venerdì 1 aprile 2011

STORIA DEL MARXISMO - La costruzione del socialismo in Russia - Andras Hegedus -

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          1.     Il nuovo Stato.

Una situazione rivoluzionaria nella storia raramente ha trovato una immagine del futuro già pronta, come quella che prese forma all’interno della corrente bolscevica russa del marxismo. E qui dobbiamo pensare anzitutto ai lavori di Lenin e specialmente allo scritto, terminato nel settembre del 1917, dal titolo Stato e rivoluzione. Secondo il contenuto di quest’opera, la prima tappa della via che conduce al comunismo è l’instaurazione della dittatura del proletariato, che significa da un lato democrazia per la stragrande maggioranza del popolo, dall’altro violenta esclusione dalla democrazia per gli antichi oppressori del popolo. 

Per quest’ultima tuttavia non ci sarà bisogno, o “quasi” non ci sarà bisogno, di un apparato speciale, perché sarà sufficiente l’organizzazione delle masse armate. Dapprima verrà eliminata solo quell’ingiustizia sociale derivante dal fatto che i mezzi di produzione sono di proprietà di singoli individui, mentre la distribuzione dei beni di consumo non avverrà ancora secondo i bisogni, bensì secondo il lavoro, nel senso che, non esistendo un altro diritto, sussiste ancora il “diritto borghese”; anche la tecnica inoltre esige la più severa attenzione, altrimenti la fabbrica si ferma e nascono disturbi nel funzionamento del macchinario. Lo Stato, proprio per la necessità di organizzare questi rapporti, continua a sopravvivere, sebbene abbia perso ormai la sua funzione oppressiva, perché deve difendere il suddetto ruolo di divisione dei prodotti e del lavoro. Ogni cittadino sarà il funzionario retribuito di questo potere, che allora veniva immaginato ancora come omogeneo, senza articolazione e funzionante come un “cartello” esteso a tutto il popolo. “L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”. (Lenin, Stato e rivoluzione, Roma 1966, p.178)

Solo in tale periodo di transizione possono lentamente maturare le condizioni per la totale estinzione dello Stato e con ciò le condizioni del raggiungimento del grado superiore del comunismo, ma solo nel caso che vengano applicate immediatamente tutte le misure atte a contrastare la burocratizzazione; e quindi non solo l’eleggibilità delle cariche, ma anche la mobilità; retribuzioni non superiori a quelle degli operai, transizione immediata alla fase in cui ognuno è “burocrate” per un certo tempo, così che nessuno possa diventare burocrate.

Questa immagine del futuro si distingue dalle “profezie” di Marx non soltanto per il fatto che - almeno per certi aspetti – in essa si delineano con maggior precisione i contorni della nuova società, ma anche per l’accentuazione che viene data al ruolo dominante dello Stato nella vita economica, sebbene si tratti di un nuovo tipo di Stato. Possiamo arrischiare la supposizione che in questo “statocentrismo” avesse un ruolo molto importante la peculiarità dello sviluppo russo e il livello di tale sviluppo: quella certa “asiaticità” (Asientum), tanto spesso citata, e da cui, secondo la teoria di Lenin, il popolo può essere fatto uscire solo dall’avanguardia della classe operaia organizzata in Stato nella forma dei soviet. In quella situazione non si poteva neppure parlare di “libere associazioni dei produttori”. In quell’immagine del futuro rimaneva ancora incerta la funzione di due importanti sistemi istituzionali: il ruolo del partito e quello dei sindacati nello Stato proletario, che si immaginava privo di partiti indipendenti. La teoria sottolinea la funzione del partito, come avanguardia della classe operaia, soprattutto in riferimento al periodo della rivoluzione. I sindacati invece svolgono la funzione di terreno di confronto nella lotta tra le forze rivoluzionarie e le varie forze revisioniste e riformiste.

          2.   Cinque problemi essenziali.

Il partito comunista acquistò all’interno dei soviet un’influenza decisiva e, giunto al potere con la rivoluzione d’Ottobre, si mise immediatamente all’opera per realizzare nella prassi la sua immagine  del futuro. Tuttavia già i primi passi mossi verso l’edificazione del nuovo ordinamento sociale mostrarono come, anche se si prendevano le mosse dalla stessa base teorica, inevitabilmente si delineavano alcune alternative divergenti e non conciliabili. Nei primi anni comunque, a causa della guerra civile, non si accesero polemiche riguardo al nuovo ordinamento socio-economico. Le possibilità della polemica si dettero solo a partire dalla fine del 1920 e possiamo quindi considerare i pochi anni successivi come il periodo della scelta alternativa. Le polemiche e le lotte di partito, che ormai non erano più soltanto ideologiche, ma rispecchiavano contrasti i interessi creatisi nella nuova struttura sociale, si concentrarono soprattutto intorno ai seguenti problemi:

a)      La valutazione del sistema di gestione economica e di istituzioni del periodo detto del “comunismo di guerra”. Era nato, questo, in seguito a una situazione di forza maggiore ingenerata dalla guerra o da una concezione teorica costruita sulla possibilità di una rapida transizione?

b)      La polemica sul sindacato, che prese forma intorno al dilemma apparentemente pratico della “sindacalizzazione dello Stato” o della “statizzazione dei sindacati”, ma nascondeva dietro di sé uno dei problemi più importanti della nuova formazione socio-economica: come, in quali forme istituzionali, può essere garantita la partecipazione delle masse operaie alla direzione dell’economia?

c)      La questione agraria, che praticamente si presentava come il problema di sostituire al prelievo delle eccedenze l’imposta in natura, ma nascondeva dietro di sé la questione fondamentale della sopravvivenza del nuovo potere; il rapporto con le masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, in un paese in cui nell’agricoltura erano presenti rapporti caratteristici dell’età feudale, di varie formazioni precapitalistiche e del capitalismo in lento sviluppo.

d)      La definizione e la valutazione del carattere della Nep, dietro a ciò la questione della funzione dei rapporti di denaro e di mercato, in un paese in cui in precedenza né il denaro, né i rapporti di mercato avevano permeato completamente la vita economica e sociale.

e)      Il carattere dello Stato che aveva appena preso forma, in un paese dove nel passato funzionava una delle burocrazie di tipo amministrativo e statale meglio organizzate d’Europa e che aveva importanza anche nella vita economica; essa era stata distrutta dalla rivoluzione e dalla guerra civile, ma funzionava ancora mediatamente come modello istituzionale. questa polemica concerneva propriamente la ragione d’essere e il futuro della  burocrazia in una società che sopprime la proprietà privata dei mezzi di produzione. A ciò era connesso il concetto della vigilanza operaio-contadina, che offriva come alternativa possibile la creazione di un potere social superiore alla direzione specialistica che si stava sviluppando e funzionava essenzialmente come una burocrazia.

          3.    Il comunismo di guerra.

Le prime disposizioni prese dal potere sovietico dopo la rivoluzione d’Ottobre rivelano come si pensasse che la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione dovesse avvenire a gradi; è vero nei primi decreti si annunciavano estesissime nazionalizzazioni, ma si mirava anche al tempo stesso a sottoporre il capitale privato al controllo operaio, lasciando sussistere, almeno in linea di principio, il diritto dei capitalisti all’amministrazione e persino all’appropriazione. Nella pratica tuttavia il processo di espropriazione del capitale privato subì un’accelerazione: durante la guerra civile si rivelò illusoria l’ipotesi che sotto il potere sovietico i capitalisti rimanessero alla testa delle loro imprese e continuassero a dirigere la loro attività produttiva e commerciale. Nella grande maggioranza dei casi infatti essi fuggirono dalle regioni dominate dai bolscevichi e agli organi operai di controllo toccò anche il compito della gestione delle imprese.

Questa situazione accelerò al tempo stesso anche la statizzazione decretata centralisticamente, che si estese allora persino alle unità economiche che non si potevano far funzionare razionalmente al livello di medie o grandi imprese. Ciò è attestato dal fatto che, in base alle statistiche del 1920 relative all’industria, più dei due terzi delle imprese statizzate impiegava meno di quindici operai. Ancora più rapidamente avvenne la nazionalizzazione nel commercio, dove in capo a brevissimo tempo per il settore privato non rimase in sostanza che la possibilità del piccolo commercio di viveri, del “mercato nero”. Così per quel che riguarda l’industria e il commercio, si raggiunse l’obiettivo contenuto nel programma di Stato e rivoluzione: i mezzi di produzione furono sottratti alla proprietà privata dei singoli individui. Invece la soluzione del problema che fa seguito a ciò, vale a dire la trasformazione dei mezzi di produzione in proprietà di tutta la società, attraverso l’impiego di provvedimenti antiburocratici, si rivelò una delle questioni più difficili della nuova formazione socio-economica.

