo uomo transtorico. Marx in realtà indica poche e precise cose, ovvero la capacità di lavorare e gli elementi che interagiscono con l’uomo nel processo lavorativo (mezzo e oggetto di lavoro; il processo, guidato dalla posizione di scopo, ha esito in un prodotto esterno, altro rispetto alla fisicità stessa dell’uomo che lo realizza). Si ha invece spesso la tentazione di aggiungere a questo rarefatto mondo dell’astratto ulteriori caratteristiche, solitamente di carattere esistenziale, di solito legate alla temperie culturale del momento. Facili le ironie di Marx su tutto ciò. Leggere l’alienazione in termini prettamente esistenziali è la versione teoretica più nobile di questo errore basilare che è in realtà l’opposto di quello che Marx si prefigge, vale a dire sviluppare una teoria del farsi dell’umanità, del processo attraverso il quale l’effettiva esistenza di un soggetto umano collettivo, umano in astratto, diventa possibile nella storia (non è certo un punto di partenza bell’e fatto a cui regredire).
c. Uomo e lavoro. Ammesso che l’uomo è tale in quanto lavora, si tratta di capire in primo luogo che non lavora da solo, e, in secondo luogo, che non lavora sempre allo stesso modo. I diversi modi, in cui i vari elementi del processo lavorativo (attività umana singola e di molti, mezzo e oggetto di lavoro) interagiscono e danno vita al processo lavorativo vero e proprio, determinano le diverse epoche della produzione. Questa è la definizione di modo di produzione. Non si tratta di constatare che oggi o ieri ciò è avvenuto in questo o quel modo, ma di definire, a livello teorico, le leggi e le modalità in cui ciò avviene, per cui poi possiamo procedere a riconoscere e classificare le diverse fasi empiricamente riscontrabili.
Non si tratta neppure del mero cambiamento tecnico; ne possono avvenire a migliaia senza che si modifichi qualitativamente l’orizzonte di fondo in cui quegli elementi vengono ad unirsi. Per esempio se ci troviamo in un contesto di capitale e lavoro salariato, non cambia le coordinate generali del rapporto che io usi un semplice martello, una sega, una sega elettrica od altro ancora: sempre di sussunzione del lavoro sotto il capitale si tratta.
d. Teoria delle classi. Da questi assunti deriva una interessante teoria delle classi. Esse non si definiscono in base ad una descrizione empirica o sociologica di gruppi di persone che agiscono in un atelier, in una fabbrica e via dicendo; e tanto meno dal modo in cui le persone interessate si autodefiniscono o si percepiscono. Si tratta piuttosto di una definizione funzionale. Dato il modo di produzione capitalistico, è altrettanto data una modalità specifica in cui gli elementi del processo lavorativo si uniscono; questi elementi non sono astratte essenze, ma sono “interpretati” da persone in carne ed ossa. Il lavoro vivo è potenziale nella corporeità del lavoratore libero dai mezzi di produzione. Questa condizione non è un mero dato di fatto, ma ciò che lo definisce come forza-lavoro nel mondo capitalistico: non avere la disponibilità dei mezzi di produzione e quindi essere nella condizione di doversi vendere per poter dar vita al processo lavorativo. Le altre condizioni materiali del processo (mezzo ed oggetto di lavoro), compaiono di fronte a lui personificate in un individuo, il capitalista. Non si tratta quindi di caratteristiche della personalità o dell’indole di questo o quell’individuo, ma della funzione oggettiva che essi hanno nel processo. Questa funzione si determina dal ruolo che i singoli si trovano ad avere al suo interno. Per queste ragioni, la riproduzione sociale complessiva, l’estrinsecazione stessa delle potenzialità vitali dell’individuo, si realizza come momento della riproduzione del capitale. La direzione stessa e le finalità complessive, sociali di questo processo si manifestano come volontà e pratica del capitale.
