Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/il-pensiero-politico-di-rousseau.html
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
venerdì 30 giugno 2017
mercoledì 28 giugno 2017
Un “ponte sull’abisso”. Lenin dopo l’Ottobre*- Alexander Höbel**
*Da: https://www.lacittafutura.it
**Università di Napoli "Federico II"
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/edward-hallett-carr-storia-e.html
**Università di Napoli "Federico II"
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/edward-hallett-carr-storia-e.html
In
occasione del Centenario
della Rivoluzione d’Ottobre,
si sta opportunamente riaprendo la discussione sul significato e il
valore storico di quella straordinaria svolta che ha segnato di sé
l’intero XX secolo e che si riflette, per alcuni aspetti, a partire
dal mutamento dei rapporti di forza tra aree del mondo, sulla nostra
stessa contemporaneità. In questo quadro è essenziale approfondire
il significato ma anche i problemi di quella esperienza.
Se l’obiettivo della Rivoluzione socialista era quello
di sottomettere
i meccanismi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata
delle masse,
in vista del benessere collettivo, Lenin fu sempre consapevole della
difficoltà di tale sfida, in particolare in un paese arretrato come
la Russia del 1917. La consapevolezza di tale difficoltà andò
crescendo nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere,
senza però trasformarsi mai in una diversa valutazione sulla svolta
dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo la giustezza della scelta
fatta, l’opportunità di aver colto il momento, di aver sfruttato
al meglio le possibilità offerte da una eccezionale contingenza
storica.
All’indomani
dell’Ottobre,
Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di
“sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa
degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel
campo dell’organizzazione.
Bisogna distruggere ad ogni costo – dice – il
pregiudizio assurdo [...]
secondo il quale soltanto le cosiddette ‘classi superiori’ [...]
possono dirigere lo Stato [...]. No, gli
operai non
dimenticheranno nemmeno per un istante di aver bisogno della forza
del sapere. [...] Ma il lavoro di organizzazione è
anche alla portata di un comune operaio
o contadino che sa leggere e scrivere, conosce gli uomini ed è
provvisto di un’esperienza pratica”. E “ciò che precisamente
fa la forza [...] della rivoluzione d’Ottobre [...] è che
essa suscita queste
qualità, abbatte tutte le vecchie barriere [...] fa
entrare i lavoratori nella via dove creano essi stessi la
nuova vita”,
in modo diversificato e vario. “Dopo secoli di lavoro per altri
[...] per la prima volta appare la possibilità di lavorare
per sé [...]
approfittando di tutte le conquiste della tecnica e della cultura
moderne”[1].
lunedì 26 giugno 2017
Discorso sul colonialismo*- Aimé Césaire**
** Aimé
Césaire è stato un poeta, scrittore e politico francese, originario
della Martinica. wikipedia
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-
Una
civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi
più impellenti è una civiltà ferita.
Una
civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda.
Fatto
sta che la civiltà così detta «europea», la civiltà occidentale,
così come si è costituita in due secoli di regime borghese è
incapace di risolvere i due maggiori problemi generati dalla sua
stessa esistenza: il problema del proletariato e il problema
coloniale; che deferita alla sbarra della «ragione» come a quella
della «coscienza», quella stessa Europa è incapace di
giustificarsi; che, quanto più, si rifugia in una ipocrisia sempre
più odiosa, tanto più diminuiscono le sue possibilità di
ingannare.
L'Europa
è indifendibile.
Questa
sembra essere la constatazione che scambiano a bassa voce gli
strateghi americani.
La
cosa in sé non sarebbe grave.
Grave
è il fatto che «l'Europa» è moralmente e spiritualmente
indifendibile.
domenica 25 giugno 2017
Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe (III° Lezione)* - Alessandra Ciattini
*Da: https://www.unigramsci.it/
Nella terza lezione si cercheranno di ricostruire i diversi processi culturali attraverso i quali gli amerindiani interpretano il cattolicesimo e i suoi simboli introdotti in America dagli spagnoli; al contempo, si analizzerà anche l'altra prospettiva, ossia il modo in cui questi ultimi decifrano la religiosità indigena, mostrando di fatto una totale incapacità di comprensione. Tali modalità interpretative sono oggetto ancora oggi di un intenso dibattito e sono ancora operanti nei contesti rituali, che costituiscono i momenti più intesi di espressione della religiosità popolare.
Dall'analisi di tali processi storici scaturisce l'ipotesi che essi siano all'origine del cosiddetto sincretismo religioso; fenomeno che si esprime in vari gradi e che riguarda sia le religioni autoctone che quelle di origine africana, importate con gli schiavi, e che nel corso del tempo ha visto l'incorporarsi di altre tendenze religiose, come lo spiritismo. Il sincretismo non è un fenomeno appartenente al passato; esso è vivo e vegeto, e caratterizzato da uno straordinario dinamismo che gli permette di arricchirsi anche grazie all'incremento degli scambi sociali e culturali. In tale contesto saranno analizzati nel dettaglio due processi di triplice sincretizzazione di due madonne cubane.
Prima lezione: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina
Seconda lezione: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina
Nella terza lezione si cercheranno di ricostruire i diversi processi culturali attraverso i quali gli amerindiani interpretano il cattolicesimo e i suoi simboli introdotti in America dagli spagnoli; al contempo, si analizzerà anche l'altra prospettiva, ossia il modo in cui questi ultimi decifrano la religiosità indigena, mostrando di fatto una totale incapacità di comprensione. Tali modalità interpretative sono oggetto ancora oggi di un intenso dibattito e sono ancora operanti nei contesti rituali, che costituiscono i momenti più intesi di espressione della religiosità popolare.
Dall'analisi di tali processi storici scaturisce l'ipotesi che essi siano all'origine del cosiddetto sincretismo religioso; fenomeno che si esprime in vari gradi e che riguarda sia le religioni autoctone che quelle di origine africana, importate con gli schiavi, e che nel corso del tempo ha visto l'incorporarsi di altre tendenze religiose, come lo spiritismo. Il sincretismo non è un fenomeno appartenente al passato; esso è vivo e vegeto, e caratterizzato da uno straordinario dinamismo che gli permette di arricchirsi anche grazie all'incremento degli scambi sociali e culturali. In tale contesto saranno analizzati nel dettaglio due processi di triplice sincretizzazione di due madonne cubane.
Prima lezione: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina
Seconda lezione: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina
sabato 24 giugno 2017
PENSARE LA RIVOLUZIONE RUSSA* - Luciano Canfora**
*Da: Passepartout
Asti
**Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano.
Leggi anche: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/3/megliomenomameglio.htm
**Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano.
Leggi anche: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/3/megliomenomameglio.htm
venerdì 23 giugno 2017
LENIN: L'ESTREMISMO - Stefano Garroni
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/lenin-opere-complete.html
Stefano Garroni: A me pare che, escluse tre o quattro opere di Lenin, la grandissima maggioranza di quello che lui ha scritto, riproduce lo schema compositivo di quest’opera qua. Voglio dire: l’opera del dirigente politico, che parla di questioni politiche, a militanti politici. Quindi una scrittura molto compatta, che può essere compresa da un qualunque militante che abbia curiosità e che abbia un’esperienza politica. In questo senso la grande maggioranza delle opere di Lenin, non fanno nascere nel lettore la richiesta di un intervento della teoria per risolvere punti, per chiarire aspetti. Il lettore ha sicuramente la possibilità di capire il discorso a prescindere dall’intervento del teorico.
Siccome son passati diversi anni da quando lui ha scritto, quello che può essere utile è l’intervento di uno storico, che ricostruisca nei dettagli le situazioni, che ci consenta di metter carne a certe formule linguistiche che corrisponda un nome: Bordiga chi è? C’è lo storico che ce lo spiega ecc. Ma alla lettura del testo, nella grande maggioranza delle opere di Lenin, non segue il bisogno di un intervento del teorico che chiarisca, che aggiunga informazioni, riflessioni, per risolvere dei punti dubbi del testo di Lenin. Questo con l’eccezione di alcuni scritti come Materialismo ed empiriocriticismo, il Che fare?, la Critica agli amici del popolo, i Quaderni filosofici ecc.
