La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
sabato 27 agosto 2016
venerdì 26 agosto 2016
Domenico Losurdo: La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra*- Maurizio Brignoli
*Da: http://www.recensionifilosofiche.info/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/07/colonialismo-neocolonialismo-e.html
Losurdo, Domenico, La sinistra assente. Crisi,
società dello spettacolo, guerra
Roma, Carocci, 2014, pp. 303, euro 23, ISBN 978-88-430-7534-2
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/07/colonialismo-neocolonialismo-e.html
Losurdo, Domenico, La sinistra assente. Crisi,
società dello spettacolo, guerraRoma, Carocci, 2014, pp. 303, euro 23, ISBN 978-88-430-7534-2
Il lavoro di Losurdo parte dalla constatazione che, di
fronte a una crisi economica e politica, caratterizzata dallo svuotamento della
democrazia e dall’affermazione di una “plutocrazia” sempre più dominante, in
Occidente c’è una sinistra assolutamente incapace di produrre un’analisi di
questa duplice crisi e di articolare un progetto di lotta e di trasformazione
politica della realtà esistente.
Si riscontrano due processi fra di loro intrecciati: la
“grande divergenza” fra l’Occidente e il resto del mondo (in particolare
la Cina) tende a ridursi, mentre nei paesi
capitalisticamente più avanzati si afferma la “grande divergenza” fra un’élite
opulenta e il resto della popolazione. Di fronte a questa situazione
l’Occidente capitalistico procede smantellando lo stato sociale e tenta
contemporaneamente di ristabilire la propria supremazia internazionale
attraverso il ricorso a guerre neocoloniali. L’ideologia dominante punta a
giustificare lo smantellamento dello stato sociale come necessaria conseguenza
della crisi economica, in realtà, mostra Losurdo, ciò che avviene ai nostri
giorni è il frutto di «una lotta di classe che abbraccia oltre due secoli di
storia» (p. 22). Ad esempio, alla fine della seconda guerra mondiale, Hayek
sottolineava come il welfare state inglese costituisse una minaccia per le
caratteristiche fondamentali della civiltà occidentale, mentre negli anni ‘70
definiva i “diritti sociali ed economici”, sanciti dall’Onu, frutto
dell’influenza rovinosa della rivoluzione bolscevica. L’attacco a questi
diritti non si origina quindi in riferimento alla crisi economica.
Con la guerra fredda si è affermata un’ideologia secondo cui
il mondo capitalista coinciderebbe con il “mondo libero”, ma proprio a causa
del trionfo in questa guerra le condizioni all’interno dell’Occidente sono
peggiorate: crisi, precarietà, licenziamenti, disoccupazione e riduzione delle
libertà sindacali. La lotta secolare del movimento operaio, che era anche una
lotta per la libertà volta a ridurre il potere esercitato dalla volontà altrui,
oggi viene progressivamente ricacciata indietro. La diseguaglianza economica si
traduce in diseguaglianza politica. Abbiamo quello che l’autore chiama
“monopartitismo competitivo” (p. 52) in cui due partiti fanno riferimento a uno
dei due gruppi di interessi in cui si articola la ristretta minoranza che
controlla la ricchezza e la vita politica del paese; la conseguenza è che i
movimenti di protesta sfociano in jacquerie urbane prive di sbocco politico e
di riferimenti all’interno del parlamento, a riprova di come le masse popolari
si trovino prive di rappresentanza in organismi che sono eletti sulla base di
quella che di fatto è una discriminazione censitaria, o nel rafforzarsi dei
partiti populisti.
mercoledì 24 agosto 2016
Il ruolo della Germania nella crisi europea*- Vladimiro Giacché
La crisi non è un incidente, non è esogena, al contrario:
essa mostra una continuità o meglio una consequenzialità rispetto ad alcuni
trend di fondo.
L’innesco della crisi è rappresentato dal collasso del
modello di consumo degli Stati Uniti, basato sull’indebitamento privato, che
consentiva di mantenere consumi elevati nonostante stipendi in calo ormai da
decenni (per i dati relativi vedi V. Giacché, Titanic Europa, 2012, pp. 29-30).