I modelli di processo storico dialettici come quello del modo di produzione capitalistico non implicano il semplice ripetersi meccanico degli stessi fenomeni. Il processo ha una tendenzialità interna che progressivamente porta a delle fasi in cui si danno nuovi equilibri e nuovi assetti che, ad un certo punto, implicano delle modifiche essenziali degli stessi punti di partenza del sistema. Questa dinamica comporta che il modo di produzione capitalistico generi, produca, esso stesso dei risultati epocali senza i quali non sarebbe possibile pensare non solo il nostro mondo contemporaneo, ma una possibile società futura. Sulla scia di Marx, secondo Mazzone il primo risultato storico del modo di produzione capitalistico è la creazione di una produttività “incondizionata”; ciò significa che essa è, da una parte, molto elevata, potenzialmente superiore ai bisogni umani. In secondo luogo essa è libera per quanto riguarda l’obiettivo del produrre; il modo di produzione capitalistico svincola, infatti, la produzione dalla soddisfazione del bisogno (ovvero dalla sua “naturale” funzione), in quanto mira al plusvalore; questa apparente distorsione è in realtà la via verso la libertà: lavorare per soddisfare il bisogno è un’azione eterodiretta, l’appropriazione di plusvalore cancella questa necessità. La società futura dovrà far tesoro di questa possibilità creata nel capitalismo, ovviamente non per produrre plusvalore, ma per decidere liberamente quali scopi porre alla produzione (dato appunto il “superamento” del bisogno). Si direbbe che si tratta della hegeliana negazione della negazione. Si deve negare la prima negazione, ma conservandone il contenuto: va conservata la negazione dell’eterodirezione dello scopo operata dal modo di produzione capitalistico, vale a dire che non si lavora più perché bisogna mangiare; ma bisogna negare la natura capitalistica di questa “liberazione”, vale a dire la produzione di plusvalore. La libera società deve porre lo scopo, ormai libero, della produzione.
Il concetto di uomo in generale in astratto (le nozioni giuridiche di libertà ed eguaglianza connesse al concetto di libero scambio, per cui i contraenti debbono essere liberi e uguali) è uno dei tanti portati del modo di produzione capitalistico, quanto la realtà dell’umanità come soggetto contraddittoriamente unitario. Questo è quanto nella vulgata passa sotto il nome di globalizzazione, distorsione ideologica e strumentale di un processo in atto per cui la riproduzione del singolo individuo in ogni canto del mondo è interconnessa con quella di ogni altro individuo in un’altra parte. Questo implica decisioni mondiali per quanto riguarda la vita di ogni individuo: l’umanità non è più una mera astrazione (astrazione prodotta essa stessa dal modo di produzione capitalistico), ma un fatto pratico ed organizzativo. Pone problemi globali e richiede risoluzioni globali.
Queste sono acquisizioni epocali senza le quali non è possibile il passaggio ad una fase superiore, più sviluppata, della riproduzione umana. Questo implica che per Marx è utopistico ed inconsistente un ritorno alle origini, siano esse intese come essenza antropologica sia come storica produzione precapitalistica. L’umanità associata è un prodotto potenziale del modo di produzione capitalistico [mpc]. Esso stesso, ad un certo punto del suo proprio decorso storico, crea una situazione per cui uno sviluppo ulteriore non è più possibile all’interno del sistema (ed è lo stesso sistema che ha posto quelle condizioni): il mpc crea il concetto astratto di uomo e lo nega di fatto con lo sfruttamento del lavoro salariato; crea le condizioni di una produttività incondizionata, ma permette di produrre solo ciò che valorizza il capitale; pone la possibilità di svincolare la produzione dal bisogno, ma permette di produrre solo ciò che crea plusvalore; crea un mondo unico, ma concepisce l’interazione solo come sfruttamento imperiale e colonialistico. Alla fine, il capitale è, coerentemente con la sua natura più intrinseca, il limite di se stesso. Negati e superati i propri punti di partenza, non riesce a dare pieno sviluppo a quelle potenzialità epocali cui esso stesso dà vita, anzi, le blocca. È il momento del conflitto obiettivo, che prima che politico è logico. Gli elementi funzionali che fino ad un certo punto, sempre in maniera contraddittoria e certamente non armonica, hanno determinato un avanzamento obiettivo del sistema entrano in conflitto tra di sé; il loro rapporto è adesso non più solo individualmente, ma oggettivamente conflittuale, vale a dire che non produce più un avanzamento nel sistema stesso, ne blocca anzi ogni ulteriore potenziale sviluppo.