Stefano Garroni: A me pare che, escluse tre o quattro opere di Lenin, la grandissima maggioranza di quello che lui ha scritto, riproduce lo schema compositivo di quest’opera qua. Voglio dire: l’opera del dirigente politico, che parla di questioni politiche, a militanti politici. Quindi una scrittura molto compatta, che può essere compresa da un qualunque militante che abbia curiosità e che abbia un’esperienza politica. In questo senso la grande maggioranza delle opere di Lenin, non fanno nascere nel lettore la richiesta di un intervento della teoria per risolvere punti, per chiarire aspetti. Il lettore ha sicuramente la possibilità di capire il discorso a prescindere dall’intervento del teorico.
Siccome son passati diversi anni da quando lui ha scritto, quello che può essere utile è l’intervento di uno storico, che ricostruisca nei dettagli le situazioni, che ci consenta di metter carne a certe formule linguistiche che corrisponda un nome: Bordiga chi è? C’è lo storico che ce lo spiega ecc. Ma alla lettura del testo, nella grande maggioranza delle opere di Lenin, non segue il bisogno di un intervento del teorico che chiarisca, che aggiunga informazioni, riflessioni, per risolvere dei punti dubbi del testo di Lenin. Questo con l’eccezione di alcuni scritti come Materialismo ed empiriocriticismo, il Che fare?, la Critica agli amici del popolo, i Quaderni filosofici ecc.
Ora, questa descrizione della pagina di Lenin, in realtà è abbastanza equivoca, nel senso che un’opera così compatta, scritta da un politico, su temi politici, che il militante politico comprende, sembra delineare una struttura chiusa. Quasi che nasca e muoia dentro l’orizzonte politico.
In realtà è vero questo: se noi superiamo il punto di vista di chi, fate conto, si chiede: “Cosa pensava Lenin dei sindacati?”, e allora, ecco, questa opera ti dice che cosa Lenin pensava. “Cosa pensava dello Stato?”, quest’altra ti dice cosa pensava dello Stato ecc. Quindi, se evitiamo la mentalità evidentemente dogmatica delle opere scelte in due volumi – ovviamente non abbiamo bisogno di leggere tutti e 40 e rotti volumi dell’opera di Lenin -, però abbiamo bisogno senza meno di leggere varie opere, di vari periodi, in cui Lenin si confronta con vari problemi (ognuna di queste opere potremo capirla perfettamente, discuterla, farla operare dentro di noi), però se le leggiamo in una rappresentanza ampia, a quel punto viene fuori la necessità della chiarificazione teorica. Perché?
giovedì 22 giugno 2017
Prima di andare oltre, leggiamolo*- Marco Palazzotto
È
una “grande costruzione letteraria”, piena di citazioni e battute
di spirito? È “sociologia dell’Ottocento”? È teoria astratta?
È un libro di storia? Il
Capitale di
Carlo Marx è un po’ tutte queste cose insieme e, soprattutto, 150
anni dopo la pubblicazione del Primo Libro, rimane il testo
da cui partire per comprendere il presente e immaginare il futuro del
capitalismo. Un contributo di Marco Palazzotto.
Quest’anno
ricorrono i 150 anni della pubblicazione (1867) del Primo Libro del
testo che avrebbe poi cambiato la storia del Novecento, ovvero la
principale opera di Karl Marx: Das
Kapital.
Dopo
un secolo e mezzo dalla prima edizione tedesca, ci si chiede se
un’opera che ha influenzato la politica mondiale del secolo scorso
sia oggi ancora utile ad offrire strumenti di analisi a chi si pone
come obiettivo la trasformazione della società in senso più
egualitario.
Il
Capitale,
per il livello di astrazione utilizzato da Marx, non poteva fornire
dei consigli politici pratici, mentre è parere consolidato che la
teoria del testo più importante del filosofo di Treviri non abbia
eguali, ancora oggi, quanto a capacità di comprensione e analisi del
modo di produzione capitalistico. Molte delle teorie allora
presentate possono essere ancora applicate all’interpretazione di
svariati fenomeni sociali.
Parlo
ad esempio della crisi quale
elemento strutturale del capitalismo, o della scienza
e l’automazione come
cause di diminuzione del lavoro necessario, tendenza che crea una
disoccupazione endemica, ma che allo stesso tempo deve creare le
condizioni per l’accumulazione.
Questa
tendenza del lavoro necessario (attività utile al lavoratore per
riprodurre i suoi mezzi di sussistenza) verso l’azzeramento deve
essere contrastata da controtendenze, per evitare il calo dei consumi
legati al calo dei salari reali. Pertanto, si verificheranno delle
crisi cicliche dovute alla presenza di queste tendenze opposte. E
tutt’oggi le teorizzazioni marxiane della crisi dimostrano grande
validità.
Anche
la teoria
del valore affrontata
nei primi capitoli del Capitale è fondamentale per capire la teoria
della merce, ovvero la teoria dello sfruttamento e delle relazioni
delle classi antagoniste nella produzione moderna. Teoria ancora più
pregnante se consideriamo quanto il marginalismo – e le sue
formulazioni aggiornate – sia incapace a spiegare i comportamenti
degli operatori economici contemporanei.
martedì 20 giugno 2017
LA FORMA DI MERCE DELLA FORZA-LAVORO*- Gianfranco Pala**
*Bandiera
rossa, 49, Milano 1995 http://www.contraddizione.it/scritti.htm **gianfrancopala economista in pensione...

La capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente.
(Jean-Charles-Léonard
Simonde de Sismondi)
la comprensione della sola “ricchezza” del proletariato
1.
“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di
produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta
di merci" e la merce singola si presenta come sua forma
elementare. Perciò la
nostra indagine comincia con l’analisi della merce”.
2.
“All’inizio la merce
ci si è presentata come qualcosa di duplice, valore d’uso e valore
di scambio. In un secondo tempo s’è visto che anche il lavoro, in
quanto espresso nel valore, non possiede più le stesse
caratteristiche che gli sono proprie come generatore di valori d’uso.
Tale duplice natura del lavoro contenuto nella merce è stata
dimostrata criticamente da me per la prima volta. E poiché questo
punto è il perno intorno al quale ruota la comprensione
dell’economia politica, occorre esaminarlo più da vicino”.
3.
“Il cambiamento di valore del denaro che si deve trasformare in
capitale non può avvenire in questo stesso denaro, poiché esso,
come mezzo di acquisto e come mezzo di pagamento, non fa che
realizzare il prezzo della merce che compera o paga ... Il
cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata ..., ma
non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè
la merce vien pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare
dunque soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal
suo consumo. Per estrarre valore dal consumo d’una merce, il
possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire,
all’interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una
merce il cui valore d’uso stesso possedesse la peculiare qualità
d’esser fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale
fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di
valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce
specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro”.
4.
“Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme
delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella
corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli
mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di
qualsiasi genere... La forza-lavoro come merce può apparire sul
mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come
merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la
forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda
come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero
proprietario della propria capacità di lavoro, della propria
persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro
e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di
pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro
venditore, persone dunque giuridicamente eguali... Il proprietario di
forza-lavoro, quale persona, deve riferirsi costantemente alla
propria forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria
merce”.
5.
“Una cosa è evidente, però. La natura non produce da una parte
possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici
possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un
rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto
sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è
evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico
precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici ... Esso
nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di
sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore
della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende
tutta una storia universale”.
6.
