lunedì 29 febbraio 2016

Dialoghi di profughi III* - Bertolt Brecht

Da:    https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-iii-bertolt-brecht/10151248291278348?pnref=story
Cos'è "Dialoghi di Profughi":    http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/


DELL’ESSERE INUMANO. – MODESTE ESIGENZE. - DELLA SCUOLA. – HERRNREITTER.


Ziffel andava quasi ogni giorno al ristorante della stazione, perché nel vasto locale c’era un piccolo chiosco di tabacchi, e ogni tanto, a periodi irregolari, compariva una ragazza, con un paio di scatole sotto il braccio, apriva e poi per dieci minuti vendeva sigari e sigarette. Ziffel aveva già in tasca un capitolo delle sue memorie e spiava l’arrivo di Kalle. Poiché questi per una settimana non venne, Ziffel già cominciava a pensare di avere scritto quel capitolo inutilmente, e abbandonò il lavoro. A H. non conosceva nessuno, tranne Kalle, che parlasse tedesco. Ma al decimo o undicesimo giorno Kalle ricomparve e non mostrò alcun segno particolare di spavento quando Ziffel tirò fuori il suo manoscritto.


ZIFFEL          Incomincio con una introduzione nella quale faccio presente, in tono dimesso, che le opinioni ch’io intendo esporre erano ancora, almeno fino a poco tempo fa, le opinioni di milioni di uomini, sicché è impossibile che siano proprio del tutto prive di interesse. Salto l’introduzione, e anche un altro pezzetto, e passo subito all’analisi dell’educazione di cui ho goduto. Questa analisi, infatti, mi sembra assai istruttiva, e qua e là veramente eccellente. Si chini un po’ verso di me, in modo da non essere disturbato dal baccano che c’è qui. (Legge) “So che la bontà delle nostre scuole viene spesso messa in dubbio. Il mirabile principio su cui si fondano non viene riconosciuto o apprezzato. Esso consiste nell’introdurre immediatamente il giovane, in tenerissima età, nel mondo così com’è. Senza tanti preamboli, senza fargli molti discorsi, viene gettato in un sudicio stagno: nuota o ingoia fango!

Ur-Fascismo, il fascismo perenne* - Umberto Eco


Il fascismo non è morto nel ‘45, al contrario, la sua visione del mondo precede la forma storica assunta nel ventennio ed è più longeva della dittatura mussoliniana. La tesi di Umberto Eco nei quattordici punti di questo articolo uscito sulla “New York Review of Books”, il 22 Giugno 1995. La traduzione italiana è tratta da Punk4free. (G. Giudici) 

1. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione

Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione Francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico.
Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. “Sincretismo” non e’ solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili e’ solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva.Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti.

La piu’ importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l’alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete persino Sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant’Agostino e Stonehenge, questo e’ un sintomo di Ur-Fascismo. 

sabato 27 febbraio 2016

Classe lavoratrice, sindacato, storia del Movimento Operaio* - Alessandro Mazzone

*Da.   http://www.proteo.rdbcub.it/



1. Il lettore di “Proteo” sa bene che questa rivista a carattere scientifico è, nello stesso tempo, una pubblicazione di classe. Le due cose vanno insieme. Da sempre, lotta di classe dalla parte dei lavoratori vuol dire anche conoscere, rendersi conto del mondo, migliorarsi, emanciparsi. (Cento anni fà, la prima lotta mondiale, quella per la giornata lavorativa di 8 ore, aveva per motto: 8 per lavorare, 8 per riposare, 8 per migliorarci.) - Questo è il lato soggettivo. Il suo sviluppo, nel corso di ormai quasi due secoli, ha portato alla costruzione di organizzazioni economiche (cooperative), sindacali, politiche dei lavoratori; in Italia, a Camere del lavoro, Case del popolo, istituzioni di vita autonoma delle classi lavoratrici, che insieme erano strumenti di lotta e di cultura attiva.

Ma, naturalmente, c’è un lato oggettivo della lotta, che emerge non appena si considera la controparte. Anche la borghesia è mutata profondamente nel tempo, fino a generare un’oligarchia ristretta che oggi, con strumenti economici, politici, culturali (o anticulturali), impone il suo dominio, direttamente e indirettamente, a miliardi di uomini in quasi ogni Paese. E oggi diventa via via più chiaro qualcosa, che in linea di principio è sempre stato vero: che l’oggetto della lotta di classe è sempre stato, fin dai primi confronti parziali, locali, fin dalle Leghe di Resistenza dell’‘800, il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e riproduzione di questa attraverso e mediante il lavoro [1].

