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sabato 4 gennaio 2020

Di una economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie - Federico Caffè

Da: «Giornale degli economisti e annali di economia», 1971, 9-10, pp. 664-84. - https://gondrano.blogspot.com/ - Federico Caffè è stato un economista italiano
Leggi anche: Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  
                        L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore  




SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Richiami a una indagine americana del 1955 sul funzionamento del mercato di borsa. - 3. Il caso dell’IOS, a distanza di un quindicennio, e i suoi aspetti più clamorosi. - 4. La “sovranità” del risparmiatore e la sua manipolazione da parte dell’intermediazione specializzata. - 5. Mercato azionario e efficienza economica nel periodo breve. - 6. L’efficienza allocativa dei mercati finanziari nel periodo lungo. - 7. Se la borsa sia un efficace guardiano dell’efficienza dell’impiego delle risorse allocate per suo tramite. - 8. Una proposta recente di centralizzazione nazionale delle operazioni di borsa. - 9. Possibilità di soluzioni che portino a un rigetto della borsa e del suo folklore.




1. Premessa

Se l’occasione immediata per le considerazioni contenute in questo scritto è stata fornita da talune recenti manifestazioni aberranti del modo di operare dei mercati finanziari, nel nostro come in altri paesi, l’interesse per i problemi di cui lo scritto si occupa è ben più remoto.
Nei primissimi anni del dopoguerra mi capitò di leggere un articolo, come sempre limpidissimo e suadente, di Luigi Einaudi che illustrava con piena adesione le idee espresse a suo tempo da Eugenio Rignano nel volume Per una riforma socialista del diritto successorio (1920).
Nell’articolo einaudiano l’accento veniva posto non sul carattere socialista della riforma successoria, ma sulla compatibilità della economia di mercato con un trattamento fiscale delle successioni che fosse ispirato ad avanzate ideali sociali.
A mia volta, più che dal problema specifico, fui interessato dalla tesi generale che esso implicava.
La tesi, cioè, della compatibilità della economia di mercato con riforme le quali incidano profondamente in strutture e istituzioni che storicamente sono venute a coesistere con l’economia di mercato stessa, ma non sono essenziali al suo funzionamento.
Ed è precisamente in questa tesi l’origine remota delle presenti note.

Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati, favorisca non già il vigore competitivo, ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.

Esiste una evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere - legislativi, sindacali, sociali - che vincolano l’attività produttiva “reale” nei vari settori agricolo, industriale, di intermediazione commerciale e la concreta “licenza di espropriare l’altrui risparmio” che esiste sui mercati finanziari.
Un rilievo del genere non trae motivo da fatti episodici o da insufficienze istituzionali attribuibili a carenze legislative.
Si tratta di una costatazione originata dalla persistenza evidente, nell’ambito delle strutture finanziarie-borsistiche, di un capitalismo aggressivo e violento, che non sembra aver nulla in comune con lo “spirito di responsabilità pubblica” rilevabile come componente di una moderna strategia oligopolistica nell’ambito dell’attività produttiva industriale.
Oggi, come è ben noto, non soltanto il creatore d’industria rozzo e brutale, ma persino il creatore d’industria provvidenziale e paternalistico risultano incompatibili con concezioni non obsolete della vita industriale.
Al contrario, esercita tuttora un anacronistico fascino (ed ha, soprattutto, deleterie possibilità di azione) il manipolatore spregiudicato di titoli di varia specie sui mercati finanziari interni e internazionali.
Si tratta di una smagliatura logica il cui esame presenta un interesse non minore delle raffinate analisi intorno alla composizione ottimale del portafoglio in condizioni varie di incertezza.
Indubbiamente il campo di indagine non si presta a ricerche che portino a risultati formalmente eleganti e precisi.
Ma occorre confortarsi ricordando che può essere preferibile “aver ragione in termini vaghi, anziché sbagliare con tutta precisione” (1).

martedì 16 aprile 2013

Lezioni di politica economica - Federico Caffè

Leggi anche:   http://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Caff%C3%A8    
                           http://www.centrostudimalfatti.org/cms/federico-caffe/   
Vedi anche.   http://www.radioradicale.it/scheda/339901 


Significato della politica economica: sui rapporti con le altre discipline economiche e sociali.