“Ormai dobbiamo considerare più da vicino quella merce peculiare
che è la forza-lavoro. Essa ha un valore, come tutte le altre
merci... determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione
e, quindi anche alla riproduzione, di questo articolo specifico
... ossia: il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di
sussistenza necessari per la conservazione del possessore della
forza-lavoro ... la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla
produzione della forza-lavoro include i mezzi di sussistenza delle
forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa
razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato... È
un sentimentalismo troppo a buon mercato il trovare brutale queste
determinazioni del valore della forza-lavoro, la quale deriva dalla
natura stessa della cosa”.
7.
“La natura peculiare di questa merce specifica, la forza-lavoro, ha
per conseguenza che, quando è concluso il contratto fra
compratore e venditore, il suo valore d’uso non è ancor passato
realmente nelle mani del compratore, ... ma il suo valore d’uso
consiste soltanto nella successiva estrinsecazione della sua forza...
Il valore d’uso che il possessore del denaro riceve, per parte sua,
nello scambio, si mostra soltanto nel consumo reale, nel processo di
consumo della forza-lavoro. Il processo di consumo della forza-lavoro
è allo stesso tempo processo di produzione di merce e di plusvalore.
Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce,
si compie fuori del mercato ossia della sfera della circolazione.
Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di
forza-lavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie
ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire l’uno e l’altro
nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta
scritto: Vietato
l’ingresso agli estranei - No admittance except on business.
Qui si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si
produce, il capitale. Finalmente ci si dovrà svelare l’arcano
della fattura del plusvalore”.
8.
“Tutti i termini del problema sono risolti e le leggi dello scambio
delle merci non sono state affatto violate. Si è scambiato
equivalente con equivalente ... La trasformazione del denaro in
capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo
scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio
di equivalenti ... deve avvenire entro la sfera della
circolazione e non deve avvenire entro la sfera della circolazione...
Tutto questo svolgimento, la trasformazione in capitale del denaro
... avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Avviene
attraverso la mediazione della circolazione, perché ha la sua
condizione nella compera della forza-lavoro sul mercato delle merci;
non avviene nella circolazione, perché questa non fa altro che dare
inizio al processo di valorizzazione, il quale avviene nella
sfera della produzione. E così tout
est pour le mieux, dans le meilleur des mondes possibles”.
“Queste
sono le condizioni del problema. Hic
Rhodus, hic salta!”.
lunedì 19 giugno 2017
Natura, lavoro e ascesa del capitalismo*- Martin Empson**
*Da: Monthly
Review traduzionimarxiste.wordpress
**Martin Empson è autore del volume Land and labour (Bookmarks, 2014).
Il
capitalismo intrattiene un rapporto peculiare, per usare un
eufemismo, col mondo naturale. (1) Karl Marx lo ha riassunto al
meglio nei Grundrisse,
dove ha scritto che con l’ascesa del modo di produzione
capitalistico, “la natura diviene puro oggetto per l’uomo, puro
oggetto dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza
per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome
appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani
sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione”. (2)
Nella stessa sezione, egli nota come “il capitale crea dunque la
società borghese e l’appropriazione universale tanto della natura
quanto della connessione sociale stessa da parte dei membri della
società”.
**Martin Empson è autore del volume Land and labour (Bookmarks, 2014).
Questo
rapporto strumentale col mondo naturale contrasta bruscamente con le
modalità attraverso le quali la natura è stata considerata, ed
usata, dalle precedenti società umane. Un’interazione inedita con
la natura emersa dalle violente trasformazioni sociali che hanno
accompagnato lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale,
estendendosi con la diffusione di tale sistema al resto dl mondo.
Marx ha catalogato le molteplici forme di saccheggio e distruzione
perpetuate dal primo capitalismo, nel suo rifare il mondo a propria
immagine: “La scoperta delle terre aurifere e argentifere in
America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione
aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e
saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in
una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che
contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione
capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti
fondamentali dell’accumulazione originaria“.
(3) Il capitale, conclude egli in un celebre passo, fa il suo
ingresso nel mondo “grondante sangue e sporcizia dalla testa ai
piedi, da ogni poro”, nel momento in cui la natura stessa viene
subordinata alle esigenze del sistema. (4)
domenica 18 giugno 2017
Al di là del terrore. Per una nuova antropologia*- Roberto Finelli**
*Da: http://dialetticaefilosofia.it/
**Filosofo italiano http://host.uniroma3.it/docenti/finelli/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/per-unetica-del-riconoscimento-paolo.html

**Filosofo italiano http://host.uniroma3.it/docenti/finelli/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/per-unetica-del-riconoscimento-paolo.html

1. Una smaterializzazione della vita
Com’è noto, uno dei testi più arcaici e fondativi della nostra modernità – nel senso
di ciò che concerne l’αρχή, il principio – descrive la nostra società come una
«immane raccolta di merci».
Ebbene io credo che oggi la merce più rara, e di conseguenza più preziosa, sia
divenuta, non una merce materiale, come il petrolio o come l’oro depositato nei
caveaux delle banche centrali, bensì una merce immateriale e psichica, qual è la
capacità di approfondimento interiore e di autoriflessione. E’ la capacità cioè di
sentirsi - e di ritrovare nel proprio sentire emozionale il senso-guida della propria
vita e il luogo ultimo, non confutabile da altri, della verità - che è venuta, a mio
avviso, fondamentalmente meno, lasciando generalizzarsi e farsi coscienza comune
un’attitudine alla superficie, al frammento, al percuotimento e alla seduzione
dell’esteriore, che impedisce e vieta il darsi di eco e sonorità interiori, fino alla
profondità corporea del nostro sentire.
Come a dire che nell’ultimo trentennio della nostra epoca s’è vissuto, in
particolare nei paesi del ricco Occidente, un enorme processo di smaterializzazione
e di decorporeizzazione emozionale del nostro vivere, che altri hanno voluto
chiamare anche, con termini ritengo meno adeguati, di «umanità liquida». Giacché il
farsi liquidi e senza centro non coglie bene quanto e come l’esperienza dello
svuotamento emozionale, ch’è divenuta configurazione psichica di massa, si sia
accompagnata e dissimulata, nello stesso tempo, con l’investimento isterico e
compensatorio della superficie, con la sopravalutazione eterodiretta delle paillettes e dei lustrini che spesso incorniciano il frammento, con la seduzione di una
silhouette visiva, che nel contorno di una bellezza senza contenuto, cattura e
mortifica lo sguardo di chi la subisce.
mercoledì 14 giugno 2017
Il rispetto delle differenze culturali: relativismo o antirelativismo?*- Alessandra Ciattini
*Da: https://www.lacittafutura.it/
Qual è il modo più opportuno per affrontare la questione delle differenze culturali?
La questione che intendo affrontare in questo breve scritto è piuttosto intricata e coinvolge il senso comune (si pensi al problema dei migranti), la filosofia e le scienze sociali, in particolare l’antropologia. In ambito filosofico essa risale al momento in cui alcuni hanno sostenuto che non esistono criteri superiori, validi universalmente, che ci consentano di valutare gli specifici criteri culturali adottati dalle diverse culture. Si potrebbe rimandare a questo proposito a Protagora (V sec. a. C.) e al suo famoso frammento, la cui interpretazione è alquanto controversa, “L’uomo è la misura di tutte le cose” e a Michel de Montaigne (1533-1592), per il quale il nostro modo di ragionare non nasce dalla natura, ma dal costume.
Naturalmente questa visione relativistica ha preoccupato la Chiesa cattolica, che nelle figure di papa Wojtila e papa Ratzinger, l’ha condannata in più occasioni, anche perché ha messo in discussione il monopolio della verità assoluta, che essa si attribuisce.