Sulla base della statizzazione dei mezzi di produzione si costituì un sistema di direzione dell’economia che andava prendendo una forma istituzionale sempre più definita. “Dopo la Comune di Parigi – ha scritto Kritsman – che creò per la prima volta nella storia dell’umanità un governo proletario, la rivoluzione russa con la costituzione di un apparato proletario di direzione dell’economia ha fatto un nuovo passo avanti in linea di principio”. Questo nuovo sistema di direzione dell’economia si trovava a dover risolvere un compito quasi incredibilmente grande. Tra i paesi che avevano partecipato alla prima guerra mondiale, la Russia fu colpita in modo particolarmente grave, specialmente nell’industria e nelle comunicazioni, e la situazione era stata ulteriormente aggravata dalla guerra civile. La centralizzazione – non tanto nell’organizzazione della produzione, quanto piuttosto nella distribuzione dei beni che erano a disposizione – era un’esigenza a un tempo dell’ideologia e della pratica.

Gli organi di direzione centrale della produzione immediatamente dopo la rivoluzione erano ancora di tipo corporativo, si componevano di rappresentanti dei sindacati, di delegati delle organizzazioni proletarie e delle associazioni di fabbrica. La loro funzione consisteva all’inizio piuttosto nell’esercizio del controllo, in quanto essi non svolgevano una vera e propria attività direzionale; più tardi tuttavia, per influsso della statizzazione e del passaggio all’economia di guerra, il loro compito principale divenne quello di dirigere il movimento della produzione e della distribuzione e così, di conseguenza della nazionalizzazione accelerata, diventava superata la presenza del capitalista. Si formarono delle direzioni generali articolate verticalmente sotto la conduzione di una sola persona, in cui il carattere collettivo sopravviveva solo formalmente. Questi glavki, nell’abbreviazione russa, erano le forme istituzionali più significative del sistema di gestione del comunismo di guerra. Il loro potere sull’ambito che stava sotto la direzione era quasi illimitato ed essi godevano di un’indipendenza relativamente grande anche nei confronti degli organi centrali del governo. Le direzioni generali, il cui numero nel giro di breve tempo salì a parecchie dozzine, erano le prime istituzioni di questa società in cui poté prendere forma il rapporto burocratico analizzato da Marx, come rapporto sostanziale. I glavki crearono una loro mitologia della centralizzazione e presentarono il sistema di gestione del comunismo di guerra come l’unica forma di direzione dell’economia possibile per la transizione al socialismo.

In questo sistema di gestione in parte per l’influsso dell’ideologia, in parte da un punto di vista pratico non si dava spazio ai rapporti di denaro e di scambio. La valutazione, la verifica, l’organizzazione centralizzata (sotto la direzione generale), la distribuzione, tutto avveniva in modo naturale. Una parte maggiore dei prodotti dell’industria veniva distribuita secondo i piani di utilizzazione elaborati dal centro e così anche i rapporti di scambio tra le varie unità economiche (per cui non era incondizionatamente necessaria la funzione mediatrice del denaro) si ridussero a uno spazio sempre più ristretto. I rapporti di mercato e di scambio diminuirono in misura molto considerevole anche in conseguenza del fatto che i lavoratori ricevevano i salari – del resto su base altamente egualitaria – per la maggior parte non in denaro ma nella forma di assegnazioni in natura. È degno di nota il fatto che la partecipazione al lavoro non era legata all’incentivo materiale costituito dalle assegnazioni in denaro o in natura, ma a tale proposito veniva attribuita un’importantissima funzione all’obbligo generale del lavoro, che veniva fatto rispettare con severi provvedimenti amministrativi. Tutto ciò corrispondeva pienamente all’immagine del futuro contenuta in Stato e rivoluzione, che prevedeva la realizzazione pratica della concezione marxiana della gestione centrale della forza-lavoro:
    
Ogni membro della società – scrive Lenin – eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino 
da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente 
quantità di prodotti.

Il potere sovietico inoltre adottò una serie di provvedimenti che possiamo considerare, analogamente ai precedenti, come legati all’idea di un’accelerazione della transizione al comunismo. Essi sono i seguenti: il servizio postale gratuito, la distribuzione di pasti gratuiti per le fabbriche delle città, l’assegnazione di abiti gratuiti per i bambini delle scuole, ecc. naturalmente contribuì a che si prendessero provvedimenti del genere anche un certo stato di necessità creato dalla guerra, ma non è difficile dimostrare che essi sono parte integrante di una concezione mirante alla rapida transizione a un’economia naturale.

Nella stessa direzione procedeva anche la conformazione dei rapporti agrari. Il potere sovietico all’inizio tentò di rafforzare i rapporti di scambio fra città e campagna, fra agricoltura e industria, ma quasi esclusivamente senza servirsi del denaro. Tuttavia il potere sovietico non disponeva di un volume di merci sufficiente all’ampliamento dei rapporti di scambio e fu così costretto a confiscare ai contadini l’eccedenza della produzione, e ciò venne attuato con sempre maggiore rigore a causa della crescente mancanza di viveri. In conseguenza di ciò aumentò sì il raccolto del grano, ma ancora nel 1920 esso non raggiungeva il livello dell’anno precedente la rivoluzione, livello che il sistema di consegna introdotto dallo zarismo nel corso dell’economia di guerra, era riuscito ad assicurare alla distribuzione centrale. Contemporaneamente all’introduzione del prelievo senza compenso delle eccedenze, si stigmatizzò la circolazione dei prodotti agricoli sul mercato libero e la si limitò con severi provvedimenti amministrativi. “Il contadino – dice Lenin all’assemblea dei militanti dell’organizzazione moscovita del partito comunista russo – essendo un piccolo padrone, è per sua natura incline al libero commercio, che noi consideriamo un reato”.

Il sistema di gestione economica denominato comunismo di guerra può essere dunque considerato come un grandioso tentativo sociale di creare nel breve periodo un ordinamento sociale i cui lineamenti si sviluppano all’interno dell’immagine del futuro del marxismo, o almeno della sua corrente bolscevica russa, e come, il risultato della situazione pratica di forza maggiore creatasi in seguito alla pressione dell’economia di guerra.

          4.    Sindacati e Stato proletario.

Alla fine del 1920 giungono a termine contemporaneamente due processi che negli anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre avevano fortemente determinato il carattere delle risposte date al problema dell’organizzazione sociale: la guerra civile termina con la vittoria dell’Armata rossa che controlla tutto il territorio del paese; Denikin si rifugia all’estero in marzo, Vrangel in novembre; le rivoluzioni europee quasi senza eccezione “si spengono” e i partiti comunisti devono riconoscere che almeno per il momento – non c’è da aspettarsi lo scoppio della rivoluzione mondiale. La deliberazione del III Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi tra il 22 giugno e il 12 luglio 1921, constata ormai che

la potente ondata che ha fatto seguito alla guerra non ha spazzato via il capitalismo mondiale e neppure quello europeo … La guerra non è terminata immediatamente con la rivoluzione proletaria. E la borghesia può con un certo diritto registrare questo fatto come una sua vittoria.

Tutto ciò rese possibile lo sviluppo delle polemiche intorno alla scelta alternativa. E non è casuale che esso prendesse l’avvio dal protrarsi della polemica sui sindacati, giacché proprio questo sistema istituzionale era separato nel modo più palese dallo stato proletario.

Subito dopo la rivoluzione i sindacati avevano svolto ancora una funzione molto rilevante nella creazione della “dittatura economica del proletariato”. Allora le forme istituzionalizzate della direzione dei sindacati e la vita economica non si erano ancora separate né organizzativamente, né funzionalmente. Lenin in occasione del II Congresso dei sindacati, tenuto nel 1919, affermava ancora:

La statizzazione dei sindacati è inevitabile, la loro fusione con gli organi dello Stato è inevitabile, il trasferimento dell’intera edificazione della grande produzione nelle loro mani è inevitabile. (Rapporto al II Congresso dei sindacati di tutta la Russia)

In quel periodo – come dimostra questa citazione – la teoria non aveva ancora preso atto della contraddizione tra la “statizzazione dei sindacati” e la “sindacalizzazione dello Stato”, e questo perché non si erano ancora formate quelle istituzioni, i cui dirigenti e membri sarebbero stati legati all’una o all’altra soluzione dal loro modo di vedere improntato ai propri interessi e funzioni particolari.