   1.  Alcune distinzioni correnti tra economia e politica economica.

La definizione di una disciplina, anche se risponde ad esigenze didattiche, non può fornire che un’indicazione approssimativa e sommaria del significato della  disciplina stessa. Una comprensione più completa può ottenersi soltanto attraverso lo studio delle sue varie parti.

Con questa riserva le definizione più semplice del significato della politica economica consiste nel chiarire anzitutto che essa è parte della scienza economica intesa in senso lato; nel precisare poi che si tratta di quella parte che utilizza le conoscenze dell’analisi teorica come guida dell’azione pratica.

Ogni scienza ha come problemi ultimi quelli di comprendere e spiegare determinati fenomeni e di far uso della conoscenza come guida dell’azione. La politica economica, per effetto di un processo di specializzazione e di convenienza didattica, si occupa appunto di quella parte dell’indagine economica che assolve in modo più ravvicinato e diretto il secondo dei suoi compiti essenziali, quello cioè di essere di guida per l’azione. […]

Questi chiari rilievi consentono di avanzare due considerazioni. In primo luogo, sarebbe estremamente pedante pretendere che, negli insegnamenti economici che precedono quello specifico della politica economica, l’esposizione si mantenga rigorosamente “sul terreno proprio dei teoremi”, senza occuparsi in forma più o meno estesa anche  di problemi di politica economica. In secondo luogo, il fatto stesso che ciò di frequente si verifichi non fa che confermare l’assoluta correttezza dell’impostazione metodologica, dovuta anch’essa a un importante economista italiano, secondo la quale economia generale, economia finanziaria, politica economica non sono che “stadi successivi nel passaggio da una maggiore a una minore astrazione di un inscindibile sistema teorico.”(Del Vecchio, 1957, p. 131).

2.      La politica economica nella concezione di Jan Tinbergen.

La sostanziale unità dell’indagine economica non esime, come è ovvio, dal ricercare i caratteri differenziali tra le varie branche che rientrano nell’indagine stessa. Un’elegante presentazione dei rapporti tra analisi e politica economica è quella dovuta a Jan Tinbergen, economista olandese che, nei tempi più recenti, ha contribuito in modo notevole all’elaborazione sistematica della politica economica.

Occorre preliminarmente ricordare che gli sviluppi dello studio sia dell’intero sistema economico, sia di singoli mercati hanno portato a fornirne una rappresentazione schematica mediante modelli  costituiti da equazioni matematiche che esprimono le connessioni esistenti tra le grandezze economiche del sistema o della parte di esse considerata.

L’impiego di schemi semplificati, tendenti a ridurre la complessa realtà a “fatti stilizzati”, non costituisce un fatto nuovo nell’indagine dei fenomeni economici. […]

Ne risulta quindi, secondo le parole di Tinbergen  (1969, p. 19), che il processo logico per la ricerca della migliore politica economica, cioè per la determinazione delle misure in cui dati mezzi debbano essere impiegati per raggiungere dati fini, rappresenta, in certo senso, il processo logico inverso di quello cui è abituato l’economista. Il compito dell’analisi economica consiste nel considerare i “dati” (compresi in essi gli strumenti della politica economica) come noti e i fenomeni e le variabili economiche (compresi gli obiettivi della politica economica)  come incognite. Nella politica economica, si considerano gli obiettivi come noti e gli strumenti come incognite, o quanto meno come parzialmente incognite.

3.      I rapporti con le altre discipline

Sono stati indicati sinora i rapporti molto stretti esistenti tra le varie branche della scienza economica.  È anche necessario tener presente, tuttavia, che lo studio dei fenomeni economici si avvale estesamente dell’ausilio delle matematiche e delle statistiche, nonché dell’apporto  di altre discipline quali la storia generale ed economica, la sociologia, il diritto.