Benché – come si è visto – il relativismo abbia radici antiche e di tutto rispetto, almeno in ambito antropologico si fa risalire alla crisi dell’evoluzionismo e progressismo ottocentesco, che prefiguravano un avanzamento continuo della società umana e che distinguevano tra i diversi livelli culturali raggiunti dalle differenti forme di vita sociale, le quali erano confrontate a loro svantaggio con la “civiltà occidentale”.
Qual è il modo più opportuno per affrontare la questione delle differenze culturali?
La questione che intendo affrontare in questo breve scritto è piuttosto intricata e coinvolge il senso comune (si pensi al problema dei migranti), la filosofia e le scienze sociali, in particolare l’antropologia. In ambito filosofico essa risale al momento in cui alcuni hanno sostenuto che non esistono criteri superiori, validi universalmente, che ci consentano di valutare gli specifici criteri culturali adottati dalle diverse culture. Si potrebbe rimandare a questo proposito a Protagora (V sec. a. C.) e al suo famoso frammento, la cui interpretazione è alquanto controversa, “L’uomo è la misura di tutte le cose” e a Michel de Montaigne (1533-1592), per il quale il nostro modo di ragionare non nasce dalla natura, ma dal costume.
Naturalmente questa visione relativistica ha preoccupato la Chiesa cattolica, che nelle figure di papa Wojtila e papa Ratzinger, l’ha condannata in più occasioni, anche perché ha messo in discussione il monopolio della verità assoluta, che essa si attribuisce.
Benché – come si è visto – il relativismo abbia radici antiche e di tutto rispetto, almeno in ambito antropologico si fa risalire alla crisi dell’evoluzionismo e progressismo ottocentesco, che prefiguravano un avanzamento continuo della società umana e che distinguevano tra i diversi livelli culturali raggiunti dalle differenti forme di vita sociale, le quali erano confrontate a loro svantaggio con la “civiltà occidentale”.
martedì 13 giugno 2017
Medio Oriente* - Alberto Negri, Marco Santopadre

noirestiamo insieme all'autore e a Marco Santopadre (contropiano.org), 27/03/2017. Campus Einaudi.
Vedi anche: https://www.internazionale.it/notizie/2016/01/05/sunniti-sciiti-differenze
lunedì 12 giugno 2017
Studenti*- Giorgio Agamben**
*Da: https://www.quodlibet.it/ http://francosenia.blogspot.it/ https://www.sinistrainrete.info/
**Giorgio_Agamben è un filosofo italiano.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-barbarie-dello-specialismo-jose.html

Sono passati cento anni da quando Benjamin, in un saggio memorabile, denunciava la miseria spirituale della vita degli studenti berlinesi e esattamente mezzo secolo da quando un libello anonimo diffuso nell’università di Strasburgo enunciava il suo tema nel titolo Della miseria nell’ambiente studentesco, considerata nei suoi aspetti economici, politici, psicologici, sessuali e in particolare intellettuali. Da allora, non soltanto la diagnosi impietosa non ha perso la sua attualità, ma si può dire senza timore di esagerare che la miseria – insieme economica e spirituale – della condizione studentesca si è accresciuta in misura incontrollabile. E questa degradazione è, per un osservatore accorto, tanto più evidente, in quanto si cerca di nasconderla attraverso l’elaborazione di un vocabolario ad hoc, che sta fra il gergo dell’impresa e la nomenclatura del laboratorio scientifico.
Una spia di questa impostura terminologica è la sostituzione in ogni ambito della parola “ricerca” a quella, che appare evidentemente meno prestigiosa, di “studio”. E la sostituzione è così integrale che ci si può domandare se la parola, praticamente scomparsa dai documenti accademici, finirà per essere cancellata anche dalla formula, che suona ormai come un relitto storico, “Università degli studi”. Cercheremo invece di mostrare che non soltanto lo studio è un paradigma conoscitivo sotto ogni aspetto superiore alla ricerca, ma che, nell’ambito delle scienze umane, lo statuto epistemologico che gli compete è assai meno contraddittorio di quello della didattica e della ricerca.
Proprio per il termine “ricerca” diventano particolarmente evidenti gli inconvenienti che derivano dall’incauto trasferimento di un concetto dalla sfera della scienze della natura a quella delle scienze umane. Lo stesso termine rimanda, infatti, nei due ambiti a prospettive, strutture e metodologie del tutto diverse. La ricerca nelle scienze naturali implica innanzitutto l’uso di apparecchiature così complicate e costose che non è nemmeno pensabile che un singolo ricercatore possa realizzarle da sé; implica inoltre direzioni, direttive e programmi di indagine che risultano dalla congiuntura di necessità oggettive – ad esempio, la diffusione dei tumori, lo sviluppo in corso di una nuova tecnologia o le esigenze militari – e di interessi corrispondenti nelle industrie chimiche, informatiche o belliche. Nulla di comparabile avviene nelle scienze umane. Qui il “ricercatore” – che si potrebbe più propriamente definire “studioso” – ha bisogno soltanto di biblioteche e di archivi, l’accesso ai quali è generalmente facile e gratuito (quando una tassa di iscrizione è richiesta, essa è irrisoria). In questo senso le proteste ricorrenti sull’insufficienza dei fondi di ricerca (effettivamente scarsi) sono destituite di ogni fondamento. I fondi in questione vengono infatti usati non per la ricerca in senso proprio, ma per partecipare a convegni e colloqui che per la loro natura non hanno nulla da spartire con i loro equivalenti nelle scienze naturali: mentre in questi si tratta di comunicarsi le novità più urgenti non soltanto nella teoria, ma anche e innanzitutto nelle verifiche sperimentali, nulla di simile può avvenire in ambito umanistico, in cui l’interpretazione di un passo di Plotino o di Leopardi non è legata ad alcuna urgenza particolare. Da queste diversità strutturali consegue inoltre che mentre nelle scienze della natura le ricerche più avanzate sono generalmente condotte da gruppi di scienziati che lavorano insieme, nelle scienze umane i risultati più innovativi sono ottenuti di solito da studiosi solitari, che passano il loro tempo nelle biblioteche e non amano partecipare a convegni.
Se già questa sostanziale eterogeneità dei due ambiti consiglierebbe di riservare il termine ricerca alle scienze naturali, anche altri argomenti suggeriscono di restituire le scienze umane a quello studio che le ha caratterizzate per secoli. A differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio.
Si può obiettare a queste considerazioni che mentre la ricerca ha sempre di mira una utilità concreta, non si può dire lo stesso dello studio, che, in quanto rappresenta una condizione permanente e quasi una forma di vita, può difficilmente rivendicare un’utilità immediata. Occorre qui rovesciare il luogo comune secondo cui tutte le attività umane sono definite dalla loro utilità. In forza di questo principio, le cose più evidentemente superflue vengono oggi iscritte in un paradigma utilitaristico, ricodificando come bisogni attività umane che sono sempre state fatte soltanto per puro diletto. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio: un inganno, perché non esiste né può esistere una professione che corrisponda allo studio (e tale non è certamente la sempre più rarefatta e screditata didattica); uno scempio, perché priva gli studenti di ciò che costituiva il senso più proprio della loro condizione, lasciando che, ancor prima di essere catturati nel mercato del lavoro, vita e pensiero, uniti nello studio, si separino per essi irrevocabilmente.
**Giorgio_Agamben è un filosofo italiano.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-barbarie-dello-specialismo-jose.html

Sono passati cento anni da quando Benjamin, in un saggio memorabile, denunciava la miseria spirituale della vita degli studenti berlinesi e esattamente mezzo secolo da quando un libello anonimo diffuso nell’università di Strasburgo enunciava il suo tema nel titolo Della miseria nell’ambiente studentesco, considerata nei suoi aspetti economici, politici, psicologici, sessuali e in particolare intellettuali. Da allora, non soltanto la diagnosi impietosa non ha perso la sua attualità, ma si può dire senza timore di esagerare che la miseria – insieme economica e spirituale – della condizione studentesca si è accresciuta in misura incontrollabile. E questa degradazione è, per un osservatore accorto, tanto più evidente, in quanto si cerca di nasconderla attraverso l’elaborazione di un vocabolario ad hoc, che sta fra il gergo dell’impresa e la nomenclatura del laboratorio scientifico.