Tuttavia alla fine del 1919 e soprattutto all’inizio dell’anno successivo riscontriamo segni sempre più evidenti della separazione tra l’organizzazione direzionale statale e i sindacati e non solo riguardo alle forme istituzionali, ma anche nella vita ideologica.  Da un lato prese forma la concezione direzionale burocratica, detta poi glavkismo, che esigeva per la direzione statale un potere illimitato e indiviso, dall’altro, invece, nei sindacati acquistavano terreno modi di vedere che rivelavano un influsso della teoria anarco-sindacalista (in quei tempi lo stesso anarchismo prese fora nella vita politica e intellettuale sovietica).

Nella nuova situazione così formatasi il rapporto tra lo Stato e i sindacali si impostò in modo nuovo; ciò che fino ad allora era sembrato conciliabile ora molto rapidamente prendeva forma in due tesi contrapposte:

a)      L’indipendenza dei sindacati nello Stato proletario non può essere ammessa; bisogna quindi partire dal presupposto che lo Stato è l’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia e che, separati da esso, possono esistere soltanto interessi e movimenti controrivoluzionari o almeno conservatori.

b)      Anche nello Stato sovietico, come in ogni Stato, si formano apparati direttivi specializzati e separati dai produttori immediati; se non si esercita sulla loro attività un’efficace vigilanza operaia, essi possono diventare delle “escrescenze burocratiche”, dei “pericolosi bubboni” sul corpo della società sovietica; bisogna quindi porre lo Stato sotto la direzione immediata dei sindacati.

Il rappresentante più autentico della prima concezione è Trockij; il capo dell’opposizione operaia, Sljapnikov, è il rappresentante più autentico della seconda. Trockij partiva dal presupposto che i sindacati, dopo la rivoluzione, si erano trovati in una situazione di crisi, che non era dovuta a una difficoltà di crescita, come molti sostenevano, ma a un’“agonia”, dovuta al fatto che avevano perso le loro antiche funzioni. Su questo stesso presupposto si basavano proposte come quella secondo cui i sindacati sarebbero dovuti scomparire e i loro compiti essere trasferiti alle istituzioni statali, che operavano con un’efficacia superiore alla loro. Nonostante la sua acuta e risoluta analisi della situazione, Trockij non si spingeva tanto oltre, ma partiva dal presupposto che i sindacati nello Stato proletario non potevano svolgere altra funzione se non quella stessa dello Stato; il sindacato degli operai metallurgici ad esempio doveva risolvere gli stessi problemi della Direzione generale dell’industria metallurgica e doveva servirsi degli stessi specialisti. Pur insistendo nel non considerare essenziale la “statizzazione” formale dei sindacati, esigeva che i sindacati, cambiando quella che era stata fino allora la loro funzione, diventassero effettivamente organi statali, tali da abbracciare tutta l’industria e da essere responsabili sia della produzione, sia dei produttori. Più tardi il programma redatto in comune da Trockij e da Bucharin sottolineerà lo stesso concetto, e cioè non tanto la statizzazione dei sindacati, quanto la fusione dei due sistemi organizzativi.

Sulla formazione di questa concezione di Trockij influivano anzitutto le esperienze da lui fatte in qualità di comandante dell’Armata rossa. Su questa base già al IX Congresso del partito aveva sollevato la questione della necessità della militarizzazione dell’organizzazione produttiva, attaccando duramente Smirnov che – richiamandosi non da ultimo al ruolo dei sindacati – ne metteva il dubbio l’opportunità. In Trockij dunque la negazione di un ruolo dei sindacati indipendente dalla direzione statale è parte di una concezione chiusa e ciò è attestato dal fatto che già a quel tempo egli sottolineava l’importanza del piano economico unitario, rimproverando al Consiglio supremo dell’economia nazionale di non dedicare ad esso l’attenzione dovuta. Parlando poi della responsabilità individuale, proponeva che alle mansioni esecutive fossero assegnati con maggiore risolutezza tecnici specializzati. Il suo punto di vista di conseguenza è improntato al centrodirigismo statale, nel quale, per definizione, non possono trovare posto i sindacati, ovvero lo possono solo nel caso che siano completamente amalgamati con le diverse istanze della direzione statale dell’economia.

In antitesi a queste posizioni, la piattaforma dell’opposizione operaia si appoggiava nella sua formulazione al programma del partito; questo proclamava infatti che la direzione dell’industria doveva passare a ogni livello nelle mani dei sindacati. La frase, tanto spesso citata nel corso della polemica, suonava così: “I sindacati debbono giungere a concentrare effettivamente nelle loro mani la gestione di tutta l’economia nazionale, considerata come un unico complesso economico”. (Il Congresso dei minatori di tutta la Russia)

Quando ebbe inizio la polemica sui sindacati questo programma era ancora in vigore e così quanti contrastavano l’opposizione operaia non potevano mettere in dubbio la giustezza di questo obiettivo. Lozovskij, ad esempio, rimproverava ad essa soltanto il fatto di avere considerato questo punto del programma come un compito tattico da mettere subito in pratica e non come un fine strategico, cioè di non avere preso in considerazione le circostanze concrete del 1920.

L’opposizione operaia tuttavia, in base alle proprie esperienze, giudicava la situazione tale che molti avevano ormai abbandonato quel punto del programma anche come obiettivo strategico; in effetti, di giorno in giorno, essa poteva sperimentare come crescessero e si moltiplicassero sopra di essa le istanze della direzione economica, le quali a poco a poco non solo si sottraevano al suo controllo, ma accettavano solo a malincuore i suoi consigli e le sue proposte di aiuto. La critica dell’opposizione operaia divenne sempre più acuta nei confronti degli organi statali preposti alla direzione dell’economia, considerati come organismi essenzialmente burocratici.

La vittoria sulla distribuzione sarà possibile e realizzabile – scriveva Sljapnikov – e le forze produttive potranno essere restaurate e fatte crescere solo se si realizzerà un mutamento radicale, che raggiunga l’essenza delle cose, nel sistema, nelle organizzazioni attuali e nella direzione dell’economia nazionale della Repubblica, che si appoggiano su un potente meccanismo burocratico da cui vengono represse l’autonomia dei produttori organizzati e l’iniziativa creatrice.

I rappresentanti dell’opposizione operaia richiedevano incessantemente che il partito confidasse di più nelle masse operaie, facendo assegnamento in maggior misura sulle loro proposte e sulle loro iniziative. A questa argomentazione si replicava che la classe operaia non era ormai più quella di un tempo, perché dei suoi migliori componenti che avevano partecipato alla guerra civile, molti erano morti, e i superstiti costituivano la spina dorsale delle istituzione del partito e dello Stato. Nello stesso tempo, in conseguenza dell’obbligo generale del lavoro, erano affluiti nelle fabbriche i più diversi elementi non operai, spesso per sottrarsi all’obbligo del servizio militare. Questi fatti erano difficilmente confutabili, ma non giustificavano il fatto che nell’ideologia il concetto di classe operaia, come generalizzazione concreta, si trasformasse in una generalizzazione sempre più astratta.

L’opposizione operaia non sviluppò un’immagine del futuro più precisa; la sua piattaforma politica si limitava in gran parte a fini tattici. Da quel poco che nei suoi scritti rimanda a concezioni connesse a un futuro più lontano, scaturisce una prospettiva che si rifà alla tendenza inarco-sindacalista. In base ad essa la società ideale si costruisce sulle unità autodirette dei lavoratori liberamente associati. Il suo sistema, organizzato “nel modo più semplice”, si fonda sulla valutazione statistica di tipo naturale – e quindi non espressa in denaro – dei bisogni e delle capacità produttive; le funzioni della distribuzione invece che allo Stato spetterebbero a un sistema istituzionale basato sui sindacati organizzati per categorie (il che corrispondeva sostanzialmente ai cartelli di categoria dell’anarco-sindacalismo) e sulle associazioni dei sindacati organizzati per rami di produzione (che avrebbero avuto sostanzialmente la stessa funzione delle federazioni di cartelli per rami della produzione.