Naturalmente, non è stato sempre nella coscienza soggettiva dei lavoratori organizzati, che le rivendicazioni elementari, di salario, normative, erano in germe rivendicazioni di un diverso modo di vita, di una diversa organizzazione del vivere associato. Questa diversa organizzazione è quello che 100, 130 anni fa si chiamava, in generale, “socialismo”. Nella coscienza era la solidarietà come principio, la dignità di vita e l’emancipazione del lavoro come scopo, come pure si diceva. 
Solo per gradi, e in forme diverse (che costituiscono la storia del sindacato e del Movimento Operaio in genere in ogni Paese) [2], e soprattutto nell’età dell’imperialismo e delle sue guerre, cioè nel ‘900 e fino ad oggi, diventa via via più chiaro il legame obiettivo tra singole lotte e - come si è detto - “questioni di società” [3].

Obiettivamente, però, l’oggetto del contendere, cioè il lato obiettivo della lotta di classe, il suo contenuto è sempre il modo di vita degli uomini associati, cioè, in astratto, la Riproduzione Sociale Complessiva. Questa, naturalmente, è una astrazione [4]. Tuttavia essa si concretizza nel processo storico stesso: il lavoratore complessivo è concetto molto più attuale oggi che quando Marx lo esponeva, nel 1867.

venerdì 26 febbraio 2016

Rileggere il Capitale - Incontri di approfondimento teorico - Antiper




         «il marxismo non si lascia collocare in nessuno dei comparti tradizionali del sistema delle scienze borghesi, e anche se si intendesse approntare appositamente per esso... un nuovo comparto chiamato sociologia, esso non vi rimarrebbe tranquillamente, ma continuerebbe a uscirne per infilarsi in tutti gli altri. “Economia”, “filosofia”, “storia”, “teoria del diritto e dello Stato”, nessuno di questi comparti è in grado di contenerlo, ma nessuno di essi sarebbe al sicuro dalle sue incursioni se si intendesse collocarlo in un altro». (Karl Korsch, Marxismo e filosofia)


 L'audio di tutti gli incontri:      http://www.antiper.org/pensieri/cmep/257-iat-ric-audio.html

 Leggi anche:   http://www.antiper.org/pensieri/247-antiper-cms-1.html


Considero il sistema dell’economia borghese nell’ordine seguente: capitale, proprietà fondiaria, lavoro salariato; Stato, commercio estero, mercato mondiale. Nelle tre prime rubriche esamino le condizioni economiche d’esistenza delle tre grandi classi in cui si divide la moderna società borghese; il legame che unisce le altre tre rubriche salta agli occhi da sé. La prima sezione del libro primo, che tratta del capitale, consta dei seguenti capitoli: 1. la merce; 2. il denaro, la circolazione semplice; 3. il capitale in generale. I primi due capitoli formano il contenuto del presente fascicolo. Ho davanti tutto il materiale in forma di monografie da me buttate giù, a grande distanza di tempo l’una dall’altra, non per stamparle, ma per chiarire le cose a me stesso. La loro elaborazione complessiva, secondo il piano indicato, dipenderà dalle circostanze esteriori.

Sopprimo una introduzione generale che avevo abbozzato perchè, dopo aver ben riflettuto, mi pare che ogni anticipazione di risultati ancora da dimostrare disturbi, e il lettore che avrà deciso di seguirmi dovrà decidere a salire dal particolare al generale. Mi sembra invece che trovino qui il loro posto alcuni accenni al corso dei miei studi politico-economici.