Una spia di questa impostura terminologica è la sostituzione in ogni ambito della parola “ricerca” a quella, che appare evidentemente meno prestigiosa, di “studio”. E la sostituzione è così integrale che ci si può domandare se la parola, praticamente scomparsa dai documenti accademici, finirà per essere cancellata anche dalla formula, che suona ormai come un relitto storico, “Università degli studi”. Cercheremo invece di mostrare che non soltanto lo studio è un paradigma conoscitivo sotto ogni aspetto superiore alla ricerca, ma che, nell’ambito delle scienze umane, lo statuto epistemologico che gli compete è assai meno contraddittorio di quello della didattica e della ricerca.
Proprio per il termine “ricerca” diventano particolarmente evidenti gli inconvenienti che derivano dall’incauto trasferimento di un concetto dalla sfera della scienze della natura a quella delle scienze umane. Lo stesso termine rimanda, infatti, nei due ambiti a prospettive, strutture e metodologie del tutto diverse. La ricerca nelle scienze naturali implica innanzitutto l’uso di apparecchiature così complicate e costose che non è nemmeno pensabile che un singolo ricercatore possa realizzarle da sé; implica inoltre direzioni, direttive e programmi di indagine che risultano dalla congiuntura di necessità oggettive – ad esempio, la diffusione dei tumori, lo sviluppo in corso di una nuova tecnologia o le esigenze militari – e di interessi corrispondenti nelle industrie chimiche, informatiche o belliche. Nulla di comparabile avviene nelle scienze umane. Qui il “ricercatore” – che si potrebbe più propriamente definire “studioso” – ha bisogno soltanto di biblioteche e di archivi, l’accesso ai quali è generalmente facile e gratuito (quando una tassa di iscrizione è richiesta, essa è irrisoria). In questo senso le proteste ricorrenti sull’insufficienza dei fondi di ricerca (effettivamente scarsi) sono destituite di ogni fondamento. I fondi in questione vengono infatti usati non per la ricerca in senso proprio, ma per partecipare a convegni e colloqui che per la loro natura non hanno nulla da spartire con i loro equivalenti nelle scienze naturali: mentre in questi si tratta di comunicarsi le novità più urgenti non soltanto nella teoria, ma anche e innanzitutto nelle verifiche sperimentali, nulla di simile può avvenire in ambito umanistico, in cui l’interpretazione di un passo di Plotino o di Leopardi non è legata ad alcuna urgenza particolare. Da queste diversità strutturali consegue inoltre che mentre nelle scienze della natura le ricerche più avanzate sono generalmente condotte da gruppi di scienziati che lavorano insieme, nelle scienze umane i risultati più innovativi sono ottenuti di solito da studiosi solitari, che passano il loro tempo nelle biblioteche e non amano partecipare a convegni.
Se già questa sostanziale eterogeneità dei due ambiti consiglierebbe di riservare il termine ricerca alle scienze naturali, anche altri argomenti suggeriscono di restituire le scienze umane a quello studio che le ha caratterizzate per secoli. A differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio.
Si può obiettare a queste considerazioni che mentre la ricerca ha sempre di mira una utilità concreta, non si può dire lo stesso dello studio, che, in quanto rappresenta una condizione permanente e quasi una forma di vita, può difficilmente rivendicare un’utilità immediata. Occorre qui rovesciare il luogo comune secondo cui tutte le attività umane sono definite dalla loro utilità. In forza di questo principio, le cose più evidentemente superflue vengono oggi iscritte in un paradigma utilitaristico, ricodificando come bisogni attività umane che sono sempre state fatte soltanto per puro diletto. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio: un inganno, perché non esiste né può esistere una professione che corrisponda allo studio (e tale non è certamente la sempre più rarefatta e screditata didattica); uno scempio, perché priva gli studenti di ciò che costituiva il senso più proprio della loro condizione, lasciando che, ancor prima di essere catturati nel mercato del lavoro, vita e pensiero, uniti nello studio, si separino per essi irrevocabilmente.
domenica 11 giugno 2017
I SOFISTI* - Antonio Gargano
*Da: http://www.iisf.it/
Vedi anche: http://www.raiscuola.rai.it/articoli/i-sofisti-lintellettuale-professionista/3498/default.aspx

Viviamo in un’epoca sofistica. Da che cosa è caratterizzata la sofistica? Dal dominio dell’opinione, dalla convinzione che la verità non possa essere raggiunta. Viviamo in un’epoca dominata dall’opinione, dalla sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, dallo scetticismo, e il dominio dell’opinione si fa sentire oggi con mezzi più potenti che all’epoca sofistica greca, cioè con i mezzi di comunicazione di massa. I modelli di esistenza vengono imposti da creatori di opinioni, non certo ispirati da filosofi o da chi si sforza di indagare la verità. Vedremo come i sofisti teorizzano il relativismo e come alla luce della filosofia di Socrate e di Platone il relativismo e lo scetticismo nella conoscenza, che comportano l’individualismo e l’egoismo nella vita pratica, possono essere sconfitti perché sono logicamente infondati. Possiamo riassumere così i tratti della sofistica: sofistica vuol dire regno dell’opinione, sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, e di conseguenza individualismo. Cerchiamo di collocare i sofisti all’interno della storia della filosofia. Non mi voglio attardare sulla Atene di Pericle, sulla Atene della metà del quinto secolo, di cui trovate chiare notizie nei vostri manuali: quando intendo collocare i sofisti nella storia della filosofia, voglio dire che i sofisti costituiscono un momento necessario nella storia della filosofia, non possono non comparire a un certo punto, dopo i naturalisti, come non possono non essere superati poi da una posizione come quella di Socrate e di Platone. I Greci avevano ragione sul fatto che c’è una logica in tutte le cose, ma se c’è una logica in tutte le cose ci sarà una logica anche nella storia della filosofia: la storia della filosofia segue un filo di sviluppo ben saldo.
Vedi anche: http://www.raiscuola.rai.it/articoli/i-sofisti-lintellettuale-professionista/3498/default.aspx
Viviamo in un’epoca sofistica. Da che cosa è caratterizzata la sofistica? Dal dominio dell’opinione, dalla convinzione che la verità non possa essere raggiunta. Viviamo in un’epoca dominata dall’opinione, dalla sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, dallo scetticismo, e il dominio dell’opinione si fa sentire oggi con mezzi più potenti che all’epoca sofistica greca, cioè con i mezzi di comunicazione di massa. I modelli di esistenza vengono imposti da creatori di opinioni, non certo ispirati da filosofi o da chi si sforza di indagare la verità. Vedremo come i sofisti teorizzano il relativismo e come alla luce della filosofia di Socrate e di Platone il relativismo e lo scetticismo nella conoscenza, che comportano l’individualismo e l’egoismo nella vita pratica, possono essere sconfitti perché sono logicamente infondati. Possiamo riassumere così i tratti della sofistica: sofistica vuol dire regno dell’opinione, sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, e di conseguenza individualismo. Cerchiamo di collocare i sofisti all’interno della storia della filosofia. Non mi voglio attardare sulla Atene di Pericle, sulla Atene della metà del quinto secolo, di cui trovate chiare notizie nei vostri manuali: quando intendo collocare i sofisti nella storia della filosofia, voglio dire che i sofisti costituiscono un momento necessario nella storia della filosofia, non possono non comparire a un certo punto, dopo i naturalisti, come non possono non essere superati poi da una posizione come quella di Socrate e di Platone. I Greci avevano ragione sul fatto che c’è una logica in tutte le cose, ma se c’è una logica in tutte le cose ci sarà una logica anche nella storia della filosofia: la storia della filosofia segue un filo di sviluppo ben saldo.
sabato 10 giugno 2017
Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe (II° lezione)*- Alessandra Ciattini
*Da: https://www.unigramsci.it/
Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.