Viene alla luce un “sistema bancario ombra”, che consentiva
di occultare una leva finanziaria elevatissima (rapporto attività/mezzi propri
pari o superiore a 30). In tal modo le perdite maturate in alcuni settori
(mutui subprime e obbligazioni basate su di essi) si estendono a macchia d’olio
agli altri, nel momento in cui le banche e le società finanziarie coinvolte sono
costrette a vendere in perdita gli assets finanziati a leva.
Il sistema finanziario è sconvolto dalla crisi e ne
amplifica gli effetti. Quando nel settembre 2008 la banca d’investimento Lehman
Brothers fallisce, la circolazione del capitale sembra per qualche tempo interrompersi
su scala mondiale, si verificano corse agli sportelli e fenomeni di
tesaurizzazione.
Crollano produzione e commercio internazionale.
Tra la fine del 2008 e la prima metà del 2009 la bancarotta
delle principali istituzioni finanziarie a livello mondiale, ma anche di molte
grandi imprese manifatturiere (si pensi al settore automobilistico
statunitense), fu sventata soltanto grazie a interventi pubblici di salvataggio
senza precedenti. Nel giugno 2009 la Bank of England rivelò che i sussidi e le
garanzie offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della
Gran Bretagna e dei paesi dell’Eurozona a sostegno del sistema bancario
ammontavano alla cifra di 14.000 miliardi di dollari.
Si trattava precisava lo stesso rapporto di una cifra
equivalente a circa il 50% del prodotto interno lordo di quei paesi (Bank of
England2009). Si ebbe in tal modo una gigantesca trasformazione di debito
privato in debito pubblico o, per essere più chiari, una gigantesca
socializzazione delle perdite.
La crisi iniziata nel 2007 ha distrutto capitale reale e
fittizio in enorme quantità (a conferma del carattere non ciclico della crisi).
Ma non è riuscita a rilanciare l'accumulazione di capitale su scala globale. Stati
Uniti, Giappone e Unione Europea (e più in particolare l'eurozona) si trovano
molto al di sotto della crescita potenziale stimata prima della crisi.
1. La narrazione standard della crisi fase 1: 2007-2009.
Finanza colpevole: una spiegazione convincente?
2. La narrazione standard della crisi fase 2: 2010-2014.
Debito pubblico eccessivo: una spiegazione convincente?
3. Alla ricerca di una spiegazione alternativa: la crisi
come effetto di una evoluzione strutturale
4. Le leve della crescita nei paesi a capitalismo maturo
dagli anni 1980: finanza e debito
5. Il ruolo dell’euro nella crisi europea
6. Il ruolo della Germania
7. Possibili prospettive
Leggi tutto: https://www.academia.edu/26313456/Il_ruolo_della_Germania_nella_crisi_europea_Treviglio_12_maggio_2016
Leggi tutto: https://www.academia.edu/26313456/Il_ruolo_della_Germania_nella_crisi_europea_Treviglio_12_maggio_2016
martedì 23 agosto 2016
In cerca di un soggetto storico: forme e figure - Roberto Fineschi
Video del quinto incontro del ciclo "Ripartire da Marx" organizzato da Rete dei Comunisti - Torino e da Noi Restiamo -
Torino.
Lezioni precedenti: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/roberto-fineschi-marx-economista.html
domenica 21 agosto 2016
Il Manifesto del Partito Comunista*- Karl Marx e Friedrich Engels (1848)
*Da: http://www.controappuntoblog.org/2012/04/15/manifesto-del-partito-comunista/ https://www.marxists.org
II. Proletari
e Comunisti
In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?
I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli
altri partiti operai.
I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di
tutto il proletariato.
I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano
modellare il movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari
solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli
interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato,
nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall'altra per il fatto che
sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i
vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.
Quindi in pratica i comunisti sono la parte progressiva più
risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno
il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le
condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario.
Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli
altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del
dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del
proletariato.
Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto
su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del
mondo.
Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di
fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si
svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione di rapporti di proprietà esistiti
fino a un dato momento non è qualcosa di distintivo peculiare del comunismo.
Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a continui
cambiamenti storici, a una continua alterazione storica.
Per esempio, la rivoluzione francese abolì la proprietà
feudale in favore di quella borghese.