La mia specialità erano gli studi giuridici, ma io non li coltivavo se non come disciplina subordinata, accanto alla filosofia e alla storia. Nel 1842-43, come redattore della Rheinische Zeitung, fui posto per la prima volta davanti all’obbligo, per me imbarazzante, di esprimere la mia opinione a proposito di cosiddetti interessi materiali. I dibattiti della Dieta renana sui furti forestali e sullo spezzettamento della proprietà fondiaria, la polemica ufficiale che il signor von Schaper, allora primo presidente della provincia renana, iniziò con la Rheinische Zeitung circa la situazione dei contadini della Mosella, infine i dibattiti sul libero scambio e sulla protezione doganale, mi fornirono le prime occasioni di occuparmi di problemi economici. D’altra parte, in un’epoca in cui la buona volontà di “andare avanti” era di molto superiore alla competenza, si era potuta avvertire nella Rheinische Zeitung una eco, leggermente tinta di filosofia, del socialismo e comunismo francese. Mi dichiarai contrario a questo dilettantismo, ma nello stesso tempo, in una controversia con la Augsburger Allgemeine Zeitung, confessai senza reticenze che gli studi che avevo fatto sino ad allora non mi consentivano di arrischiare un giudizio indipendente qualsiasi sul contenuto delle correnti francesi. Fui invece sollecito nell’approfittare dell’illusione dei gerenti della Rheinische Zeitung, i quali credevano di poter far revocare la condanna a morte caduta sul loro giornale dandogli una linea più moderata, per ritirarmi dalla scena pubblica nella stanza da studio. 

giovedì 25 febbraio 2016

Filosofia e Politica (con la filosofia, contro la filosofia) - Stefano Garroni

Bellissimo intervento, Stefano. Per quanto mi riguarda la filosofia è una scuola utile ad organizzare il pensiero, affilarlo. Nello specifico, Marx (e con lui molti altri), contribuiscono ad affilare le armi per la conquista di un mondo più giusto, per prima cosa, comprendendone molte delle sue componenti, delle sue dinamiche. Non ci sono ricette perfette, alchimie teoriche, mantra dialettici che possano evocare coscienza di classe, rivoluzioni; se non si conosce l'uomo, non c'è dialettica che tenga: la realtà smentirà puntualmente tutte le aspettative nate sulla carta. La giustizia è una condizione che precede e va oltre Marx. Ecco perché suscitare dubbi, far intravedere la possibilità che ci siano elementi materiali, percorsi accidentati ma determinati, per raggiungerla, è indispensabile per allargare l'orizzonte di una lotta che non rimanga solo nella nostra mente. E' così che si alimenta una coscienza, prima ancora che di classe, oggi.

Questa tua frase poi, sarebbe da mettere in cima alla pagina, come monito:

"Ma quest’uomo – noi questo lo dobbiamo capire molto bene – le masse
lavoratrici non si battono perché hanno letto Marx; le masse lavoratrici che
fanno la rivoluzione non sono comuniste, sono masse che lottano per stare
meglio e che capiscono l’importanza del soviet se capiscono che il soviet è uno
strumento per poter stare meglio."        
                   
Le discussioni più proficue sono quelle che faccio con chi ignora totalmente termini come plusvalore e che si trova distante anni luce dalle visioni marxiste. Ma posso garantirvi che molti di questi hanno una coscienza, anche se non ancora di classe, del quale non dubiterei in alcun modo, cosa che potrei non fare riguardo alcuni "dottori del marxismo" che fanno del marxismo, solo un feticcio, un hobby, un sollazzo mentale.  (M. Ferrara ) 

domenica 21 febbraio 2016

CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?*

*Da:   http://www.palermo-grad.com/

Ma cos’era il socialismo reale? Bettelheim invita a ragionare sul fatto che non è sufficiente volgere lo sguardo alla questione della pianificazione economica ma occorre anche concentrare l’attenzione sull’insieme dei rapporti politici, sociali e ideologici di una formazione sociale. Da qui, per chi scrive, la necessità quanto mai attuale nel tempo della crisi sistemica scaturita nel 2007 dalla scandalosa gestione dei mutui subprime, di tornare, da un lato, a studiare la storia dell’URSS e, dall’altro, di tenere presente che la storia del comunismo non si può ridurre alla narrazione delle vicende del bolscevismo né, tanto meno, della burocrazia e dei gruppi dirigenti sovietici. Il comunismo non è stato partorito da personalità eccezionali, anche se queste indubbiamente non mancarono, ma è stato una grande elaborazione collettiva, che ha dato vita a una storia esaltante e tragica al tempo stesso. Il protagonista di questa esperienza capitale è stato il movimento operaio le cui istanze sociali e politiche si voleva che costituissero i germi di una nuova civiltà.