Più che sottolineare in termini generici l’utilità odierna delle ricerche “interdisciplinari”, piò essere utile richiamare l’attenzione sulle considerazioni che seguono, dovute allo studioso svedese Gunnar  Myrdal , che ha dato contributi eminenti sia all’economia sia alla sociologia.

... Le scienze sociali stanno ora penetrando ogni angolo della società e ogni fase della vita umana. Vanno gradualmente infrangendosi i tabù e la loro distruzione, nell’intento di razionalizzare il senso comune, è divenuta una dei maggiori obiettivi della scienza sociale occidentale. Ci rendiamo conto che tutti i problemi umani sono complessi; essi non possono essere incasellati nei comparti delle discipline accademiche tradizionali, in modo da essere considerati come problemi economici, psicologici, sociali o politici. A volte, per fini didattici o per maggiore efficacia della ricerca mediante la specializzazione, le antiche discipline sono state mantenute ad anche divise in sottodiscipline; tuttavia non viene da noi attribuito a queste divisioni il medesimo significato che avevano nel passato. Oggi, ad esempio, nessuno avanzerebbe conclusioni circa la realtà sociale unicamente in base a concetti economici, per quanto ciò fosse fatto frequentemente due generazioni fa. Per evitare impostazioni superficiali e unilaterali, le discipline sociali specializzate cooperano nella ricerca. In aggiunta, una particolare disciplina, la sociologia, pone l’accento sull’insieme delle relazioni sociali e si occupa in modo speciale di quei campi della realtà sociale, che sono analizzati in modo meno approfondito delle altre discipline. (Myrdal, 1968, vol. 1 p. 5).

4.      La funzione dei “giudizi di valore”

Si deve allo stesso Myrdal un contributo molto importante al chiarimento della posizione che le “premesse o giudizi di valore” (vale a dire le preferenze politiche e gli ideali etici) hanno nelle scienze economiche, o sociali in genere.

Il dibattito sull’obiettività della scienza (che implicherebbe la sua “neutralità” nei confronti dei diversi ideali politici e morali), ovvero sull’inevitabilità che essa rifletta anche la “visione del mondo” dello studioso (e quindi preferenze di carattere necessariamente soggettivo) è antico quanto lo sforzo umano rivolto all’ampliamento delle conoscenze. Myrdal ha contribuito a tale dibattito, assumendo una posizione decisamente critica nei confronti della  tradizionale e diffusa concezione secondo la quale la scienza potrebbe considerarsi tale solo in quanto “immune da giudizi di valore”.

Come egli scrive, “………Il credere nell’esistenza di un corpus di conoscenze scientifiche acquisite  indipendentemente da ogni giudizio di valore  è, come ora io ritengo, ingenuo empirismo (…)” In qualsiasi lavoro scientifico “ si devono porre delle domande per ottenere risposte. E le domande sono espressione del nostro interesse nelle cose del mondo, sono in essenza delle valutazioni. (Myrdal, 1953, Prefazione, p. VII).[1]

In altri termini, gli ideali umani costituiscono una componente ineliminabile della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli. È quello appunto che suggerisce Myrdal, allorchè afferma il suo convincimento “nella necessità di lavorare sempre, dal principio alla fine, con esplicite premesse di valore”; avvertendo inoltre che esse debbono essere “ importanti e significative per la società in cui viviamo”. (ibid. , p. VIII).[2]  […]

5.      I criteri ispiratori della trattazione

Per rimanere aderenti a questa impostazione,  ci è d’obbligo avvertire il lettore che la trattazione che seguirà è influenzata dalla premessa ideale del prevalere inevitabile delle idee, alla lunga, sugli interessi costituiti.   […]

Il metodo seguito nella trattazione è poi quello di tendere alla ricostruzione storica degli sviluppi sia del pensiero teorico, sia dell’azione dei poteri pubblici nella vita economica, nell’intento di porre in rilievo la maniera in cui i vari problemi si sono venuti ponendo nel corso del tempo.