Contro l’opposizione operaia si sente spesso ripetere l’accusa che essa avrebbe voluto affidare la guida dei vari rami dell’industria – le direzioni generali dell’industria e i centri dell’industria – alla massa degli operai esterni al partito, sparsi nei vari rami della produzione. Ciò forse è vero per quel che riguarda le sue concezioni relative al futuro più lontano – cosa che del resto non costituì mai l’oggetto della polemica – ma riguardo al futuro immediato essa non rivendicava il diritto di controllo economico per le masse, bensì per il sistema istituzionale – più o meno altrettanto burocratizzato – dei sindacati, giacché interveniva soprattutto come loro rappresentante.

Accanto ai due gruppi rigidamente contrapposti prese forma anche una terza importante piattaforma – che in ultima analisi risultò vincente – e che recava anzitutto l’impronta del nome di Lenin. Questi, che – come abbiamo visto – immediatamente dopo la rivoluzione di Ottobre si era pronunciato per la rapida fusione dei due sistemi istituzionali sindacale e statale, all’inizio del 1920, a differenza di Trockij, invitava ormai alla prudenza su tale questione. Secondo Lozovskij, Lenin già allora aveva scorto l’inevitabilità del periodo della Nep e si rendeva conto del fatto che se i sindacati si fossero assunti il peso e la responsabilità della direzione dell’economia, avrebbero cessato di essere sindacati, mentre i lavoratori, prima o poi, avrebbero dovuto darsi nuove organizzazioni di categoria. In quel periodo ormai evidente per lui che “c’è tutto un complesso sistema di ingranaggi, … non può esserci un sistema semplice” (I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotsky), e proprio per questo, a suo parere, non si dovevano fondere le istituzioni statali con quelle sindacali, ma – conservando la loro indipendenza – era necessario sviluppare una giusta divisione del lavoro tra di esse.

Questo è quanto è enunciato nella piattaforma dei “dieci”, tra i cui autori troviamo, accanto a Lenin, Zinov’ev, Kamenev, Kalinin e Stalin; tale piattaforma partiva anzitutto dal problema di come fosse possibile garantire nel modo più efficace l’influenza dei comunisti, il che voleva ormai dire il ruolo direttivo di un partito che disponeva di propri apparati e che si era già trasformato in un sistema istituzionale. In polemica con Trockij, si affermava che i sindacati non erano in crisi, anzi si poteva dimostrare un loro deciso incremento sulla base della crescita del numero degli iscritti; al tempo stesso, però, non si metteva in dubbio che i sindacati, rispetto alle esigenze, fossero ancora deboli. Contro la posizione di Trockij, si osservava che “i sindacati devono restare la scuola del comunismo, gli organizzatori delle masse e assolutamente non devono diventare degli organi statali in senso stretto”. Nei sindacati “devono poter entrare operai che professano opinioni diverse e pensano in modo diverso, iscritti al partito e non iscritti al partito, che sanno scrivere e che non sanno scrivere, credenti e non credenti, ecc.”. La piattaforma riconosceva anche che i sindacati dovevano assumere sempre più funzioni statali, ma non dovevano tuttavia, a causa di queste, rinunciare alla loro indipendenza e alla loro forma di organizzazione di massa. Il loro compito principale continuava a essere quello dell’educazione delle masse al fine di sostenere la dittatura proletaria.

Quando queste tre piattaforme – e accanto ad esse un’altra mezza dozzina di meno importanti – vennero formulate, la direzione del partito prese posizione per il più ampio democratismo interno. Il 21 febbraio 1921 uscì la deliberazione del Comitato centrale che sottolineava l’importanza della “piena libertà di polemica”, in quanto “qualsiasi organizzazione di partito, qualunque sia la sua posizione nelle questioni dibattute, può difendere ed esprimere le sue posizioni davanti al partito, sui giornali, inviando dei relatori, scambiando dei relatori, ecc.”.

L’epoca delle libere polemiche non durò a lungo, ma l’alto livello e la maturità raggiunti nella formulazione delle varie alternative testimonia del fatto che la rivoluzione sovietica disponeva di una straordinaria forza intellettuale. La rivolta di Kronstadt e l’insoddisfazione dei contadini, che in diversi luoghi sfociò in insurrezioni armate, aprirono al riguardo una nuova epoca, in cui l’unità senza opposizioni del partito divenne un’esigenza sempre più unanime e primaria. Ma ciò si realizzò solo a gradi. Il X Congresso – che si tenne nel periodo della rivolta di Kronstadt – nella sua deliberazione attacca risolutamente le frazioni e le proibisce, ma al tempo stesso constata che “è assolutamente necessaria la critica alle carenze del partito, come pure ogni sorta di analisi della linea generale del partito e che al fine di favorire ciò vengano pubblicati degli “scritti di polemica”.

In quella data situazione storica, tuttavia, la concezione dell’opposizione operaia era in ogni modo condannata al fallimento. Per uscire da una situazione economica e politica estremamente grave fu necessario rafforzare l’apparato statale, e quasi a qualunque prezzo. Questa era la via più veloce e più a portata di mano che si offriva. Allora, tuttavia, tale necessità scaturiva ancora dalla povertà e dalla carestia e non da una determinata forma dell’accumulazione primaria del capitale, che verrà in primo piano solo alcuni anni più tardi, e che allora favorirà di nuovo solo il rafforzamento dello Stato. Inoltre il passaggio della gestione dell’economia ai sindacati avrebbe minacciato il rafforzamento del ruolo direttivo esercitato dal partito sopra un meccanismo statale che assumeva funzioni sempre più numerose e un potere sempre maggiore, il che in pratica avrebbe significato che il partito comunista avrebbe potuto dirigere gli apparati statali o quelli economici solo con la mediazione di un altro sistema istituzionale.

La deliberazione del X Congresso constata all’unanimità che “bisogna trasformare gradatamente i sindacati in organi ausiliari dello Stato proletario e non si deve procedere in senso inverso”. La deliberazione del Comitato centrale del partito del gennaio 1922 conclude la polemica sui sindacati, separando nettamente il sistema istituzionale dello Stato da quello dei sindacati. Da un lato afferma che “qualsiasi genere di intervento diretto da parte dei sindacati nella direzione delle imprese … va considerato dannoso e inammissibile”: se la deliberazione elenca poi minuziosamente le principali forme di partecipazione indiretta dei sindacati, gran parte di esse consiste solo nell’appoggio alle attività economiche direzionali di cui ormai erano responsabili singole persone. Dall’altro lato invece, per influsso della Nep ormai in formazione, essa afferma che

i sindacati devono assumersi l’obbligo di difendere l’interesse dei lavoratori e, per quanto è possibile, aiutarli ad accrescere il loro benessere materiale, correggendo gli errori e gli eccessi egli organi economici, che possono derivare dalla deformazione burocratica dell’apparato statale.

Gli stessi autori della deliberazione riconoscono la contraddittorietà della posizione dei sindacati e ne ritengono possibile il superamento solo “con il passare di molti decenni”. Sono convinti che da un lato il loro compito principale consiste nella difesa dell’interesse delle masse lavoratrici, nel senso più ristretto e immediato del termine; dall’altro essi non possono negare la loro partecipazione all’oppressione, in quanto condividono il potere dello stato e sono i costruttori dell’intera economia nazionale. 


lunedì 7 febbraio 2011

Marxismus und Philosophie* - von Thomas Metscher -

*Da:    “Marxismo e filosofia”, pubblicato in Marxistische Blätter, n. 6 – 2010. Parte 1.

 Nel suo nocciolo concettuale, il marxismo è una forma, flosoficamente fondata, di coerente sapere comprensivo (begrifflich), che mira ad un tutto prospettico della conoscenza del mondo. Il suo scopo ultimo è il cambiamento del mondo - <cogliere nel pensiero il tutto di un mondo, allo sopo di mutare il tutto di un mondo>, cambiamento con lo scopo di pervenire ad un mondo a misura umana.

Son da rifiutare tutti i rapporti di annichilimento, di sofferenza e di asservimento. ‘Filosoficamente fondato’  è questo pensiero, pochè riflette sui propri presupposti, perché si svolge con coerenza metodologica e perviene ad un tutto della conoscenza, in quanto i suoi ragionamenti derivano ‘dai fondamenti’. E’ il concettualizzare di una totalità relazionale, sostanzialmente non metafisica (esistente oggettivamente), ma pensata come qualcosa di radicalmente storico.: come totalità di un mondo storico particolare, che può sempre essere concepito  in una prospettiva storica. 