E non è tutto: veniamo al tema centrale rappresentato dalla difficoltà di realizzare, all’interno del mercato mondiale, un sistema di rapporti di produzione socialisti. La presenza delle categorie di mercato nell’ambito delle formazioni sociali di transizione (socialismo reale) rimanda, infatti, al problema dell’esistenza delle condizioni oggettive che determinano la comparsa e la persistenza della forma valore. All’interno di una particolare formazione sociale di transizione la questione della sopravvivenza della forma valore rinvia, a sua volta, all’insieme dei rapporti di produzione, circolazione e consumo che si esplicitano in una dinamica di sfruttamento e  che vengono nascosti e dissimulati proprio dalla forma valore. Da qui il bisogno di risalire ai rapporti di produzione e di sostituire, per ciò che riguarda la loro analisi teorica, uno spazio omogeneo come quello dell’economia politica non marxista con uno spazio strutturato e complesso che non rimuova il problema del rapporto salariale che sottomette la forza lavoro all’esigenza dell’incremento del valore. Del resto, su questo versante Charles Bettelheim partecipava di quel salutare clima di rinnovamento culturale del marxismo critico che lo vedeva, insieme a intellettuali del calibro di Louis Althusser, figurare, come membro del gruppo “Spinoza”, ai seminari presso l’École normale supérieure de la rue d'Ulm di Parigi animati dall’autore di Per Marx e di Leggere il Capitale. 

Il teorico dell’economia rilanciava per le società socialiste in transizione, e dunque non ancora sviluppate, la celebre analisi marxiana del primo libro de Il Capitale sul feticismo della merce, secondo cui dietro la forma fantasmagorica del rapporto fra cose si cela un rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. E tutto questo nonostante il fatto che nei paesi in transizione vi fosse una proprietà da parte dello Stato dei mezzi di produzione, con la conseguente pianificazione, non tradottasi peraltro in proprietà sociale dei produttori immediati.

E qui si perviene, così, all’ultimo punto della nostra riflessione sul lavoro teorico di Bettelheim. La pianificazione, modificando, almeno in parte, le modalità del rapporto sociale di produzione e, dunque, le forme dell’interdipendenza tra i diversi lavori del processo sociale di produzione, può innescare realistiche dinamiche di controtendenza rispetto al pericolo di ricaduta all’interno di relazioni a dominanza capitalistica. Ma tutto questo si verifica solo nella misura in cui lo Stato, e le istituzioni politiche, economiche e amministrative che da esso dipendono, coordinano realmente e a priori l’attività produttiva, implementando la cooperazione organizzata su scala sociale, in funzione della partecipazione effettiva delle masse. Di fronte al problema della burocratizzazione e della gerarchizzazione della società sovietica Bettelheim ribadiva la necessità che la realizzazione del piano fosse vincolata all’effettivo controllo, da parte dei produttori immediati, delle condizioni di produzione e di riproduzione. Solo il dominio sociale dei lavoratori sui mezzi di produzione e sui prodotti avrebbe tendenzialmente portato alla eliminazione della funzione della moneta e alla scomparsa dei rapporti di mercato. Se così non fosse stato, si sarebbero configurate forme di intervento “tipiche del capitalismo di Stato” con una direzione in grado di esercitare un forte controllo dal vertice e, prima o poi, ribadiva profeticamente lo studioso di economia, si sarebbe verificato un ritorno ai rapporti di mercato e ai rapporti di lavoro salariato assicurando, per questa via, un sostanziale dominio al modo di produzione capitalistico.
(Giovanni Di Benedetto)
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venerdì 19 febbraio 2016

Crisi, centralizzazione dei capitali e nuovo internazionalismo del lavoro* - Vincenzo Maccarrone (“Noi restiamo”) intervista Emiliano Brancaccio


Un confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni assunte da alcuni studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”, appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI. 
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L'emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali. Brancaccio è anche autore della nuova edizione aggiornata dell’Anti-Blanchard, un saggio critico verso il modello macroeconomico insegnato dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard e dagli altri esponenti della teoria dominante.   

Il Sole 24 Ore qualche anno fa ti ha definito uno studioso “di impostazione marxista ma aperto alle innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa”. Ti riconosci in questa etichetta? 

