*articolo tratto da
The
New York Times Magazine, 15 agosto 2017, traduzione per
http://www.senzasoste.it di Nello Gradirà
**Declan Walsh è il capo corrispondente dal Cairo per The Times.
Leggi anche:
http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2017-08-16/soliti-sospetti-stampa-e-mondo-vinti-221658.shtml

Con l’articolo del New York Times, uscito in sincronia col ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, lo straziante caso di Giulio Regeni assume, a maggior ragione, i pieni contorni di un delitto politico. Certo, chi conosce davvero nel dettaglio indagini, le prove, la lingua, il contesto è in grado di capire se si tratta di un delitto immediatamente politico, con dei mandanti consapevoli fin dall’inizio, oppure se questo “status” di politicità è stato acquisito nel tempo. Un delitto politico, nei rapporti tra Stati, serve a ristabilire dei rapporti di forza, esterni e soprattutto in quella zona di confine, meno visibile, che sta tra governance, servizi segreti, appalti, finanza. Invece di fare i detective da tastiera, anche se animati magari da buone intenzioni, proviamo quindi a capire la conformazione di un pò di fili che compongono la matassa dell’assassinio politico di Giulio Regeni. Si parla di un delitto che, per chi abbia messo un minimo le mani sulle questioni legate alla lettura del significato della tortura, assume caratteri chiari: le molte modalità di uccisione simbolica di Regeni, ognuna per ogni diverso tipo di mutilazione fino al collasso definitivo del suo corpo, si sono saldate con i molti significati politici assunti dalla sua uccisione reale. E’ il fatto, forse, meno compreso al livello di opinione pubblica dell’articolo sul New York Times. L’uccisione di Regeni non è stato solo un avvertimento, chiaro e terribile, ai ricercatori, ai militanti dal basso, agli attivisti che si sono mobilitati, nelle tante forme della solidarietà internazionalista, subito dopo la primavera araba. E neanche solo, e già questo interessa il livello diplomatico, un segnale, del genere “state sul vostro”, a quel mondo che si muove tra ricerca e lavoro di intelligenze tra università americana del Cairo e università inglesi di cui Regeni, suo malgrado, rappresentava comunque il contesto. E’ lo stesso New York Times che dà una lettura politica, nell’articolo, del delitto Regeni: le autorità egiziane hanno fatto capire di voler uccidere chiunque, anche bianchi ben visibili sui media, quando i loro affari interni lo richiedano. E questo per gli americani non è accettabile, non a caso il NYT, nello stesso articolo, rivela la furibonda sceneggiata del segretario di stato Usa, Kerry, contro le autorità egiziane sul caso Regeni. Questo perché gli americani valutano che quando un paese, ampiamente finanziato e supportato dagli Usa nei decenni come l’Egitto, si prende di queste licenze vuol dire che cerca troppa autonomia.
Le molte uccisioni di Regeni, operate simbolicamente tramite le mutilazioni del suo corpo prima di ucciderlo, portano quindi con sè una molteplicità di avvertimenti: agli attivisti, per i quali il messaggio è molto sinistro, al mondo della ricerca, agli Usa, alla stessa Gran Bretagna, supporter storici dell’Egitto. Ma, si sa, tutto nell’area è in movimento. E l’Italia? Il fatto che il cadavere di Regeni sia stato fatto trovare durante la visita della ministro Guidi al Cairo, unisce coincidenza temporale a messaggio politico. Già, ma quale messaggio politico? Tra i tanti ne spiccano due: un avvertimento al mondo degli affari italiano, l’Eni e la ministro Guidi stavano lavorando ad appalti considerevoli, e a quello politico che ha un nome preciso: Libia. Entrambi parlano di un contenimento, o una rimodulazione, delle ambizioni italiane nell’area sia in campo economico che politico. Certo, ogni settore ha le proprie esigenze. Curiosamente quelle dell’Eni coincidono con le disgrazie politiche della ministro Guidi. Infatti non solo l’ex ministro si è trovata nello sgradevole ruolo della persona incaricata di ritirare il “messaggio” Regeni in Egitto. Ma è anche rimasta impigliata nello scandalo, che gli è costato il posto di ministro, dell’inquinamento del centro Eni di Cova di Viggiano. E chi copre oggi, per l’ENI, la perdita di produzione del centro Eni di Viggiano? Ma ovvio: l’importazione di gas dal giacimento di gas di Zohr in Egitto. Siamo parlando di un giacimento scoperto dall’ENI nel 2015 con un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mar Mediterraneo.