Nella seconda lezione si illustreranno le ragioni che hanno portato gli europei (gli iberici in particolare) ad espandersi fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e dell'evangelizzazione; fenomeni che saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una stessa medaglia, richiamandosi alla nozione di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel.
Seconda lezione: (a partire dal minuto 4 la ricezione audio si regolarizza...)
Prima lezione: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-e.html
Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.
Nella seconda lezione si illustreranno le ragioni che hanno portato gli europei (gli iberici in particolare) ad espandersi fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e dell'evangelizzazione; fenomeni che saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una stessa medaglia, richiamandosi alla nozione di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel.
Seconda lezione: (a partire dal minuto 4 la ricezione audio si regolarizza...)
Prima lezione: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-e.html
venerdì 9 giugno 2017
IDEOLOGIA E DIALETTICA*- Stefano Garroni
*Da: https://www.youtube.com/user/mirkobe79/playlists?flow=grid&view=1&sort=lad
[…] il proletariato, la lotta di classe: c’è questa tragedia incombente. E peggio, questa tragedia incombente può anche essere addirittura segno dell’ira di dio contro l’uomo peccatore: tutti siamo assassini, tutti abbiamo ucciso nella guerra – i nazisti, gli antinazisti -, siamo tutti sporchi di sangue, dunque è possibile addirittura che dio consenta la guerra atomica per punirci.
Althusser, che in questo periodo è cattolico, dice ai cattolici per esempio a Malraux e Marcel: “Ma con quale arroganza voi pretendete di interpretare dio? Noi uomini possiamo capire le cose del mondo e allora cominciamo a dire chi sono i responsabili e a chiamare le persone con il loro nome. E chi è questo ‘tutti’? Guarda un po’, tutte queste persone che favoriscono l’ideologia del proletariato del terrore, poi se andiamo a vedere politicamente ruotano intorno alla socialdemocrazia e sono anticomunisti”.
Allora comincia a delinearsi questa immagine ideologica di un pensiero che – prendendo spunto da effettivi drammi, da effettivi problemi – addirittura accentuando la drammaticità di questi problemi, arriva alla conclusione che è inutile la lotta di classe: è come se coloro che occupano il treno lanciato verso l’abisso, si mettono a litigare tra loro quando c’è questa tragedia, e sono socialdemocratici e anticomunisti.
A questo proletariato del terrore lui contrappone il proletariato quello proletario, e dice: “Questo è un proletariato che si definisce per la sua condizione sociale, politica, economica, che lotta per delle cose determinate, contro forze determinate, e lottando impara che può vincere, e quindi costruisce un’immagine della società, del mondo in cui sta, si pone obiettivi, opera, fa; invece questo proletariato del terrore disarma”.
[…] il proletariato, la lotta di classe: c’è questa tragedia incombente. E peggio, questa tragedia incombente può anche essere addirittura segno dell’ira di dio contro l’uomo peccatore: tutti siamo assassini, tutti abbiamo ucciso nella guerra – i nazisti, gli antinazisti -, siamo tutti sporchi di sangue, dunque è possibile addirittura che dio consenta la guerra atomica per punirci.
Althusser, che in questo periodo è cattolico, dice ai cattolici per esempio a Malraux e Marcel: “Ma con quale arroganza voi pretendete di interpretare dio? Noi uomini possiamo capire le cose del mondo e allora cominciamo a dire chi sono i responsabili e a chiamare le persone con il loro nome. E chi è questo ‘tutti’? Guarda un po’, tutte queste persone che favoriscono l’ideologia del proletariato del terrore, poi se andiamo a vedere politicamente ruotano intorno alla socialdemocrazia e sono anticomunisti”.
Allora comincia a delinearsi questa immagine ideologica di un pensiero che – prendendo spunto da effettivi drammi, da effettivi problemi – addirittura accentuando la drammaticità di questi problemi, arriva alla conclusione che è inutile la lotta di classe: è come se coloro che occupano il treno lanciato verso l’abisso, si mettono a litigare tra loro quando c’è questa tragedia, e sono socialdemocratici e anticomunisti.
A questo proletariato del terrore lui contrappone il proletariato quello proletario, e dice: “Questo è un proletariato che si definisce per la sua condizione sociale, politica, economica, che lotta per delle cose determinate, contro forze determinate, e lottando impara che può vincere, e quindi costruisce un’immagine della società, del mondo in cui sta, si pone obiettivi, opera, fa; invece questo proletariato del terrore disarma”.
giovedì 8 giugno 2017
Come funziona il Soviet*- John Reed
*Da: http://www.marxpedia.org/ Questo
scritto viene pubblicato a puntate sull'Ordine Nuovo dal 21
giugno al 12 luglio del 1919.
Introduzione
In mezzo al coro di ingiurie e di menzogne contro la Russia dei Soviet ricorre, con una sorta di terrore, un alto grido: non vi è nessun governo in Russia, non vi è nessuna organizzazione tra gli operai russi! Non si lavora più! Non si lavora più!
È il metodo nella calunnia.
Come ogni socialista sa, come io stesso, che sono stato presente nella Rivoluzione russa, posso attestare, esiste oggi a Mosca e in tutte le città e in tutti i centri abitati del paese un organismo politico complesso, che è sostenuto dalla grande maggioranza della popolazione, e che funziona bene allo stesso modo di ogni altro governo popolare di recente formazione. Gli operai della Russia hanno, sotto l'impulso delle loro necessità e dei bisogni della vita, creato un'organizzazione economica che sta trasformandosi in una vera democrazia operaia.
Darò un disegno schematico della struttura dello Stato dei Soviet.
Storia dei Soviet
Lo Stato del Soviet è basato sui Soviet - e Consigli - di operai e contadini.
Questi Consigli - istituzioni cosi caratteristiche della Rivoluzione russa - sorsero nel 1905, quando, durante il primo sciopero generale degli operai, le fabbriche di Pietrogrado e le organizzazioni economiche mandarono delegati a un Comitato centrale. Questo comitato dello sciopero fu chiamato «Consiglio dei deputati operai». Esso organizzò il secondo sciopero generale della fine del 1905, inviò organizzatori per tutta la Russia, e per breve tempo fu riconosciuto dal governo imperiale come l'organo ufficiale e autorizzato della classe operaia rivoluzionaria russa.
Fallita la rivoluzione del 1905, i membri del Consiglio in parte fuggirono, in parte furono mandati in Siberia. Ma questo tipo di organizzazione unitaria era cosi straordinariamente efficace come organo politico che tutti i partiti rivoluzionari inclusero un Consiglio di deputati degli operai nei loro piani per la prossima rivolta.
Nel marzo 1917, quando, davanti a tutta la Russia agitata come un mare in tempesta, lo Zar abdicò, il granduca Michele rinunciò al trono, e la Duma riluttante fu forzata ad assumere le redini del potere, il Consiglio dei deputati degli operai sorse completamente formato. In pochi giorni fu esteso in modo da comprendere delegati dell’esercito, e chiamato Consiglio dei deputati degli operai e dei soldati. Il Comitato della Duma era composto, fatta eccezione per Kerensky, da borghesi, e non aveva nessuna relazione con le masse rivoluzionarie. Si doveva combattere, si doveva restaurare l'ordine, si doveva difendere il fronte... I membri della Duma non avevano modo di adempiere questi doveri: essi furono obbligati a ricorrere ai rappresentanti degli operai e dei soldati - in altre parole, al Consiglio. Il Consiglio prese parte all'opera rivoluzionaria, al lavoro di coordinare le attività, di mantenere l'ordine. lnoltre si assunse il compito di difendere la rivoluzione dai tradimenti della borghesia.