Questa concezione che tende a considerare “il presente come storia”- per utilizzare il significativo titolo di un volume di Sweezy (1970) – non consente di evitare un tema oggi largamente dibattuto e che riguarda l’affermata “crisi” della scienza economica.

6.      Un’interpretazione dell’affermata “crisi” della scienza economica

[…] Nel tentativo di contribuirvi in qualche modo, si può prendere avvio da uno dei “lamenti” che ha avuto maggiore risonanza: quello elevato da Joan Robinson con il suo articolo “la seconda crisi della scienza economica”(1972). Già questo riferimento a una duplice crisi induce ad andare oltre l’argomentazione di mera scontatezza psicologica cui allude Hahn. La prima crisi coincise, cronologicamente, con il periodo della grande depressione degli anni trenta; la seconda è, ovviamente, quella che stiamo sperimentando. Elemento comune alle due crisi è l’evidente incapacità del pensiero economico di fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni sottoposti al suo esame e di proporre soluzioni adeguate ai più assillanti problemi del momento. Con riferimento alla prima crisi, la Robinson sintetizza lucidamente i punti di vista dell’”opinione  ortodossa” alla quale si contrappose polemicamente l’insorgenza Keynesiana. […]

Ciò che interessa sottolineare è che c’era, all’epoca della grande crisi, un pensiero economico egemone, che risultava tale indipendentemente dalla distinzione interna tra concezione marshalliana e concezione warlas-paretiana (vedi p. 21). Rispetto a questo pensiero egemone (che      – si ripete – comprende, ai fini che interessano, sia la scuola di Cambridge sia quella di Losanna) , vi erano le correnti eterodosse, ereticali (incluse quelle marxiste, o quelle istituzionaliste, seguite in particolare negli stati uniti). Esse, tuttavia, erano considerate talmente poco meritevoli di considerazione, da parte del pensiero “egemone”, che destò scandalo quel certo recupero che Keynes cercò di fare di alcune intuizioni degli eretici dell’economia (Keynes, 1936, cap.23; trad. it. 1947, pp. 297 sgg.).  […]

Vi è un’impostazione che, senza negare l’opera di creazione e di incremento della scienza, considera che essa debba sostanzialmente svolgersi nell’ambito di una concezione privilegiata nella quale sono contenute le premesse di ogni ulteriore svolgimento. Vi è un’impostazione che non si limita ad attribuire carattere privilegiato a una determinata concezione, ma ritiene indispensabile un’azione “guastatrice” che demolisca, una volta per tutte, orientamenti (come quello detto marginalistico) che pur hanno costituito parte del cammino della scienza economica. Vi è, infine, una concezione che considera la scienza economica come “un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico”(Del Vecchio, 1961).  […]

Vi è poi un aspetto della affermata “crisi” della scienza economica che investe direttamente la politica economica, in quanto sono riaffiorati di recente orientamenti di pensiero che, contrapponendo “lo stato” al “mercato” (secondo una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzante (Rosa e Aftalion, 1979). Atteggiamenti del genere sono talvolta indice di una specie di arrogante isolazionismo intellettuale, che sembra inconsapevole del carattere del tutto acquisito di temi metodologici (come quello della “neutralità” della scienza e della funzione dei giudizi di valore) che sono stati già da tempo chiariti e che vengono riproposti come nuovi.  Altre volte (come nel caso di f. Hayek e di M. Friedman, le figure più rappresentative del neo-liberismo economico), si sottolinea la validità del mercato, come forma organizzativa dell’assetto sociale, senza tener conto delle numerose dimostrazioni fornite, attraverso il tempo, dei “fallimenti del mercato”: aspetti che trovano una larga esemplificazione nel capitolo terzo di questo volume.

Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore. Sul piano storico, l’intervento pubblico nell’economia, è tutt’altro che esente da inconvenienti ed errori.