Quel che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione
della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese.
Ma la proprietà privata borghese moderna è l'ultima e la più
perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che
poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli
altri.
sabato 20 agosto 2016
Platone: la Repubblica - Luciano Canfora
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/la-repubblica-di-platone-francesco.html
Se davvero la Repubblica di Platone intende essere una proposta utopica
Se davvero la Repubblica di Platone intende essere una proposta utopica
venerdì 19 agosto 2016
GIUSTA, INGIUSTA, UNILATERALE. La Famiglia in relazione allo Stato.*- Emily Rampoldi**
**EMILY RAMPOLDI - LICEO CLASSICO ALESSANDRO VOLTA
(COMO) - CLASSE IIIG - CORSO COMUNICAZIONE - A.S.: 2010/2011
"La
Famiglia, come lo Stato, è giusta in sé dal momento che tutela i propri
membri insieme con i loro pensieri, ideologie, sentimenti. Tuttavia è
contemporaneamente ingiusta poiché nella sua unilateralità non è in grado
di raggiungere un compromesso costruttivo con il potere etico a lei così
strettamente legato."
- Capitoli
Una famiglia è costituita da un gruppo di persone che vivono
insieme. Nella cultura occidentale una famiglia spesso è definita in modo
specifico come un gruppo di persone affiliate da legami consanguinei o legali,
come il matrimonio o l'adozione o la discendenza da progenitori comuni. Molti
antropologi sostengono che la nozione di "consanguineo" deve essere
intesa in senso metaforico; alcuni sostengono che ci sono molte società di tipo
non occidentale in cui la famiglia viene intesa attraverso concetti diversi da
quelli del "sangue".
giovedì 18 agosto 2016
mercoledì 17 agosto 2016
Le troiane - Euripide
Le troiane di Euripide, edizione del 1966, con Sarah Ferrati, Anna Maria Guarnieri, Enrico Maria Salerno,
Laura Tavanti, Roldano Lupi, Esmeralda Ruspoli, Orazio Orlando, Anna Miserocchi, Lia Angelieri, Luisa Aluigi, Anna Bruno, Anna Maria Chio, Vittoria Dal Verme, Piera Degli Esposti, Cesarina Gheraldi, Maddalena Gillia, Milena Vucotich. Regia di Vittorio Cottafavi.
Laura Tavanti, Roldano Lupi, Esmeralda Ruspoli, Orazio Orlando, Anna Miserocchi, Lia Angelieri, Luisa Aluigi, Anna Bruno, Anna Maria Chio, Vittoria Dal Verme, Piera Degli Esposti, Cesarina Gheraldi, Maddalena Gillia, Milena Vucotich. Regia di Vittorio Cottafavi.
martedì 16 agosto 2016
Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale*- Armando Lancellotti
*Da: https://www.carmillaonline.com/

Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta
Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema
sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai
due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la
seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e
nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero
complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo
indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica
del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo
consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta
libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi
malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità
morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale
crimine.

Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio
e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi,
Roma, 2016, pp.350, € 20,00
«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza
come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta
Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema
sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai
due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la
seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e
nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero
complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo
indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica
del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo
consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta
libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi
malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità
morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale
crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio
degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e
da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato –
secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica
(nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori
spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una
(contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di
riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio
di milioni di uomini.
Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla
scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann,
constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”,
“inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi
suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una
premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba
essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative
assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina
genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un
contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori
di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti
decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del
male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano
uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui
solitamente considerabili come “persone per bene”.
