Da: https://www.autistici.org/operaismo/Autonomi3/index.html - Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/11/storia-del-sessantotto-michele-brambilla.html
Il manifesto 20-02-83/22-02-83
Queste
pagine, scritte da undici detenuti del 7 aprile a Rebibbia, non sono
un documento per la difesa. Sono un tracciato di identità e una
proposta di interpretazione di quel che è stata l’Autonomia nella
realtà sociale e politica dell’Italia degli anni ’70. Da
sottoporre una discussione, che già noi cominceremo.
Fin
d’ora vorremmo dire due cose. La prima è che questo scritto è un
atto di lealtà; gli imputati del 7 aprile non si presentano come
vittime e tanto meno come pentiti, anche se si interrogano su una
sconfitta; pur sapendo che questo non accattiverà loro la
benevolenza di una opinione che oggi rigetta lontano da sé ogni
memoria (e di qui il titolo ironico e autoironico da loro scelto). La
seconda è che di questo loro documento tutto, ci sembra, può essere
discusso, e anche radicalmente ma dovrebbe esserlo con onestà,
ricollocando le parole e il loro senso nel contesto degli anni cui si
riferiscono («violenza» sarà il test del buon teorico). Dopo di
che, si può anche dissentire da tutto. Il manifesto è aperto a ogni
contributo che abbia questo spirito. (r. r.)
Do
you remember revolution? Proposta
di lettura storico-politica per il movimento degli anni Settanta
Guardando
indietro, riesaminando ancora una volta con la memoria e la ragione
gli anni ’70, di una cosa almeno siamo certi: che la storia del
movimento rivoluzionario, dell’opposizione extraparlamentare prima
e dell’autonomia poi, non è stata storta di emarginati o di
eccentrici, cronaca di allucinazioni settarie, vicenda catacombale o
furore di ghetto. Crediamo realistico affermare, viceversa, che
questa storia – una cui parte è divenuta materia processuale –
sia intrecciata inestricabilmente alla storia complessiva del paese,
ai passaggi cruciali e alle cesure che l’hanno scandita.
Tenendo
fermo questo punto di vista (In sé banale, eppure, di questi tempi,
temerario e persino provocatorio), avanziamo un blocco d’ipotesi
storico-politiche sul passato decennio, che esulano da preoccupazioni
d’immediata difesa giudiziaria. Le considerazioni che seguono
sovente in forma di semplice posizione di problemi, non sono rivolte
ai giudici, finora interessati solo alla mercanzia dei «pentiti»,
ma a tutti coloro che negli anni trascorsi hanno lottato: ai compagni
del ’68, a quelli del ’77, agli intellettuali che hanno
«dissentito» (è così che s’usa dire, ora?) giudicando razionale
la rivolta. Perché intervengano a loro volta, rompendo il circolo
vizioso della rimozione e del nuovo conformismo.
Riteniamo
sia venuto il momento di riaffrontare la verità storica degli anni
’70. Contro i pentiti, la verità. Dopo e contro i pentiti, un
giudizio politico. Una complessiva assunzione di responsabilità è oggi possibile e necessaria: e uno dei passi funzionali
all’affermazione piena del «post-terrorismo» come dimensione
propria del confronto fra nuovi movimenti e istituzioni.
Che
non abbiamo nulla da spartire col terrorismo è ovvio; che siamo
stati «sovversivi» lo è altrettanto. Fra queste due «ovvietà»
si gioca il nostro processo. Nulla è scontato, la volontà dei giudici di omologare sovversione e terrorismo è nota, è intensa:
condurremo con i mezzi idonei, tecnico-politici, la battaglia
difensiva. Ma la ricostruzione storica degli anni ’70 non può
svilupparsi convenientemente solo nell’aula del Foro Italico:
occorre che si apra un dibattito franco e di ampio respiro, in
parallelo al processo, fra i soggetti reali che sono stati
protagonisti della «grande trasformazione». È, questo, fra l’altro
o soprattutto, un requisito irrinunciabile per parlare in termini
adeguati delle tensioni che pervadono i nostri anni ’80.