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[1] Può consultarsi anche Myrdal (1975).

[2] Chi sia interessato a un più approfondito esame di questi aspetti potrà consultare i seguenti scritti: Zeuthen (1961), in particolare cap. 1; J. A. Schumpeter, Scienza e ideologia, trad. it. in Caffè (1971a)pp.243sgg.


martedì 18 dicembre 2018

Compendio del Capitale - Carlo Cafiero

   

Prefazione
I - MERCE, MONETA, RICCHEZZA E CAPITALE
II - COME NASCE IL CAPITALE
III - LA GIORNATA DI LAVORO
IV - IL PLUSVALORE RELATIVO
V - COOPERAZIONE
VI - DIVISIONE DEL LAVORO E MANIFATTURA
VII - MACCHINE E GRANDE INDUSTRIA
VIII - IL SALARIO
IX - ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE
X - L'ACCUMULAZIONE PRIMITIVA 
CONCLUSIONE
APPENDICE:CORRISPONDENZA CAFIERO-MARX



Prefazione di Carlo Cafiero


Italia, marzo 1878

Un profondo sentimento di tristezza mi ha colto, studiando Il Capitale, quando ho pensato che questo libro era, e chi sa quanto rimarrebbe ancora, affatto sconosciuto in Italia.
Ma se ciò è, ho poi detto fra me, vuol dire che il mio dovere è appunto di adoperarmi a tutt’uomo, onde ciò più non sia. E che fare? Una traduzione? Ohibò. Ciò non servirebbe a nulla. Coloro che sono in grado di comprendere l’opera di Marx, tale quale egli l’ha scritta, conoscono certamente il francese, e possono avvalersi della bella traduzione di J. Roy, interamente riveduta dall’autore, il quale la dice meritevole di essere consultata anche da coloro che conoscono l’idioma tedesco. È ben altra la gente per la quale io devo lavorare. Essa si divide in tre categorie: la prima si compone di lavoratori dotati d’intelligenza e di una certa istruzione; la seconda, di giovani che sono usciti dalla borghesia, e hanno sposata la causa del lavoro, ma che non hanno peranco né un corredo di studi né uno sviluppo intellettuale sufficiente per comprendere Il Capitale nel suo testo originale; la terza, finalmente, di quella prima gioventù delle scuole, dal cuore ancora vergine, che può paragonarsi a un bel vivaio di piante ancora tenere, ma che daranno i più buoni frutti, se trapiantate in terreno propizio. Il mio lavoro deve essere dunque un facile e breve compendio del libro di Marx.
Questo libro rappresenta il nuovo vero, che demolisce, stritola e disperde ai venti tutto un secolare edificio di errori e di menzogne. Esso è tutta una guerra. Una guerra gloriosa, e per la potenza del nemico, e per la potenza, ancora più grande, del capitano, che l’intraprendeva con sì grande quantità di nuovissime armi, di istrumenti e macchine di ogni sorta, che il suo genio aveva saputo ritrarre da tutte le scienze moderne.
Di gran lunga più ristretto e modesto è il compito mio. Io devo solamente guidare una turba di volenterosi seguaci per la strada più facile e breve al tempio del capitale; e là demolire quel dio, onde tutti possano vedere con i propri occhi e toccare con le proprie mani gli elementi dei quali esso si compone; e strappare le vesti ai sacerdoti, affinché tutti possano vedere le nascoste macchie di sangue umano, e le crudelissime armi, con le quali essi vanno, ogni giorno, immolando un sempre crescente numero di vittime.
E in questi propositi che mi accingo all’opera. Possa frattanto Marx adempire la sua promessa, dandoci il secondo volume del Capitale, che tratterà della Circolazione del Capitale (libro II), e delle forme diverse che riveste nel corso del suo sviluppo (libro III), e il quarto e ultimo volume che esporrà la Storia della teoria.
Questo primo libro del Capitale, scritto originalmente in tedesco e poscia tradotto in russo e in francese, è ora brevemente compendiato in italiano nell’interesse della causa del lavoro. Lo leggano i lavoratori e lo meditino attentamente perché in esso si contiene non solamente la storia dello Sviluppo della produzione capitalista, ma eziandio il Martirologio del lavoratore.
E finalmente, farò anche appello a una classe altamente interessata nel fatto della accumulazione capitalista, alla classe cioè dei piccoli proprietari. Come va che questa classe, un giorno tanto numerosa in Italia, oggi si va sempre più restringendo? La ragione è molto semplice. Perché dal 1860 l’Italia si è messa a percorrere con più alacrità il cammino, che devono necessariamente percorrere tutte le nazioni moderne; il cammino che mena all’accumulazione capitalistica, la quale ha in Inghilterra raggiunta quella forma classica, che cerca di raggiungere in Italia come in ogni altro paese moderno. Meditino i piccoli proprietari sulle pagine della storia d’Inghilterra riportate in questo libro, meditino sull’accumulazione capitalista, accresciuta in Italia dalle usurpazioni dei grandi proprietari e dalla liquidazione dei beni ecclesiastici e dei beni demaniali, scuotano il torpore che opprime loro la mente e il cuore, e si persuadano una buona volta che la loro causa è la causa dei lavoratori, perché essi saranno inevitabilmente ridotti tutti, dalla moderna accumulazione capitalista, alla trista condizione: o vendersi al governo per la pagnotta, o scomparire per sempre fra le dense file del proletariato.
C. C. 