Solo in via approssimativa, il tutto del processo storico, in  quanto successione di mondi storicamente umani, così come la serie dei processi naturali,  hanno il proprio fondamento nella storia dell’uomo. La rappresentazione di una totalità relazionale nel senso della metafisica tradizionale –come totalità dell’essente- è per il pensiero marxista da abbandonare. Tale pensiero, infatti,va inteso –e nel modo più radicale- come post-metafisico. La conoscenza della totalità delle connessoni è impossibile al di fuori della rottura storico-speculativa –come conoscenza della realtà ‘in sé’- . Non è possibile, almeno, senza un rinnovamento dei presupposti metafisici. 

domenica 6 febbraio 2011

Il significato di mito. - Stefano Garroni -

Nel numero 5-2010 di Marxistische Blätter, il compagno R. Steigenwald interviene sulla problematica del mito, con un articolo dal titolo Che cosa falsi e autentici miti dovrebbero raccontarci?
E’ interessante che il compagno inizi il suo scritto con una citazione da Thomas Mann, che riecheggia motivi freudiani: “Profondo è il pozzo del passato. Non si dovrebbe dire che è insondabile?[1]
Steigenwald si richiama ad Alfredo Bauer[2], -comunista di estrazione ebraica, che riuscì a sfuggire alla persecuzione nazi-fascista, rifugiandosi in Argentina-, per affermare che “oggi ed ora, siamo circondati da miti. Difficilmente ci troveremmo a nostro agio nel mondo, in mancanza di miti. L’insieme dei miti riporta a noi il passato. Poiché, appunto questo sono i miti: storie, che ci riportano il passato e, con ciò stesso, ci rendono comprensibile il nuovo. Le ‘scene del mito’ mostrano i  nostri dei, eroi e sapienti come essi sono e come divennero ciò, che sono per noi”. Ma cosa dobbiamo intendere col termine <mito>?
“Una pluralità di eventi e di situazioni –difficilmente riconducibili all’univocità di una definizione- si annoda nelle ramificazioni dei significati generati dall’uso del termine, la cui comparsa nelle fonti greche costituisce un avvenimento epocale: l’irruzione di un segno linguistico capace di mostrare, da una parte, la forza creatrice insita nel processo di costruzione semantica dei mondi rappresi nelle forme del pensiero orale e, dall’altra, il delinearsi, nel contesto delle loro articolazioni, di orizzonti di esperienze emblematiche, che risultano  irriducibili ai paradigmi                                                                                                 del pensiero analitico e lineare della civiltà della cultura alfabetica.” [3] 

Hegel e Feuerbach. - Stefano Garoni-


Nelle parti fin qui svolte della nostra ricerca, ci siamo imbattuti in alcune difficoltà, in qualche punto, che abbisognano di maggior chiarezza. Ad es., abbiamo visto accostare la critica, che Marx muove allo  Hegel a quella, che lo stesso muove a Feuerbach, in relazione al tema (religione e) feticismo. Il risultato di ciò è che rischia di falsarsi il senso di quelle pagine giovanili, in cui Marx fa i conti sia con la Fenomenoogia hegeliana, che col pensiero di Feuerbach appunto. Entriamo nel merito. 

sabato 22 gennaio 2011

Come si determinano il salario "giusto" e il "giusto" lavoro* - Friedrich Engels

Tradotto in italiano e trascritto, direttamente dagli articoli originali in lingua inglese presenti sul MIA, da Dario Romeo, marzo 2001

 Sul finire degli anni Settanta dell'Ottocento, la pace tra le classi inglesi iniziava a traballare. La Grande Depressione, avvenuta durante il decennio, aveva colpito tutto il mondo occidentale ed era stata, come sempre, particolarmente dura per gli operai. Il ciclo capitalistico discendente rimetteva in moto i familiari attacchi della classe capitalista contro i compromessi riformisti ch'erano stati effettuati entro la società capitalistica.
George Shipton, Segretario del Consiglio sindacale inglese, faceva anche da editore per il Labour Standard, l'organo dei sindacati inglesi. Egli chiese a Engels di contribuire ad una discussione sul riformismo e sul movimento operaio stesso.
Engels accettò e, tra il maggio e l'agosto 1881, scrisse 11 articoli, tutti apparsi in editoriali anonimi. Egli utilizzò problematiche contemporanee per elaborare principi economici di base sul socialismo scientifico e sulla natura del capitalismo. Evidenziò in questi articoli l'inevitabilità del conflitto tra capitalisti e proletariato - tale lotta non è un'aberrazione, è una caratteristica centrale del capitalismo. I capitalisti saranno sempre interessati ad abbassare i salari e le condizioni di vita della massa delle persone prive di proprietà, semplicemente perché ciò è nel loro interesse.
Egli attaccò la visione dei sindacati come difensori quotidiani del proletariato in tale battaglia. Nel suo primo articolo suggerì al movimento operaio di abbandonare l'insignificante slogan "Una paga equa per un equo lavoro" - in quanto la natura intrinseca del capitalismo impedisce ai capitalisti di essere "equi" con gli operai, i cui salari essi devono sempre tentare di abbassare - e di sostituirlo con lo slogan: "Possesso dei mezzi di produzione - materie prime, fabbriche, macchinari - agli operai stessi!"
Nell'articolo "Un partito degli operai", Engels sottolinea come i sindacati da soli non possono liberare la gente dal ciclo ininterrotto della schiavitù salariale. Questa deve unirsi in partito politico indipendente. L'assenza di tale partito in Inghilterra tiene la classe operaia sotto il giogo del "Grande Partito Liberale". E ciò crea confusione e demoralizzazione.
Da diverse lettere (a Marx, 11 agosto; a George Shipton, 10 e 15 agosto; a Johann Philipp Becker, 10 febbraio 1882) apprendiamo che egli smise di scrivere per tale giornale a causa della crescita di "elementi opportunisti" all'interno del suo comitato di redazione.
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Una paga equa per un equo lavoro
Scritto: 1-2 maggio 1881
Pubblicato: fondo No. 1, 7 maggio 1881, come articolo di fondo

Questo è stato il motto del movimento operaio inglese negli ultimi cinquant'anni. Esso ha svolto un buon servizio nel periodo della crescita sindacale avvenuta dopo l'abrogazione delle infami Combination Laws [Leggi sull'associazionismo] avvenuta nel 1824 [1]; esso ha svolto un servizio ancora migliore all'epoca del glorioso movimento cartista, quando gli operai inglesi marciavano alla testa della classe operaia europea. Ma i tempi scorron veloci, e molte cose che risultavano desiderabili cinquanta, o addirittura trent'anni fa, oggi non sono più adeguate e sono completamente fuori posto. Anche tale parola d'ordine, onorata dal tempo, appartiene a queste cose.

Una paga equa per un equo lavoro? Ma cos'è una paga equa, e cos'è un equo lavoro? Come vengono determinati dalle leggi d'esistenza e di sviluppo della società contemporanea? Per rispondere a tale quesito non dobbiamo affidarci alla scienza della morale o alla legge dell'equità, né ad alcun sentimento d'umanità, giustizia o persino di carità. Ciò che è moralmente equo, ciò che è equo per la legge, può esser assai lontano dall'esser socialmente equo. L'equità o iniquità sociale sono decise da una sola scienza - la scienza che si occupa dei fatti materiali della produzione e dello scambio, la scienza dell'economia politica.
Ora, cosa intende l'economia politica per paga equa e per equo lavoro? Semplicemente il saggio salariale e la lunghezza ed intensità della giornata lavorativa determinati dalla concorrenza di datori di lavoro e lavoratori nel libero mercato. E cosa sono queste cose, quando sono determinate in tal modo?

Una paga equa, in condizioni normali, è la somma necessaria a procurare al lavoratore quei mezzi di sussistenza che, secondo lo standard di vita del proprio paese, gli servono a mantenersi in buono stato per lavorare e per riprodurre la propria razza. Il saggio salariale reale, a causa delle fluttuazioni del commercio, può essere ogni tanto al di sopra o al di sotto di tale livello; ma, sotto condizioni eque, esso dovrebbe essere una media tra tutte le oscillazioni.
Per equo lavoro si intendono quella lunghezza della giornata lavorativa e quell'intensità di forza-lavoro reale che impiegano l'intera energia lavorativa giornaliera dell'operaio senza sciupare le sue capacità per i giorni seguenti.