lunedì 15 agosto 2016
domenica 14 agosto 2016
sabato 13 agosto 2016
M. Heidegger: La fine della filosofia e il compito del pensiero - Carlo Sini
"Comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l'individuo, ognuno è comunque un figlio del suo tempo; così anche la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero. Che una qualsiasi filosofia oltrepassi il suo mondo attuale è un'opinione altrettanto stolta di quella secondo cui un individuo salti oltre il proprio tempo [...]. Come pensiero del mondo essa compare, nel tempo, soltanto dopo che la realtà ha compiuto il proprio processo di formazione e si è del tutto fatta [...]. Quando la filosofia dipinge il suo chiaroscuro, allora una figura della vita è diventata vecchia, e con il chiaroscuro essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva comincia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo." (Hegel)
(Il video si interrompe al minuto 33,49 per riprendere al minuto 34,15)
venerdì 12 agosto 2016
giovedì 11 agosto 2016
mercoledì 10 agosto 2016
Il proletariato non è il soggetto della storia*- Moishe Postone**
*(Estratto dal libro di Moishe Postone, « Temps, travail
et domination sociale. Une réinterprétation de la théorie critique de Marx »,
pp. 519-524, Mille et une nuits, 2009) Da: http://francosenia.blogspot.it/
** Moishe Postone è uno storico canadese,
professore di storia all'Università di Chicago. Dal 1972 al 1982 ha vissuto a
Francoforte sul Meno dove è stato collaboratore dell'Istituto di Ricerche
Sociali.
Ora, possiamo tornare alla questione del ruolo storico della
classe operaia e della contraddizione fondamentale del capitalismo, così come
viene trattata implicitamente da Marx nella sua critica della maturità. Nel
concentrarmi sulle forme strutturanti la mediazione sociale, costitutive del
capitalismo, ho mostrato che la lotta di classe non genera, in sé e per sé, la
dinamica storica del capitalismo; in realtà, essa è un elemento motore di
questo sviluppo solo perché è strutturata da delle forme sociali
intrinsecamente dinamiche. Come si è già detto, l'analisi di Marx respinge
l'idea che la lotta fra la classe capitalista ed il proletariato sia una lotta
fra la classe dominante nella società capitalista e la classe che reca in sé il
socialismo e che, di conseguenza, il socialismo rappresenti
l'auto-realizzazione del proletariato. Quest'ultima idea è strettamente legata
alla comprensione tradizionale della contraddizione fondamentale del
capitalismo in quanto contraddizione fra la produzione industriale ed il
mercato e la proprietà privata. Ciascuna delle due grandi classi del
capitalismo viene identificata come uno dei termini di questa
"contraddizione"; l'antagonismo fra lavoratori e capitalisti viene
perciò visto come l'espressione sociale della contraddizione strutturale fra le
forze produttive ed i rapporti di produzione. Tutta questa concezione si basa
sul concetto di "lavoro" visto come fonte trans-storica della
ricchezza sociale e come elemento costitutivo della vita sociale.
Ho criticato i postulati che stanno alla base di questa
concezione, spiegando nel dettaglio le distinzioni operate da Marx fra il
lavoro astratto ed il lavoro concreto, fra il valore e la ricchezza materiale,
e mostrando la centralità che tali distinzioni hanno nella sua teoria critica.
A partire da queste distinzioni, ho sviluppato la dialettica del lavoro e del
tempo che si trova al cuore dell'analisi marxiana del modello di crescita e
della traiettoria di produzione che caratterizzano il capitalismo. Secondo
Marx, lungi dall'essere la materializzazione delle sole forze produttive, che
sono strutturalmente in contraddizione con il capitale, la produzione
industriale fondata sul proletariato è completamente modellata dal capitale;
essa è la materializzazione delle forze produttive e dei rapporti di
produzione. Non può quindi essere assunto come un modo di produzione che,
immutato, potrebbe servire da base al socialismo. In Marx, la negazione storica
del capitalismo non può essere intesa come una trasformazione che renderebbe
adeguato il modo di distribuzione al modo di produzione industriale sviluppato
sotto il capitalismo.
lunedì 8 agosto 2016
Il lungo XX secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo - Vladimiro Giacché

"Raccontare la storia del lungo XX secolo consiste in gran parte nel mostrare come e perché il regime di accumulazione statunitense: 1) emerse dai limiti, dalle contraddizioni e dalla crisi del capitalismo del libero scambio della Gran Bretagna come struttura regionale dominante dell'economia-mondo capitalistica; 2) ricostituì l'economia-mondo su basi che resero possibile un'altra tornata di espansione materiale; 3) ha raggiunto la propria maturità e sta forse preparando il terreno per l'emergere di un nuovo regime dominante" (Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, 1994, p: 313)
Nella storia del capitalismo il Novecento - il cui inizio
Giacché data nel 1896, quando finisce la Grande Depressione iniziata nel 1873 -
è stato il secolo USA. L'ultima crisi, esplosa in forme acute dal 2007, ne
segna il declino e apre nuovi orizzonti.