Dal momento che la Duma fu costretta a fare appello al Consiglio, due organismi governativi cominciarono a esistere in Russia, ed essi combatterono per la supremazia fino al novembre 1917, quando i Soviet, sotto la direzione dei bolscevichi, abbatterono il governo della coalizione.
Come ho detto, vi erano Soviet sia di operai che di soldati; un po' di tempo dopo si formarono Soviet di contadini. Nella maggior parte delle città i Soviet degli operai e dei soldati si unirono; e uniti tennero il loro Congresso panrusso. I Soviet dei contadini invece vennero tenuti separati dagli elementi reazionari che lo dirigevano e non si riunirono agli operai e ai soldati che dopo la rivoluzione di ottobre e dopo la costituzione del governo dei Soviet.
Costituzione dei Soviet
Introduzione
In mezzo al coro di ingiurie e di menzogne contro la Russia dei Soviet ricorre, con una sorta di terrore, un alto grido: non vi è nessun governo in Russia, non vi è nessuna organizzazione tra gli operai russi! Non si lavora più! Non si lavora più!
È il metodo nella calunnia.
Come ogni socialista sa, come io stesso, che sono stato presente nella Rivoluzione russa, posso attestare, esiste oggi a Mosca e in tutte le città e in tutti i centri abitati del paese un organismo politico complesso, che è sostenuto dalla grande maggioranza della popolazione, e che funziona bene allo stesso modo di ogni altro governo popolare di recente formazione. Gli operai della Russia hanno, sotto l'impulso delle loro necessità e dei bisogni della vita, creato un'organizzazione economica che sta trasformandosi in una vera democrazia operaia.
Darò un disegno schematico della struttura dello Stato dei Soviet.
Storia dei Soviet
Lo Stato del Soviet è basato sui Soviet - e Consigli - di operai e contadini.
Questi Consigli - istituzioni cosi caratteristiche della Rivoluzione russa - sorsero nel 1905, quando, durante il primo sciopero generale degli operai, le fabbriche di Pietrogrado e le organizzazioni economiche mandarono delegati a un Comitato centrale. Questo comitato dello sciopero fu chiamato «Consiglio dei deputati operai». Esso organizzò il secondo sciopero generale della fine del 1905, inviò organizzatori per tutta la Russia, e per breve tempo fu riconosciuto dal governo imperiale come l'organo ufficiale e autorizzato della classe operaia rivoluzionaria russa.
Fallita la rivoluzione del 1905, i membri del Consiglio in parte fuggirono, in parte furono mandati in Siberia. Ma questo tipo di organizzazione unitaria era cosi straordinariamente efficace come organo politico che tutti i partiti rivoluzionari inclusero un Consiglio di deputati degli operai nei loro piani per la prossima rivolta.
Nel marzo 1917, quando, davanti a tutta la Russia agitata come un mare in tempesta, lo Zar abdicò, il granduca Michele rinunciò al trono, e la Duma riluttante fu forzata ad assumere le redini del potere, il Consiglio dei deputati degli operai sorse completamente formato. In pochi giorni fu esteso in modo da comprendere delegati dell’esercito, e chiamato Consiglio dei deputati degli operai e dei soldati. Il Comitato della Duma era composto, fatta eccezione per Kerensky, da borghesi, e non aveva nessuna relazione con le masse rivoluzionarie. Si doveva combattere, si doveva restaurare l'ordine, si doveva difendere il fronte... I membri della Duma non avevano modo di adempiere questi doveri: essi furono obbligati a ricorrere ai rappresentanti degli operai e dei soldati - in altre parole, al Consiglio. Il Consiglio prese parte all'opera rivoluzionaria, al lavoro di coordinare le attività, di mantenere l'ordine. lnoltre si assunse il compito di difendere la rivoluzione dai tradimenti della borghesia.
Dal momento che la Duma fu costretta a fare appello al Consiglio, due organismi governativi cominciarono a esistere in Russia, ed essi combatterono per la supremazia fino al novembre 1917, quando i Soviet, sotto la direzione dei bolscevichi, abbatterono il governo della coalizione.
Come ho detto, vi erano Soviet sia di operai che di soldati; un po' di tempo dopo si formarono Soviet di contadini. Nella maggior parte delle città i Soviet degli operai e dei soldati si unirono; e uniti tennero il loro Congresso panrusso. I Soviet dei contadini invece vennero tenuti separati dagli elementi reazionari che lo dirigevano e non si riunirono agli operai e ai soldati che dopo la rivoluzione di ottobre e dopo la costituzione del governo dei Soviet.
Costituzione dei Soviet
martedì 6 giugno 2017
Sulla Comunicazione (Soft e Hard) - Umberto Eco*
*Umberto_Eco è stato un semiologo, filosofo e scrittore italiano.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/05/demenza-digitale-manfred-spitzer.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/05/demenza-digitale-manfred-spitzer.html
lunedì 5 giugno 2017
domenica 4 giugno 2017
Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe*- Alessandra Ciattini**
*Da: https://www.unigramsci.it/
**Professore associato alla Sapienza di Roma, Facoltà di lettere e Filosofia (Discipline demoetnoantropologiche).
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/il-fattore-religioso-nellattuale.html
La prima lezione sarà dedicata alla ricostruzione della storia dell'espressione America Latina; espressione che si è affermata e diventata comune solo in seguito alla politica espansionistica di Napoleone III, abortita nel giro di pochi anni. Allo stesso tempo ci si soffermerà sul concetto di “religiosità popolare”, partendo dal punto di vista gramsciamo secondo il quale i diversi settori sociali sviluppano forme di religiosità e concezioni del mondo loro peculiari. Saranno illustrati i caratteri della religiosità popolare, i suoi contenuti e le sue modalità di espressione, mostrando come tali contenuti e tali forme di esteriorizzazione esercitino un grande fascino nella società contemporanea, in cui consistenti settori sociali sono alla ricerca di concezioni del mondo alternative a quelle egemoni.
Prima lezione:**Professore associato alla Sapienza di Roma, Facoltà di lettere e Filosofia (Discipline demoetnoantropologiche).
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/il-fattore-religioso-nellattuale.html
Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.
La prima lezione sarà dedicata alla ricostruzione della storia dell'espressione America Latina; espressione che si è affermata e diventata comune solo in seguito alla politica espansionistica di Napoleone III, abortita nel giro di pochi anni. Allo stesso tempo ci si soffermerà sul concetto di “religiosità popolare”, partendo dal punto di vista gramsciamo secondo il quale i diversi settori sociali sviluppano forme di religiosità e concezioni del mondo loro peculiari. Saranno illustrati i caratteri della religiosità popolare, i suoi contenuti e le sue modalità di espressione, mostrando come tali contenuti e tali forme di esteriorizzazione esercitino un grande fascino nella società contemporanea, in cui consistenti settori sociali sono alla ricerca di concezioni del mondo alternative a quelle egemoni.
Nella
lezione seguente si illustreranno le ragioni che hanno portato gli
europei (gli iberici in particolare) ad espandersi
fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e
dell'evangelizzazione; fenomeni che
saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una
stessa medaglia, richiamandosi alla nozione
di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel.
Nella
terza lezione si cercheranno di ricostruire i diversi processi
culturali attraverso i quali gli amerindiani interpretano
il cattolicesimo e i suoi simboli introdotti in America dagli
spagnoli; al contempo, si analizzerà anche
l'altra prospettiva, ossia il modo in cui questi ultimi decifrano la
religiosità indigena, mostrando di fatto
una totale incapacità di comprensione. Tali modalità interpretative
sono oggetto ancora oggi di un intenso
dibattito e sono ancora operanti nei contesti rituali, che
costituiscono i momenti più intesi di espressione
della religiosità popolare.