La transazione, allora, può esser descritta nel modo seguente: l'operaio dà al capitalista l'intera forza-lavoro giornaliera; cioè, tutto ciò che egli può dare senza che sia resa impossibile la continua ripetizione della transazione. In cambio egli riceve giusto quanto è necessario a far replicare il medesimo accordo giorno dopo giorno, e nulla più. L'operaio dà tanto, ed il capitalista tanto poco, quanto consente la natura dell'accordo. Questa è una sorta di equità molto particolare.
Ma guardiamo questo fatto in modo un po' più approfondito. Dal modo in cui, secondo gli economisti, i salari e la giornata lavorativa vengono stabiliti dalla concorrenza, sembra che l'equità richieda un paritetico punto di partenza per entrambe le parti. Ma ciò non corrisponde alla situazione reale. Il capitalista, se non riesce a raggiungere un accordo con il lavoratore, può permettersi di aspettare, e vive facendo affidamento sul proprio capitale. Il lavoratore non ha questa possibilità. Egli non ha che il salario per vivere e deve quindi prendere il lavoro quando, dove e nei termini in cui gli viene offerto. Il lavoratore non dispone di un equo punto di partenza. Egli è posto, dalla fame, in una terribile condizione di svantaggio. Eppure, secondo l'economia politica della classe capitalista, questo è il massimo dell'equità.

Ma tutto ciò è ancora una mera inezia. L'applicazione dell'energia meccanica e delle macchine nei nuovi settori industriali, e l'estensione ed il miglioramento dei macchinari nei settori ad essi già soggetti, continua a rimuovere dal lavoro sempre più "mani"; e ciò avviene ad un tasso assai più alto di quello con cui le "mani" soppiantate vengono assorbite dalle, e trovano impiego nelle, manifatture del paese. Queste "mani" soppiantate formano un vero esercito industriale di riserva ad uso del Capitale. Se il commercio non tira, esse posson solo morire di fame, chieder l'elemosina, rubare, o ricorrere alle Case di lavoro [2]; se il commercio tira, invece, esse sono a portata di mano per espander la produzione; e finché l'ultimo uomo, donna o fanciullo di quest'esercito di riserva non avrà trovato lavoro - cosa che accade solo in periodi di frenetica sovrapproduzione - fino a quel momento la sua concorrenza terrà bassi i salari, e così, con la sua sola esistenza, rafforzerà il potere del Capitale nella sua lotta contro il Lavoro. Nella sua corsa contro il Capitale, il Lavoro non solo parte in posizione svantaggiata, esso deve anche trascinarsi dietro una palla di cannone legata ai suoi piedi. Eppure ciò è equo secondo l'economia politica Capitalista.

Ma andiamo ad indagare con quali fondi il Capitale paga questi assai equi salari. Dal capitale, certamente. Ma il capitale non produce valore. Il lavoro, affianco alla terra, è l'unica fonte di ricchezza; il capitale in sé non è altro che lavoro accumulato. Così che i salari del Lavoro sono pagati dal lavoro, e l'operaio è pagato da ciò che egli stesso ha prodotto. Secondo ciò che potremmo chiamare senso comune di equità, i salari del lavoratore dovrebbero consistere nel prodotto del suo lavoro. Ma ciò non sarebbe equo secondo l'economia politica. Al contrario, il prodotto del lavoro dell'operaio va al Capitalista, e l'operaio ottiene da esso non più dello stretto necessario al suo sostentamento. E così il punto d'arrivo di questa insolitamente "equa" corsa concorrenziale è che il prodotto del lavoro di coloro che lavorano si accumula inevitabilmente nelle mani di coloro che non lavorano, e diviene nelle loro mani il più potente mezzo per assoggettare gli uomini che lo hanno prodotto.
Un equo salario per un equo lavoro! Molto si potrebbe dire anche a proposito di un'equa giornata lavorativa, l'equità della quale è esattamente uguale a quella dei salari. Ma ciò dobbiam lasciarlo per un'altra occasione. Da ciò che si è detto è perfettamente chiaro che la vecchia parola d'ordine ha fatto i suoi giorni, e difficilmente sarà ancora utile. L'equità dell'economia politica, che stabilisce le leggi che governano la società reale, tale equità pende tutta da un lato - il lato del Capitale. Lasciate, allora, che il vecchio motto venga seppellito per sempre e rimpiazzato con un altro: POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE: MATERIE PRIME, FABBRICHE, MACCHINARI AGLI OPERAI STESSI!

Il sistema salariale
Scritto: 15-16 maggio 1881
Pubblicato: No. 3, 21 maggio 1881, come articolo di fondo

In un precedente articolo abbiamo esaminato un vecchio e glorioso motto, "un equo salario per un equo lavoro", e siamo giunti alla conclusione che il più equo salario, date le attuali condizioni sociali, è necessariamente pari all'assai iniqua divisione del prodotto del lavoro umano, la cui più vasta porzione entra nelle tasche del capitalista, mentre il lavoratore deve accontentarsi di quanto basta per mantenersi in condizione di lavorare e per riprodurre la propria specie.
Questa è una legge dell'economia politica, o, in altre parole, una legge della presente organizzazione sociale della società, che è più potente di tutti gli statuti e di tutte le leggi della Camera dei Comuni inglese messe assieme, incluse quelle della Court of Chancery [3] [Corte di giustizia]. Ma la società è divisa in due classi opposte - da un lato i capitalisti, monopolizzatori di tutti i mezzi di produzione, della terra, materie prime e macchinari; dall'altro i lavoratori, operai deprivati di ogni proprietà dei mezzi di produzione, padroni di nient'altro che della loro forza-lavoro. Finché sussiste tale organizzazione sociale, la legge del salario resterà in pieno vigore, e continuerà a fissare, giorno dopo giorno, le catene con le quali l'operaio è reso schiavo del proprio prodotto - monopolizzato dal capitalista.

I sindacati di questo paese hanno per oltre sessant'anni lottato contro questa legge - con che risultati? Sono riusciti a liberare la classe operaia dalla schiavitù in cui il capitale - il prodotto delle sue stesse mani - la tiene? Hanno permesso ad una sola sezione della classe lavoratrice di superare la schiavitù salariale, di divenir proprietaria dei propri mezzi di produzione, delle materie prime, attrezzi e macchinari necessari alla loro attività, e così di divenir padrona del prodotto del proprio lavoro? È ben risaputo che essi non solo non ci sono mai riusciti, ma anche che non ci hanno mai provato.

Lungi da noi l'affermare che i sindacati, per questo motivo, sono inutili. Al contrario essi, in Inghilterra tanto quanto in ogni paese industrializzato, sono una necessità per le classi lavoratrici nella loro battaglia contro il capitale. Il saggio medio di salario è pari alla quantità di denaro sufficiente a riprodurre la specie degli operai in un certo paese, secondo lo standard di vita abituale di quel paese. Lo standard di vita può essere assai differente per diverse classi di lavoratori. Il grande merito dei sindacati, nella loro battaglia per alzare il saggio salariale e per ridurre l'orario di lavoro, è che essi tendono a far salire lo standard di vita. Ci sono molte attività nei quartieri orientali di Londra il cui lavoro non è meno qualificato ed è tanto duro quanto quello dei muratori e dei loro operai, eppure in queste attività si guadagna difficilmente la metà del salario di questi ultimi. Perché? Semplicemente perché una potente organizzazione permette agli uni di mantenere un relativamente alto standard di vita; mentre gli altri, disorganizzati e privi di potere, devono sottomettersi non solo all'inevitabile, ma anche all'arbitraria usurpazione di coloro che li impiegano: il loro standard di vita viene gradualmente ridotto, essi imparano a vivere con salari sempre più bassi, ed i loro salari cadono naturalmente a quel livello che essi stessi hanno imparato ad accettare come sufficiente.

La legge del salario, allora, non è di quelle che seguono una linea categorica. Non è, entro certi limiti, inesorabile. C'è in ogni momento (escluse le grandi depressioni) ed in ogni attività una certa libertà entro la quale il saggio salariale può esser modificato dai risultati della battaglia tra i due gruppi contendenti. I salari sono in ogni caso fissati dalla contrattazione, e nelle contrattazioni colui che resiste più a lungo e meglio, ha maggior possibilità di ottenere di più di ciò che gli è dovuto. Se l'operaio isolato cerca di condurre la trattativa con il capitalista, egli verrà facilmente battuto e dovrà arrendersi all'arbitrio del capitalista; ma se un'intera categoria di operai forma una potente organizzazione, raccogliendo fondi che le permettano, se necessario, di sfidare i loro datori di lavoro e di mettersi così in condizione di poter trattare con i datori come forza unitaria, allora, e solo allora, essa avrà la possibilità di ottenere persino quella miseria che, secondo la costituzione economica della società presente, può esser chiamata come un equo salario per un equo lavoro.