E' possibile e auspicabile che la crisi che segna la fine
del lungo XX secolo ci riconsegni la consapevolezza della possibilità di un
"livello superiore di produzione sociale", rilanciando l'idea di una
regolazione dell'economia da parte dei produttori associati.
La tendenza, intrinseca al capitale, ad oltrepassare ogni
limite nella sua espansione diviene un fattore esplosivo qualora ad essa si
pretenda di informare la politica estera.
Già dal 1913 gli USA sono la prima potenza industriale del
mondo, esprimendo il 33% della produzione industriale mondiale: poco meno di
Gran Bretagna, Germania e Francia messi insieme; nel 1929 il rapporto salirà a
42% contro 28%.
Un'eccezione, nel panorama della crisi mondiale è
rappresentata dall'URSS dei piani quinquennali: dal 1929 al 1940 la produzione
industriale triplica, salendo dal 5% della produzione manifatturiera mondiale
(quota del 1929) al 18% (quota del 1938).
Fu solo grazie all'ingresso nella seconda guerra mondiale e
alla messa in opera della macchina bellica relativa, e non grazie agli
investimenti di Roosevelt in opere
pubbliche a carattere civile, che gli USA riuscirono a risollevarsi dalla
Grande Crisi degli anni trenta.
Il "miracolo economico" del periodo postbellico fu
favorito anche dall'enorme distruzione di capitale in eccesso avvenuta con la
guerra che eliminò la sovrapproduzione, come pure la popolazione lavoratrice
eccedente.
Nel 1971 (fine del gold-exchange standart) il dollaro diviene una
moneta assolutamente fiduciaria, senza riferimento alle riserve in oro della
Federal Reserve, ma resta il perno del sistema monetario internazionale,
inondato di dollari: da 30mrd nel 1958 ad oltre 11.000 nel 2004.
La fine dell'Urss marca uno spartiacque nella storia del XX
secolo, e conferisce al capitalismo conteporaneo l'aura, più ancora che della
superiorità, della definitività: "Non esiste altra società all'infuori di
me", grida ogni giorno da ogni mezzo di informazione il capitalismo contemporaneo.
Bisogna però distinguere tra ideologia e concreto processo storico, in punto di
vista economico. A quest'ultimo riguardo, infatti, l'esultanza per la fine
dell'Urss lasciò presto il campo a nuove preoccupazioni. E il venir meno del "Nemico"
esterno accentuò i conflitti intercapitalistici.
L'eccesso di credito e di finanza non era né una viziosa
deviazione dal corso sano e ordinato dell'economia, né una malattia, semmai il
sintomo e al contempo la droga che ha permesso di non avvertirla. La malattia
era un'altra: la stentata valorizzazione del capitale.
Nella crisi attuale confluiscono due diversi processi: la
tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi a capitalismo maturo, e
la più specifica crisi del regime di accumulazione statunitense, che ha
dominato il secolo passato ma non dominerà il nostro.
Ora la possibilità del passaggio ad un modo superiore e meno
primitivo di produzione sociale è proprio ciò che nei nostri anni è stato
violentemente rimosso, appiattendo il futuro sulla semplice continuazione del
presente. La possibilità di un "livello superiore di produzione sociale"
è stata accantonata come un'utopia totalitaria, facendo dell'attuale il
migliore dei mondi possibili - anzi, l'unico. E' da anni ormai, che
l'accettazione di questa limitazione del nostro orizzonte storico-sociale è
divenuta un fenomeno di massa. E' tempo di intendere che il prezzo di questa
accettazione sta diventando decisamente troppo alto. E' possibile e auspicabile
che la crisi che segna la fine - ritardata di qualche anno rispetto al
calendario - del lungo XX secolo ci riconsegni questa consapevolezza,
rilanciando l'idea di una regolazione dell'economia da parte dei produttori
associati: il progetto marxiano di
"fare
della proprietà privata individuale una verità trasformando i mezzi di
produzione, la terra e il capitale, ora principalmente mezzi di asservimento e
di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di un lavoro libero e
associato" (Marx 1871: 300).
domenica 7 agosto 2016
L'imperialismo oggigiorno: che cos'è e dove va*- Guglielmo Carchedi
I. Con la disfatta storica del movimento
operaio, la parola ‘imperialismo’ è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed
è stata rimpiazzata da ‘globalizzazione’. Tuttavia, se la parola è scomparsa,
la realtà persiste.