Dall'analisi
di tali processi storici scaturisce l'ipotesi che essi siano
all'origine del cosiddetto sincretismo religioso; fenomeno che si esprime in vari gradi e che riguarda sia le religioni
autoctone che quelle di origine africana, importate con gli schiavi, e che nel corso del tempo ha visto
l'incorporarsi di altre tendenze religiose,
come lo spiritismo. Il sincretismo non è un fenomeno appartenente al
passato; esso è vivo e vegeto, e
caratterizzato da uno straordinario dinamismo che gli permette di
arricchirsi anche grazie all'incremento degli
scambi sociali e culturali. In tale contesto saranno analizzati nel
dettaglio due processi di triplice sincretizzazione
di due madonne cubane.
Infine,
la quarta lezione sarà dedicata alla relazione tra religione e
politica, e ci soffermeremo su questi aspetti:
il carattere interclassista della Chiesa cattolica, la presenza in
essa del pluralismo religioso sia pure contrastato
e controllato, l'emergenza di tendenze progressiste e impegnate
politicamente (come la Teologia della liberazione e le comunità ecclesiastiche di base), il conflitto tra
Chiesa cattolica e i governi progressisti (il
caso di Cuba e la lotta contro la Teologia della liberazione), la
politica dell'attuale papa verso l'America latina
e le ragioni della sua “apertura” alle richieste delle masse
popolari. Si farà cenno anche al fenomeno della diffusione del pentecostalismo, fomentata dalle “missioni di fede”
statunitensi, e alla sua relazione con l’imposizione
a partire degli anni ’70 del Novecento delle politiche
neoliliberali.
sabato 3 giugno 2017
Il mito dell’imperialismo russo: in difesa dell’analisi di Lenin*- Renfrey Clarke, Roger Annis**
* https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ Il
testo seguente è una versione più lunga di un precedente
saggio: Perpetrator
or victim? Russia and contemporary imperialism,
di Renfrey Clarke e Roger Annis, pubblicato sul sito Links
International Journal of Socialist Renewal, nel febraio del 2016.
**Renfrey Clarke, scrittore ed attivista australiano, nel corso degli anni Novanta ha svolto il ruolo di corrispondente da Mosca per Green Left Weekly. Roger Annis, lavoratore del settore aerospaziale oggi in pensione, attivista e blogger, ha compiuto numerosi viaggi di ricerca in Crimea e nel Donbass. Entrambi sono tra i curatori del sito New Cold War (newcoldwar).

Tradizionalmente,
la sinistra marxista ha utilizzato il termine “imperialismo” con
un alto grado di discernimento. Dunque, per i marxisti,
l’imperialismo non è un qualcosa che emerge misteriosamente quando
i leader si lasciano sovrastare dall'”avidità”. Né può essere
ridotto alla semplice azione militare esterna, per quanto aggressiva.
Per i marxisti, viceversa, l’imperialismo attuale nasce da
specifiche caratteristiche dell’ordine economico e sociale dei
paesi capitalistici più avanzati.
La
classica definizione marxista di imperialismo nell’epoca moderna è
stata fornita da Lenin nel suo pamphlet del 1916, L’imperialismo,
fase suprema del capitalismo.
Secondo il punto di vista del leader bolscevico, il capitalismo
avanzato emerso nei decenni precedenti presentava le seguenti
caratteristiche salienti:
“1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli come funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo «capitale finanziario», di un’oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.” [2]
A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, affermava Lenin, le economie dei paesi più industrializzati si erano mosse in direzione di una nuova fase di “capitalismo monopolistico”. Il controllo sulla vita economica da parte delle maggiori concentrazioni di capitale era giunto al punto che, in ognuno di questi paesi, l’influenza detenuta da un gruppo strettamente interconnesso dei più potenti capitalisti, finanziari e industriali, era fuori questione.
giovedì 1 giugno 2017
Contro il liberoscambismo*- Marco Veronese Passarella**
*Da: http://www.marcopassarella.it/it/socialismo-o-liberoscambismo/ (https://mpra.ub.uni-muenchen.de/60350/1/MPRA_paper_60350.pdf) https://sinistrainrete.info/
** Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email: m.passarella@leeds.ac.uk. Web: www.marcopassarella.it
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/crisi-si-ma-quale-teoria-della-crisi.html
** Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email: m.passarella@leeds.ac.uk. Web: www.marcopassarella.it
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/crisi-si-ma-quale-teoria-della-crisi.html
1. Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1. In effetti, la stagione di grande apertura dei mercati che precedette la prima guerra mondiale non avrebbe conosciuto eguali fino alla seconda ondata di globalizzazione capitalistica sperimentata dalle maggiori economie mondiali in seguito all’implosione del blocco socialista – a partire, cioè, dai primi anni novanta. Sennonché, a dispetto delle asserite proprietà salvifiche delle forze della concorrenza e delle leggi naturali del mercato, la crescente integrazione delle economie mondiali è sembrata dischiudere, ancora una volta, gravi rischi per le conquiste economiche e sociali strappate, nel corso del secondo dopoguerra, dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rappresentative nei paesi di prima industrializzazione. D’altra parte, l’ascesa economica recente dei giganti asiatici e sudamericani non appare in grado, almeno al momento, di legarsi stabilmente alla prospettiva di un avanzamento generalizzato nei rapporti sociali a favore dei salariati e delle classi lavoratrici in genere, di surrogare, cioè, il katéchon sovietico2.
Sono già qui enunciate in nuce due tesi fondamentali, che costituiranno il leitmotiv di questo breve saggio. La prima tesi è che è che la contrapposizione welfare oppure barbarie sia storicamente legata a doppio filo al grado di mondializzazione del capitale, ossia ai processi di apertura dei mercati regionali e nazionali ai flussi internazionali di capitali e di merci. La seconda tesi – che è poi un corollario – è che non sia tanto, o soltanto, la soluzione di quella contrapposizione a favore del secondo termine (la barbarie connessa al possibile azzeramento di ogni forma di prestazione sociale) a far problema. È una posizione, questa, che pure sembrerebbe emergere dall’osservazione di quanto accaduto nelle economie avanzate nell’ultimo trentennio, dove il sistema statuale di previdenza sociale è stato progressivamente smantellato (ancorché in modo asimmetrico e parziale) a colpi di privatizzazioni prima, e di misure di austerità poi. Piuttosto, la sensazione è che si stia assistendo al progressivo tramutarsi della congiunzione «o» in una copulativa positiva, «e»: welfare e barbarie. Non azzeramento delle prestazioni di welfare, insomma, ma loro profonda ridefinizione in termini, ad un tempo, «universalistici» e «minimalisti», sulla base dei rapporti sociali emersi dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta e dai conseguenti processi di ristrutturazione produttiva degli anni ottanta e novanta. Il welfare come sussidio residuale atto a colmare la differenza tra redditi da lavoro salariato precario e soglia minima di sussistenza: questa sembra essere, per le classi lavoratrici italiane (ed europee), la fosca prospettiva che si para all’orizzonte. Si tratta di una prospettiva, per la verità, non nuova, dato che rimanda agli albori del processo di industrializzazione. Di fronte a questo scenario, si ritiene necessario, anzitutto, avanzare una critica radicale all’accettazione incondizionata, a tratti apologetica, delle dinamiche di mondializzazione capitalistica e dell’agenda neoliberista e liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica3.Tale atteggiamento ha curiosamente caratterizzato, in Italia, gli intellettuali e le organizzazioni eredi del movimento operaio novecentesco ancor più delle forze conservatrici. Si tratta, in secondo luogo, di prospettare una diversa forma di organizzazione economica e sociale che recuperi ed aggiorni lo strumento della pianificazione economica quale alternativa alle dinamiche caotiche del mercato e, al contempo, quale prefigurazione di una società altra.
Iscriviti a:
Post (Atom)