giovedì 4 agosto 2016

IL SANDALO E IL MANTELLO*- Gianfranco Pala

*[in Saggi in onore di Federico Caffè, vol. II] Angeli, Milano 1992     http://www.gianfrancopala.tk/ 

Quando Empedocle di Agrigento

si fu procurata la reverenza dei suoi concittadini insieme
agli acciacchi della vecchiaia,
decise di morire. Ma siccome
amava alcuni pochi, che lui riamavano,
non volle dinanzi a costoro annullarsi ma piuttosto
entrar nel Nulla.
Li invitò ad una gita. Non tutti:
questo o quello dimenticò, sì che nella scelta
e in tutta l’iniziativa
il caso sembrasse commisto.
Ascesero l’Etna.
Lo sforzo della salita
consigliava il silenzio. Nessuno ebbe a dire
parole di sapienza. Lassù
                                                                                                         ripresero fiato per tornare al ritmo consueto del sangue,
                                                                                                        intenti al panorama, lieti di essere alla meta.

Li abbandonò, inosservato, il maestro.
Quando ripresero a parlare, non si avvidero
ancora di nulla: soltanto più tardi
qua e là mancò una parola, e si volsero a cercarlo.
Ma già da tempo egli era oltre il dosso del monte,
pur senza troppo affrettarsi. Una volta soltanto
sostò e allora udì
come remota, da dietro la vetta,
riprendeva la conversazione. Le parole
non si potevano distinguere più: incominciava il morire.
Quando fu presso al cratere,
volto il capo, non volendo conoscere il seguito,
che non lo riguardava più, il vecchio si curvò lentamente,
sciolse con cura il sandalo dal suo piede, lo gettò sorridendo
di fianco, a pochi passi, sì che non troppo presto
lo si potesse trovare, ma pure in tempo; e cioè
prima che fosse marcito. Soltanto allora
venne al cratere. Quando gli amici suoi
furono senza di lui ritornati cercandolo,
cominciò a grado a grado per settimane e mesi
la sua scomparsa, com’egli aveva voluto. C’era
chi l’aspettava ancora mentre già altri
cercavano da soli le soluzioni. Lentamente, come nuvole
nel cielo si allontanano, immutate, appena più piccole,
e più si fanno, quando non le si guardino, più lontane,
e, se le cerchi di nuovo, già forse confuse con altre, così
s’allontanava egli dalla loro consuetudine, in modo consueto.
Poi sorse una diceria:
che morto non fosse, perché non mortale, si disse.
Il mistero lo avvolse. Si riteneva possibile
che oltre la sfera terrestre altro ci fosse: che il corso
delle cose umane potesse per un solo uomo mutarsi; e simili chiacchiere.
Ma fu trovato in quel tempo il sandalo suo, di cuoio,
palpabile, consunto, terrestre! Lasciato per quelli
che, se non vedono, subito cominciano col credere.
La fine dei suoi giorni
ritornò naturale. Come chiunque altro era morto.