La legge dei salari non viene rovesciata dalle battaglie sindacali. Al contrario, essa è rafforzata da queste lotte. Senza i mezzi di resistenza sindacali, l'operaio non riceve neppure ciò che gli è dovuto secondo le regole del sistema salariale. È solo con la paura dei sindacati innanzi ai suoi occhi che il capitalista può esser costretto a tener conto dell'intero valore commerciale della forza-lavoro del suo operaio. Volete una prova? Guardate i salari pagati ai membri dei grandi sindacati, e poi guardate i salari pagati in quelle innumerevoli piccole attività di quella pozza di stagnante miseria che sono i quartieri orientali di Londra.

Così, i sindacati non attaccano il sistema salariale. Non sono l'altezza o la bassezza dei salari ciò che costituisce la degradazione economica della classe lavoratrice: tale degradazione è compresa nel fatto che, anziché ricevere per il suo lavoro l'intero prodotto del suo stesso lavoro, la classe operaia deve accontentarsi di quella porzione della propria produzione chiamata salario. Il capitalista intasca l'intera produzione (e con questa paga il lavoratore) perché egli è il proprietario dei mezzi del lavoro. E, perciò, non c'è riscatto reale per la classe lavoratrice finché essa non diviene proprietaria di tutti i mezzi di produzione - terra, materie prime, macchinari, ecc. - ed in questo modo anche la proprietaria DELL'INTERO PRODOTTO DEL PROPRIO LAVORO. 

[...] 

domenica 16 gennaio 2011

Sulla formazione storica del capitale e del lavoro salariato.*- Karl Marx

*Da (Forme di produzione precapitalistiche, 1858)
Leggi anche:   http://www.controappuntoblog.org/2012/09/08/il-capitalelibro-i-sezione-vii-il-processo-di-accumulazione-del-capitale-la-cosiddetta-accumulazione-originaria-capitolo-24/


Se si considera il rapporto tra capitale e lavoro salariato non come rapporto che già domina la totalità della produzione, ma nella sua genesi storica, se si considera cioè la trasformazione originaria del denaro in capitale, il processo di scambio tra il capitale che esiste soltanto potenzialmente da una parte e liberi lavoratori che esistono potenzialmente dall'altra, allora si impone naturalmente quella semplice osservazione su cui fanno tanto chiasso gli economisti: che la parte che si presenta come capitale deve possedere le materie prime, gli strumenti di lavoro e í mezzi di sussistenza affinché I'operaio possa vivere durante la produzione, prima cioè che la produzione sia compiuta.

(...) Di conseguenza la formazione del capitale non deriva dalla proprietà fondiaria (in questo caso al massimo dal fittavolo nella misura in cui commercia in prodotti agricoli), e nemmeno dalle corporazioni (sebbene esista una possibilità), ma dal patrimonio derivato dal commercio e dall'usura,

Ma questo però trova le condizioni per acquistare lavoro libero solo quando quest'ultimo è separato, attraverso il processo storico, dalle sue condizioni oggettive di esistenza. Solo allora esso trova anche la possibilità di acquistare queste stesse condizioni.

Nelle condizioni del regime corporativo p. es., il semplice denaro che non è esso stesso della corporazione, ma del maestro, non può comprare i telai per farvi lavorare altre persone; è prescritto quanti telai una persona può lavorare ecc. In breve, lo strumento è ancora talmente fuso con lo stesso lavoro vivo (si presenta come dominio del lavoro) che esso in realtà non circola.

Ciò che rende capace il patrimonio monetario di diventare capitale è il fatto che esso trova da una parte lavoratori liberi; in secondo luogo la presenza dei mezzi di sussistenza e dei materiali, ecc. ormai liberati e alienabili, mentre erano un tempo in un modo o nell'altro proprietà delle masse ormai private delle condizioni oggettive. 

Ma l'altra condizione del lavoro - una certa abilità, lo strumento come mezzo di lavoro ecc. in questo primo periodo iniziale o primo periodo del capitale, esso lo trova già esistente, da un lato come risultato del sistema corporativo urbano, dall'altro come risultato dell'industria domestica o dell' industria connessa come accessorio dell'agricoltura.

La formazione primitiva del capitale non avviene nel senso che il capitale accumuli, come si pensa, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro e materie prime, in breve le condizioni oggettive del lavoro umano. Non avviene nel senso che il capitale crea le condizioni oggettive del lavoro. La sua formazione primitiva avviene invece semplicemente per il fatto che i valori esistenti sotto forma di patrimonio monetario, attraverso il processo storico di dissoluzione del vecchio modo di produzione, viene messo in grado di acquistare le condizioni oggettive del lavoro, dall'altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai diventati liberi.

Tutti questi fattori sono presenti; la loro separazione stessa é un processo storico, è un processo di dissoluzione, ed è questo processo che permette al denaro di trasformarsi in capitale. Il denaro in quanto agisce con e accanto alla storia, è tale solo in quanto collabora alla creazione di lavoratori liberi, privi delle condizioni oggettive, spogliati; indubbiamente però, non perché crei per loro le condizioni oggettive della loro esistenza, ma in quanto contribuisce a creare la loro separazione da queste condizioni, la loro mancanza di proprietà. 

Quando p. es., i grandi proprietari fondiari inglesi licenziavano i loro retainers*, che insieme a loro consumavano il plusprodotto della terra; quando a loro volta i fittavoli cacciavano i piccoli contadini pigionali, ecc., in questo modo si gettava sul mercato del lavoro in primo luogo una massa di forze-lavoro vive, una massa che era libera da un duplice punto di vista: libera dagli antichi rapporti di clientela e di servitù e di prestazione, e libera di ogni avere e da ogni forma di esistenza oggettiva. libera da ogni proprietà; ridotta a trovare l'unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza lavoro, oppure nella mendicità, nel vagabondaggio e nella rapina. Storicamente in un primo momento essi hanno tentato quest'ultima via e da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro, e qui i governi, p. es., Enrico VII, VIII, ecc., figurano come condizioni del processo storico di dissoluzione e come creatori delle condizioni di esistenza del capitale.

* retainers: servi della gleba 


mercoledì 22 dicembre 2010

Sulla "Vorrede" Hegeliana - Stefano Garroni -



 Lo scopo, che mi propongo, è mostrare come, nella prospettiva dialettica di Hegel (e di Marx, il quale, sia pure con certe modifiche, la riprende e continua), la dimensione oggettiva del movimento storico non solo non si oppone al momento della soggettività, ma addirittura fa di quest´ultimo una sua componente essenziale.

 In questo senso dobbiamo riconoscere che brevi scritti del giovane Lukàcs - come il suo Lenin e l´altro saggio intitolato Cos´è il marxismo ortodosso-, in contrapposizione a quel marxismo oggettivista e scientista, che andò progressivamente imponendosi nella Terza Internazionale, segnando -per qualche aspetto-  una sorta di rivincita di Plachanov su Lenin, son capaci ancora oggi di indicarci una prospettiva di ripresa della riflessione dialettica, particolarmente adeguata ai problemi del tempo, che viviamo.

 Per far ciò mi servo di un noto ed importante testo di Hegel, ovvero della sua Prefazione/Vorrede alla Fenomenologia dello spirito; nel corso della cui analisi parziale, cercherò di mostrarne anche essenziali consonanze con le posizioni di Marx. Due ultime precisazioni.

 In realtà, non esamineremo la totalità del testo hegeliano, né quindi tutta la ricchezza dei temi, in esso trattati: ci limiteremo piuttosto a chiarire (a cercar di chiarire) cosa qui Hegel intenda per comprensione della filosofia e come quest´atto -questo comprendere- impliciti la mediazione di logica e storia, di soggettivo ed oggettivo.

giovedì 2 dicembre 2010

Introduzione al Seminario sullo Stato - Stefano Garroni -

Introduzione al Seminario sullo Stato
Martedì 16 novembre 2010
Trascrizione dell’intervento del Prof. Stefano Garroni.
(Ci scusiamo per eventuali  errori o refusi nel testo, dovuti alla difficoltà di riportare in forma scritta un intervento orale )


Sono ..come dire…un pochino imbarazzato… nel senso che mi vado convincendo sempre di più della assoluta miseria in cui noi viviamo quotidianamente, per cui qualunque ragionamento che abbia un minimo di spessore, sembra una cosa dell’altro mondo, che non ha senso. E questo comporta evidentemente una enorme difficoltà, perché qualunque argomento tu vai ad affrontare, o lo affronti abbandonando il punto di vista che questa società ti propone, dell’interesse immediato, della tua piccola vita, del tuo piccolo mondo, o abbandoni questo, ed entri in un’altra dimensione, la dimensione dei problemi, dell’analisi obbiettiva dei problemi, del punto di vista universale dei problemi, oppure, se non fai questo salto, non capisci nulla, tutto diventa assurdo. E allora l’imbarazzo è proprio questo… 

mercoledì 17 novembre 2010

Kritik der politischen Oekonomie, Religionskritik und Humanismus der Praxis - Franz Hinkelammert -


Problemi dell’umanesimo oggi.