Dovremmo innanzitutto chiarire cosa si intende per “impostazione marxista”. Il marxismo novecentesco è stato attraversato da varie correnti di pensiero, spesso confliggenti tra loro. Nel pensiero di alcuni studiosi che si definiscono marxisti confesso che faticherei a riconoscermi. Personalmente mi sento vicino alla tesi centrale di Althusser: pur con tutti i limiti tipici dei pionieri, Marx ha aperto alla ricerca scientifica un nuovo continente, quello della Storia. E’ bene chiarire che questa tesi althusseriana è antitetica a quella corrente marxista che va sotto il nome di storicismo. Per Althusser, nel nucleo dell’analisi marxiana non c’è nulla di teleologico, non si intravede nessun destino già scritto della storia umana. Stando a questa interpretazione, il nocciolo dell’analisi di Marx, rigorosamente circoscritto, ha per oggetto il meccanismo di funzionamento del modo di produzione capitalistico, in particolare le sue condizioni di riproduzione, di crisi e di trasformazione. Io studio tali condizioni avvalendomi di un metodo di analisi che rifiuta le banalizzazioni tipiche del vecchio individualismo metodologico e che parte invece dal riconoscimento della divisione in classi della società: si tratta di un metodo estremamente moderno, che prende le mosse dall’epistemologia di Marx ma che oggi trova nuovi riscontri negli sviluppi delle neuroscienze e della psicologia sociale. Ovviamente, una volta scelto il paradigma epistemologico marxiano come riferimento, è possibile trarre indicazioni anche da altri percorsi di ricerca. L’esplorazione delle condizioni di riproduzione e di crisi del capitalismo è un’impresa titanica, collettiva come tutte le imprese scientifiche, e procede anche grazie all’apporto di protagonisti del pensiero economico novecentesco come Keynes, Sraffa ed altri, non tutti necessariamente di matrice marxista […]. 

La storia, la nostra storia, qual è stata? - Stefano Garroni

martedì 16 febbraio 2016

Le classi nel mondo moderno* - Alessandro Mazzone

*Da:   http://www.proteo.rdbcub.it/
Seconda parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-la.html 
Terza parte:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-iii-nuove.html

Chi edificò Tebe dalle sette porte?
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi    
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge.

Rappresentazione e concetto

1. In un certo senso la nozione delle classi, in cui le società umane si dividono, è antichissima. Nella legislazione e nella poesia mesopotamica, essa è documentata almeno dal 2° millennio a.c.. Nei bassorilievi e nei papiri dell’antico Egitto, inservienti e schiave sono raffigurati come assai più piccoli dei potenti cui stanno a fianco. Gli schiavi compaiono come normale elemento della vita associata nella Bibbia, in Omero, in Esiodo. Per non parlare della Grecia classica e di Roma antica [1].
In tutti questi testi e documenti storici, come in quelli del Medioevo e poi dei secoli più vicini a noi, è presente e onnipervasiva la gerarchia sociale, il rapporto di comando e di servizio, il carattere strumentale dei ceti inferiori, l’ossequio tributato a potenti e padroni, l’ “ordine” sociale che in tutto questo si manifesta e vige, la sporadica rivolta e la sua repressione [2]. Chi volesse espungere la presenza dell’”alto” e “basso”, del “padrone” e del “servo” nella storia, poesia, arte dei millenni che conosciamo (perché appunto tramandarono di sé memoria storica, documentale, non soltanto archeologica) dovrebbe cancellare tutti i documenti di 5 o 6 millenni, o mutilarli fino a renderli incomprensibili.

"L' arte della Guerra"* - Manlio Dinucci



*Da:   http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/26591-manlio-dinucci-larte-della-guerra-

domenica 14 febbraio 2016

Manuale di autodifesa contro il lavoro nero* - Camera Popolare del Lavoro di Napoli

*Da:      http://clashcityworkers.org/

Che si tratti di un tavolo da servire, di un palco da montare, di una lezione da preparare, di un bambino cui badare, di una borsa da fabbricare, di un palazzo da costruire, di pomodori da raccogliere, tutti abbiamo tantissime storie del genere da raccontare.

Non a caso l'Italia è considerata patria del lavoro “nero”. Che poi qualcuno una busta paga ce l'abbia pure non è che cambi molto: se la mansione, l'orario, la paga che vengono messi nero su bianco non corrispondono al vero, non è che ci renda poi così tranquilli, né  tanto meno “regolari”. Lavoro “nero” o “grigio” – come si definisce il lavoro quando uno un contratto ce l'ha, ma quest’ultimo è falso – cambia poco: niente ferie, malattie, permessi, contributi, insomma zero tutele, zero diritti, e tanta, tanta impotenza e solitudine.
E la rabbia e il disincanto ci prendono quando televisione e giornali ci dicono che la situazione sta migliorando, che il Jobs Act funziona, che in fondo basta non essere “choosy” e una soluzione la si trova. E lo vengono a dire a noi, con le nostre storie di merda, con fratelli, sorelle e amici costretti ad emigrare perché qui è sempre più dura. E magari pretendono pure che gli crediamo, sennò siamo “gufi”.Ma come si fa, se attorno a noi il lavoro nero non diminuisce? Se le forme di lavoro “legale” gli assomigliano sempre più?