Altri descrivono invece l’accaduto
altrimenti: quell’Empedocle
avrebbe davvero tentato di garantirsi onori divini
e con un’evasione misteriosa, un’astuta
caduta nell’Etna, senza testimoni, fondar la leggenda
che egli non fosse di natura umana né sottoposto
alle leggi della decadenza. Ma che allora
il sandalo gli avesse giocato il tiro di cader nelle mani degli uomini.
(Altri dicono persino che sia stato il cratere, irato,
per una simile iniziativa, a sputar via semplicemente
il sandalo di quel degenerato). Ma noi qui preferiamo credere
che se realmente non si fosse tolto il sandalo, avrebbe piuttosto
dimenticato soltanto la nostra stoltezza, senza pensare che noi
precipitosamente vogliamo far più buio quel che è buio, preferendo
credere a cose insulse, invece di cercare un motivo plausibile. E il monte
- ma non sdegnato però per tanta trascuratezza o nemmeno persuaso
che colui avesse voluto ingannarci per scroccare onori celesti
(ché nulla crede il monte e di noi non si cura)
ma anzi vomitando fuoco come sempre - avrebbe allora sputato
il sandalo e i discepoli così
- già occupati a fiutar qualche grande mistero,
a svolgere profonda metafisica; fin troppo occupati! -
afflitti dovettero a un tratto fra le mani tenersi quel sandalo
del maestro, fatto di palpabile cuoio, terrestre.

 Alla storia di Empedocle e del suo sandalo - narrata da Bertolt Brecht, nella scrittura italiana dovuta a Franco Fortini - è affidato qui un ruolo molto più rilevante di quello che potrebbe avere una semplice parabola introduttiva. La lezione integrale della poesia non è un vezzoso “occhiello”, ma è parte essenziale, da meditare profondamente, di quanto si espone. Se non fosse per la bisogna di una certa convenzione accademica, così potrebbe iniziare e terminare nel miglior modo il pensiero, e l’omaggio, che si vuole esprimere. Ma la scienza economica, tristemente, non lo consente.

Il sandalo del maestro, fatto di palpabile cuoio terrestre, mal si ac­compagna al mantello degli “affarucci” keynesiani. Quel mantello, già buca­to e coperto di fango - secondo la metafora di Abba Lerner, ricordata da Caffè stesso - fu l’oggetto di penosi tafferugli, tra i molti che vollero spar­tirselo, tirandolo e strappandolo a destra e a manca. Quello è lo stesso man­tello cui costantemente guardò Caffè, ma senza la pretesa di appropriarsene, consapevole forse del diverso stile di portamento che avrebbe imposto.

Se le dichiarazioni di intenti e gli strumenti keynesiani furono l’os­satura dell’intera opera di Caffè, ben più amari di quelli visitati da lord Key­nes dovettero alfine risultare i suoi presupposti e i suoi obiettivi. Proprio costì - nell’illusorietà, protrattasi oltre ogni credibile riscontro, di una sperata adeguatezza di quegli strumenti al perseguimento degli intenti di­chiarati di giustizia sociale - ha proliferato la solitudine del riformista. Tradendo consapevolmente quel riferimento keynesiano, che Caffè stesso voleva, per considerare i “punti fermi” di una economia sociale progressista, qui si desidera mostrare sommariamente, invece, proprio l’incompatibilità di ultima istanza tra quei punti e l’impianto teorico politico di lord Keynes.

martedì 17 novembre 2020

Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento - Riccardo Bellofiore, Laura Pennacchi

 Da: Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova - https://sinistrainrete.info - Introduzione all’edizione italiana di Ending Poverty. Jobs not Welfare. In: Hyman P. Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, traduz. di Anna Maria Variato, Ediesse, Roma, 2014.