Il passaggio ad una nuova società più giusta e razionale richiede una ulteriore elaborazione del concetto di classe, che permette di precisare alcuni passaggi in precedenza solo accennati. Classe, lo si è visto, ha una sua fondazione obiettiva, ovvero non dipende dall’autodefinizione soggettiva degli attori, ma dalla loro funzione obiettiva nel processo stesso. Le modalità con cui oggettivamente la produzione va organizzandosi determinano un’egemonia di classe nella conduzione del processo stesso. Qui egemonia, categoria di evidente ispirazione gramsciana, non va intesa nel senso limitatissimo di influenza delle idee di Tizio su quelle di Caio; tale riduzionismo tutt’ora in voga è ben altra cosa. Qui egemonia significa che l’organizzazione fattuale della riproduzione sociale complessiva, pur sempre all’interno delle dimensione capitalistica, include molti elementi di autoregolazione razionale, come ad es. la co-gestione dei lavoratori, le cooperative (di una volta), il relativo controllo/pianificazione da parte dello stato di vasti settori fondamentali dell’economia. Questi elementi di socialismo nel capitalismo, man mano che si sviluppano e generalizzano, ne trasformano la natura e determinano una progressiva socializzazione della produzione, un’egemonia di classe. Esiste naturalmente un risvolto autocoscienziale di questo processo obiettivo, per cui la dimensione soggettiva praticata può più o meno corrispondere alla dimensione oggettiva. Questo compito di trasformazione delle coscienze non è marginale ed è esso stesso momento del processo obiettivo e può essere od entrare in contraddizione con la pratica.
e. Modo di produzione. Questa breve sintesi di quello che a me pare uno dei fili conduttori principali della riflessione teorica di Alessandro Mazzone certo non esaurisce, tanto meno presenta adeguatamente tutte le potenzialità della sua ricerca. Il testo che segue, dedicato alla nozione di Modo di produzione, espone in maniera più dettagliata e complessa molte delle tematiche qui da me solo brevemente accennate. Ad esso e ad alcune altre letture sotto riportate rimando il lettore desideroso di approfondire questi temi. In particolare le ultime dedicate al concetto di classe sono accessibili ad un pubblico più ampio.
riferimenti bibliografici
1. Sul feticismo del capitale: Il feticismo del capitale: una struttura storico-formale, in Problemi teorici del marxismo, Roma, Editori Riuniti, 1976.
2. Sulla teoria dell’ideologia: Questioni di teoria dell’ideologia, Messina, Libbra, 1981.
3. Sulla nozione di Processo storico e sulla logica del modo di produzione capitalistico: La temporalità specifica del modo di produzione capitalistico, in: Marx ed i suoi critici, a cura di L. Sichirollo, D. Losurdo e G. M. Cazzaniga, Urbino, Quattroventi, 1987.
4. Sul concetto di governo razionale della riproduzione sociale: Autogoverno e tirannide (dalla Contraddizione 73-lug.ago.99).
5. Sulla MEGA: MEGA2, Marx ritrovato, Roma, Mediaprint, 2002.
6. Sulla nozione di classe (tutti questi articoli sono apparsi sulla rivista Proteo e sono disponibili online):
1) Classe lavoratrice, sindacato, storia del Movimento Operaio.http://www.
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