Ormai il contratto a tempo indeterminato non è solo una chimera; con le “tutele crescenti” praticamente non esiste più. Precariato a vita e per legge. Oppure prendiamo i voucher, sempre più diffusi e che un datore di lavoro può tirar fuori quando c'è un'ispezione (che poi, l'ispettore del lavoro è una figura quasi mitologica visto che quasi nessuno riesce a vederne uno!).

Lamentarsi non basta – ce lo dicono sempre. E hanno pure ragione. Allora noi qualcosa la vogliamo fare. Ne abbiamo piene le scatole di sentirci fare la predica. Ci fosse mai uno che viene e ti dice qualcosa di veramente utile, qualcosa che possa far cambiare un minimo la situazione in cui ci troviamo.

La denuncia non ci basta, e con questo manualetto abbiamo l'ambizione di andare oltre. Vogliamo rompere il muro di silenzio su una situazione che riguarda migliaia e migliaia di persone, e che a stento emerge dalle statistiche ISTAT, e costringere tutti – media, istituzioni – a non fare finta di non vedere e dare delle risposte. Vogliamo rendere il sonno dei nostri “donatori di lavoro” meno placido e sicuro, vogliamo vederli con la strizza addosso, in poche parole vogliamo combattere il problema a monte, non solo dopo che si è presentato. E possiamo farlo. 




La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx - Riccardo Bellofiore


“la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore” (K. Marx, Capitale)

"la lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del processo produttivo . . . la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni Sessanta, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento" (C. Napoleoni)

"Io voglio spiegare i punti decisivi di queste lotte: gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la Fiat ha cercato di fermare sospendendo 30 mila operai. Il padrone con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele. Tu ti vendi e io ti pago. Poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio marcire [...] la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare [...] Ma l'operaio è una merce un poco speciale, non basta vendersi ad un buon prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace ai padroni. E' una merce questa che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo consumo, per questo ora si fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio" (S. Gaudenti, brano tratto da un'intervista del "Corriere della sera" ad alcuni operai, registrata durante l'autunno caldo del '69 e mai pubblicata su quel quotidiano. Fu resa disponibile vent'anni fa da Pino Ferraris che la aveva nel suo archivio, e comparve sul "manifesto")


               Introduzione

Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione  del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.

Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di meta-teoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale. In quel che segue, procederò in prima battuta ad una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, e che sono di solito esposte come filoni alternativi e incompatibili. 

In secondo luogo, cercherò di integrare i diversi spunti che si trovano in Marx in un discorso unitario, dentro una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto. Questo discorso si prolunga in uno schizzo storico della dinamica lunga del capitale: dalla Grande Depressione di fine Ottocento, alla Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso, alla Crisi Sociale nei processi immediati della valorizzazione degli anni Sessanta-Settanta. Infine, leggerò su questo sfondo la dinamica capitalistica di fine Novecento e la crisi che si è materializzata in questo ultimo decennio, sottolineando il legame tra finanziarizzazione e frammentazione del lavoro, e cercando di individuare le novità più significative nella morfologia del sistema economico e sociale.

[...] In effetti, sostiene Marx, le crisi hanno luogo a partire da una caduta degli investimenti, e questa deriva da una crisi della profittabilità. La questione, dunque, si trasforma, e diviene quella di comprendere la ricorrenza delle crisi, riconducendola a una compressione del saggio del profitto, e spiegandone le ragioni. Su questo, Marx propone nei suoi manoscritti una serie di prospettive diverse, di cui è dibattuta la possibilità di riconduzione a un quadro unitario e coerente.



sabato 13 febbraio 2016

Storia del pensiero scientifico e filosofico* – Ludovico Geymonat

*Da:      https://unisafilosofiateoreticaonline.wordpress.com/supplementi/storia-del-pensiero-scientifico-e-filosofico-ludovico-geymonat/


Quando nasce la storia della filosofia come disciplina? Possiamo dire che la disciplina è sempre esistita sin dal momento in cui l’uomo ha incominciato a filosofare, gli stessi “Dialoghi” di Platone sono storia della filosofia perchè includono il pensiero di Socrate e rappresentano un esempio di ricostruzione del pensiero del filosofo da parte di un altro filosofo. Non è quindi eccessivo definire Platone come il primo storico della filosofia e come il primo interprete delle teorie filosofiche esposte prima di lui.