Laura Pennacchi è un'economista e politica italiana. - Riccardo Bellofiore, Università di Bergamo, Professore ordinario di Economia politica. -

Leggi anche: IL PROFETA DELLA CRISI. TRIBUTO A HYMAN MINSKY - intervento di Riccardo Bellofiore - 

Fine di un’epoca - Vladimiro Giacché

CATASTROFE O RIVOLUZIONE - Emiliano Brancaccio 


Il pensiero di Hyman P. Minsky è tornato d’attualità con l’approssimarsi e poi lo scoppio della crisi finanziaria dell’estate del 2007, la cosiddetta crisi dei subprime, sin dai primi mesi di quell’anno [1]. Era già capitato almeno un paio di volte nel decennio precedente: Paul McCulley di PIMCO aveva evocato un Minsky moment a proposito della crisi russa del 1998 e George Magnus di UBS aveva ripreso il termine nella prima metà del 2007. I più attenti erano stati i bloggisti e gli analisti finanziari. La crisi era giunta come una sorpresa per i più. In realtà, essa covava da tempo, e le sue ragioni tutto avrebbero dovuto apparire meno che misteriose.


La Grande Recessione

La sequenza degli avvenimenti è stata classica. Lo sgonfiamento della bolla immobiliare nel 2005 ha generato, prima, la crisi del mercato dei subprime, con annessi e connessi: fallimento di hedge fund, blocco di leveraged buy out, crisi di banche di investimento. Poi sono venuti i segnali di illiquidità e di stretta creditizia, che hanno fatto temere che l’illiquidità si mutasse in insolvenza. Il castello delle relazioni di debito-credito è andato in fibrillazione, le banche hanno cessato di farsi credito l’un l’altra e la preferenza per la liquidità e per i titoli di Stato si è innalzata drasticamente, così come il premio per il rischio. Il bisogno di un intervento delle banche centrali quali prestatori di ultima istanza è divenuto parossistico, e la spinta ad una riduzione dei tassi di interesse irresistibile. Una successione nota, ma che ha visto stavolta qualche novità nei protagonisti, gli strumenti finanziari che hanno costruito il castello della speculazione.

Questa volta, la crisi dei debitori ultimi, famiglie povere con lavori precari, ha avuto come anello di trasmissione il fatto che le proprietà pignorate perdevano di valore ormai da un po’ e sono iniziate le esplosioni nel campo minato della nuova finanza. Ormai anche l’uomo della strada sa cosa siano i «derivati», le «condotte», i titoli «cartolarizzati» appoggiati sulle ipoteche, le obbligazioni del debito «collateralizzate». Ciò che doveva rendere trasparente il mercato e minore il rischio ha fatto invece collassare le relazioni tra operatori per l’opacità dell’informazione, per la corruzione delle agenzie di rating, per l’impossibilità di sfuggire all’azzardo morale.

Come è noto, quella crisi si è poi sviluppata, almeno a partire dalla metà del 2008, in una Grande Recessione globale che si è estesa, con caratteristiche proprie, al vecchio continente europeo. Una «grande crisi» capitalistica paragonabile soltanto a quel Grande Crollo degli anni Trenta del Novecento (di cui aveva scritto magistralmente John Kenneth Galbraith) e che ha fatto impallidire il ricordo della Grande Stagflazione degli anni Settanta. Da quella crisi non siamo in realtà ancora usciti. Non a torto Paul Krugman e Brad DeLong sostengono che saremmo entrati in una Depressione Minore. Qualcosa che a nostro avviso male si farebbe a ridurre ai problemi, pur gravi e reali, di una distribuzione del reddito squilibrata a danno del lavoro o di semplice insufficienza di domanda aggregata.