Vediamo prima di tutto cosa non è l’imperialismo. Prendiamo
ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di
Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare
telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare
una valutazione anche minimamente completa .
Nell’Impero di Negri, mentre l’imperialismo era
un’estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini
nazionali, ora l’Impero è un network globale di potere e contro potere senza un
centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può
formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti
intervengono militarmente nel nome della pace e dell’ordine (p.181).
Ma è ovvio
(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se
come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti
(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il
potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate
(3) che l’imperialismo, lungi dallo scomparire si sta
trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso
(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere
la pace, è un’affermazione che glorifica e giustifica quell’imperialismo di cui
Negri nega l’esistenza.
Consideriamo allora una persona più seria, Lenin. Posso solo
soffermarmi solo su alcuni aspetti economici. Il suo testo sull’Imperialismo,
anche se vecchio di un secolo, per alcuni versi è ancora attuale, anche se
ovviamente deve essere aggiornato.
sabato 6 agosto 2016
venerdì 5 agosto 2016
LA QUESTIONE DEL SALARIO*- Riccardo Bellofiore
Il tempo è lo spazio
dello sviluppo umano. Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta la sua vita, all’infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per mangiare e così via, è preso dal suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia da soma. Egli non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri, è fisicamente spezzato e spiritualmente abbrutito. Eppure, tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione.
Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865
1. Introduzione
Tutti ormai parlano di una ‘questione salariale’. I modi,
certo, sono diversi: ma che il il potere
d’acquisto dei lavoratori sia stato compresso, e compresso al punto tale che
una qualche reazione
che contrasti questa deriva economicamente e socialmente pericolosa sia ormai
necessaria, è ormai
senso comune. Si ripete quello che è già avvenuto qualche anno fa con la
denuncia del ‘declino’
italiano. Una denuncia nata, dapprincipio, ‘a sinistra’, che poi diviene
generale, e per ciò stesso ne
viene non poco snaturata.
La destra ha, come sempre, una ricetta elementare: lasciate
ripartire lo sviluppo, magari
grazie alla massima deregolazione del mercato del lavoro, e se possibile grazie
all’abbattimento più
generale possibile delle garanzie. La disuguaglianza che eventualmente si
producesse di
conseguenza verrebbe automaticamente corretta dal meccanismo di mercato, e lo
stesso benessere
reale dei lavoratori ne guadagnerebbe. Il contributo dello Stato a questa
prospettiva sta puramente e
semplicemente nel farsi da parte: magari riducendo le tasse su lavoro e
capitale, visto che proprio
non le si può cancellare.
Se ci muoviamo verso il centrosinistra – tanto più
‘compassionevoli’ siano i neoliberisti,
tanto più orientati alla riregolamentazione e redistribuzione siano i
social-liberisti – i toni cambiano
un po’. Lo sviluppo non basta da sé, né il ‘lasciar fare’ è la panacea
universale. E’ vero, la
globalizzazione e i rischi di derive inflazionistiche (provenienti peraltro
dalle materie prime e dai
beni alimentari) sconsigliano aumenti del salario monetario, che darebbero vita
a una minore
competitività. Gli effetti di miglioramento sul tenore di vita sarebbero presto
azzerati. Ma proprio le
‘liberalizzazioni’, la lotta alle ‘rendite’, ovunque esse si annidino, possono
determinare una
modificazione dei prezzi relativi che valga a calmierare i prezzi dei beni
acquistati dai lavoratori
(aumentando, perciò, il salario reale a parità di salario monetario), e allo
stesso tempo consenta di
ridurre (direttamente o indirettamente) i costi per le imprese. L’equivalente
odierno delle riforme-
grano di Ricardo.
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