Diceva Hegel che le opere dei filosofi non li hanno seguiti nelle tombe e che ogni periodo ha avuto la sua filosofia, possiamo aggiungere con molta umiltà che ogni epoca ha avuto i suoi interpreti delle filosofie passate.

Geymonat può essere definito l’interprete della filosofia che ha seguito metodologicamente l’impostazione enciclopedica dell’illuminismo e che ha interpretato il pensiero filosofico secondo le categorie del marxismo.

Geymonat era un razionalista, uomo di scienza e nel contempo filosofo della scienza, fu sua la prima cattedra di Filosofia della scienza istituita a Milano nel 1956.
Proprio la sua formazione lo portò a concepire la storia delle idee filosofiche strettamente congiunta a quella del pensiero scientifico ed è questo il fatto che segna lo stacco rispetto ad altri modi di vedere la filosofia per esempio come supremo rimedio contro il dolore ma nello stesso tempo la sua impostazione razionalista lo portò ad essere un autentico interprete della filosofia come “epistème” in cui sono svelati il Senso e l’Origine del divenire che si deve liberare dalla protezione dell’immutabile.

Geymonat era convinto che non ci poteva essere sviluppo sociale senza progresso tecnologico, probabilmente non aveva tutti i torti quando invitava ad abbandonare le elucubrazioni metafisiche ma c’è da dire che proprio in ambito filosofico sono nate tutte quelle perplessità verso le “magnifiche sorti e progressive” e a quali insidiosi vicoli ciechi possa portare l’eccessiva fiducia nel positivismo logico che non è in grado di esaurire le domande che da sempre assillano l’uomo.

Dialoghi di profughi II* - Bertolt Brecht



DOVE SI PARLA DI BASSO MATERIALISMO - DEI LIBERI PENSATORI - ZIFFEL SCRIVE LE SUE MEMORIE - INVADENZA DEGLI UOMINI IMPORTANTI

Ziffel e Kalle furono molto sorpresi, quando, due giorni dopo, si incontrarono di nuovo al ristorante della stazione. Kalle era vestito allo stesso modo, mentre Ziffel non portava più il pesante cappotto che l’ultima volta, benché fosse già estate, ancora indossava. 

ZIFFEL Ho trovato una stanza. sono sempre felice, quando riesco a sistemare i miei novanta chili di carne ed ossa. Non è cosa da poco, di questi tempi, mettere in salvo un tal mucchio di carne. e la responsabilità naturalmente è maggiore. E’ più grave se vanno a male novanta chili che solo sessantacinque.

KALLE Anzi, per lei deve essere più facile. La corpulenza fa buona impressione. E’ segno di benessere, e il benessere fa buona impressione.

ZIFFEL Io non mangio più di lei.

KALLE Non sia così suscettibile! Non ho mica niente in contrario che lei mangi a sazietà. Per la gente perbene sarà magari una vergogna patir la fame, ma da noi non è una vergogna mangiare a sazietà.

venerdì 12 febbraio 2016

LA CRISI IRRISOLTA* - Francesco Schettino

Da:    https://rivistacontraddizione.wordpress.com/

 Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa

È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per espe-rienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta1. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.

Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.

In questo caso si fa riferimento a un’altra sostanza che pian piano sta assumendo questo ruolo per gran parte del capitale mondiale: genera dipendenza e assuefazione; violente alternanze di depressione ed euforia, senza che ci sia modo di intervenire altrimenti per arginare questo bipolarismo. In molti penseranno che si stia alludendo al profitto, forma monetaria dello sfruttamento; altri, più correttamente immagineranno che il riferimento è al plusvalore ricordando la naturale “voracità” del capitale che Marx non tarda mai di rimarcare. In realtà stiamo parlando di un qualcosa che non agisce in maniera benefica sul ritmo di accumulazione, bensì, proprio come l’eroina, può determinare effetti stupefacenti nell’immediato a cui seguono – più o meno immediatamente – reazioni nefaste ed incontrollabili.