Traduciamo l'articolo di Franz Hinkelammert -apparso col titolo Kritik der politischen Oekonomie, Religionskritik und Humanismus der Praxis. nel numero 2 del 2010 della rivista comunista tedesca Marxistische Blaetter-, perché ha segnato l'inizio di un dibattito, apparso successiamente sulla stessa rivista, e che  ci sembra di notevole interesse nell'attuale fase politica e culturale. Ovviamente, in seguito, daremo conto dell'intero dibattito.


Una precisazione/obiezione (anche se è dubbio, che possa resistere ad una critica sensata): Hinkelammert afferma che a ben vedere il paradigma marxiano della critica alla religione vale piuttosto come un criterio per differenziare quest’ultima, non come un attacco contro la relligion, anche se invece Marx se ne serve per dimostrare che, in certe condizioni storiche, la religione in quanto tale diviene superflua. Dunque, il paradosso a cui Hinkelammert perviene, da un lato, è la sostanziale accettazione della valutazione di Marx sulla religione; nello stesso tempo, però, da ciò egli non ne ricava la sostanziale storicità o caducità. (Stefano Garroni) 



Nelle crisi in  cui oggi viviamo e che si annciano per il futuro, è senza dubbio necessario discutere che cosa, oggi, può significare l’umanesimo. Intendo presentare al proposito alcune tesi. Ma prima di far ciò, vorrei rapidamente analizzare che cosa l’umanesimo ha significato nella modernità. Intendo far ciò molto rapidamente e dunque abbordare un momento chiave della nostra storia, che è strettamente legato a ciò che, oggi, l’umanesimo può significare. Questo momento chiave è la Rivoluzione francese. Essa avviene in un momento, in cui il mercato mondiale si è costituito come mercato capitalistico. L’umanesimo della Rivoluzione francese è ancora per lo più (äußerst) ridotto ad un umanesimo dell’uomo astratto, il quale è visto come proprietario. Ma questa stessa Rivoluzione francese, che sbocca in una pura rivoluzione borghese, nello stesso tempo fonda le categorie, partendo dalle quali è possibile fondare un nuovo umanesimo.

domenica 14 novembre 2010

Laicità e cultura*- Alessandra Ciattini -

*intervento al III Festival Mediterraneo, 23 ottobre 2010

Questo intervento è articolato in vari punti, che indico per facilitare la comprensione. Prende spunto dalla scissione tra vita materiale e vita spirituale, che a mio parere caratterizza la società contemporanea. Cerca di mostrare perché si è prodotta tale scissione e ne descrive alcune significative manifestazioni. Tenta di dar sostanza alla tesi che solo l'approccio laico alle diverse manifestazioni sociali e culturali può ricomporre tale scissione. Infine, illustra come la laicità affronta il problema della morte, a cui generalmente si pensa possa dare una risposta efficace solo la religione. Sottolineo che considero le diverse religioni manifestazioni culturali, che differiscono dalle altre forme di concezioni del mondo per il loro riferimento al sovrannaturale.


1) La scissione tra vita materiale e vita spirituale.                                                                                 

Il mio breve intervento prende le mosse dall'analisi delle trasformazioni culturali e sociali innescate dal cosiddetto processo di mondializzazione, accompagnato come è noto da una sorta di revival religioso, che si manifesta nella diffusione dei Nuovi Movimenti Religiosi. Come si vedrà questa prospettiva è giustificata dal fatto che il risultato di questi profondi cambiamenti sembra riproporre la tradizionale dicotomia vita materiale / vita spirituale, che – come cercherò di mostrare – è del tutto inaccettabile dal punto di vista laico, così come lo intendo. 

La fine del socialismo est-europeo ha segnato ed ha accompagnato l'inizio di una nuova fase della società capitalistica, nella quale il mercato è divenuto lo strumento regolatore della vita sociale nella sua complessità e differenziazione, facendo saltare gradualmente tutte quelle misure e quelle tutele che ne limitavano il pieno funzionamento e ostacolavano il successo della ragione economica. Così, per esempio, sono stati ripensati i rapporti lavorativi, tenendo presente solo la logica del profitto e trascurando scientemente il rispetto di quei diritti (diritto al lavoro, ad un'adeguata retribuzione, alla salute, alla sicurezza) riconosciuti formalmente a livello internazionale e nazionale (la nostra Costituzione). Il risultato è stato l'abbassamento del costo del lavoro, l'incremento del lavoro precario e della disoccupazione soprattutto tra i giovani (si tratta di fenomeni internazionali e quindi non solo italiani). Si è cercato di dare un'altra organizzazione al settore dell'educazione e della conoscenza (scuola, università, enti di ricerca, istituzioni culturali etc.), che in nome della modernizzazione e della razionalizzazione, ha legato sempre di più queste istituzioni al mercato e alle imprese, professionalizzando i corsi di studio e subordinando la ricerca all'individuazione e produzione di innovazione tecnologica allo scopo di produrre oggetti competitivi sul mercato mondiale.

domenica 10 ottobre 2010

V. GIACCHE': caduta tendenziale del saggio di profitto

L'importante, nel loro horror di fronte alla caduta del saggio di profitto,
è però Ia sensazione che il modo di produzione capitalistico
nello sviluppo delle forme produttive incontri dei limiti,
che in sé e per sé non hanno nulla a che vedere con la produzione della ricchezza,
e questo limite peculiare testimoni la limitatezza
e il carattere soltanto storico di questo modo di produzione,
e il fatto che esso non è il modo di produzione assoluto
per Ia produzione della ricchezza, ma anzi giunto a un certo stadio
entra in conflitto con il proprio sviluppo ulteriore"
[Marx, Manoscritto del III libro del Capitale]

A quanto pare non è proprio possibile liberarsi di Marx. E dire che sembrava
fatta. Appena venti anni fa" con il crollo – più farsesco che tragico (le tragedie
sarebbero seguite a breve) - dei regimi dell'est europeo e la vittoria del
capitalismo in salsa thatcheriano-reaganiana, anche su Marx e le sue teorie sembrava
calato definitivamente il sipario. Sembrava che la pagina del marxismo
fosse stata definitivamente voltata e che gli scritti di Marx fossero ormai destinati
agli storici e ad un pugno di nostalgici fuori dal tempo. I volumi dell'edizione
delle opere di Marx ed Engels che nella ex Berlino est dei primi anni novanta
affollavano le bancarelle dei libri usati tra il disinteresse dei passanti sembravano
costituire la prova migliore di questo destino.
Purtroppo, però, per risolvere ed eliminare le contraddizioni del reale non
basta sostenere che esse non esistono. E questo vale per gli individui come per
le società. Anche per la società capitalistica dei nostri giorni, o "economia di
mercato" che dir si voglia. E così, nel 2007, è arrivata la crisi che dura tuttora.

Dello storicismo... -Stefano Garroni- Parte prima:

La storia dalla religione alla laicità.
Dalla trascendenza alla immanenza politica.

Diciamo che <storicismo> si può usare almeno in due accezioni: (1) quella illuministica, il cui senso sta nel ricercare sempre la ragione degli accadimenti –anche se, secondo certa critica, questa stessa ragione illuministica era di per sé astorica; (2) l’accezione ottocentesca, per la quale valeva la dicotomia tra ragione e storia e, quindi, risultava negata la dimensione storico-filosofica del pensiero illuministico: tuttavia, tale dimensione aveva, invece, già dato segno di sé nella Querelle circa la superiorità degli antichi o dei moderni, senza la quale, per altro, non si sarebbe data alcuna enfatizzazione della modernità e del progresso.

domenica 3 ottobre 2010

Brecht, Lode della dialettica

L'ingiustizia oggi cammina con passo sicuro.
Gli oppressori si fondano su diecimila anni.
La violenza garantisce: Com'è, così resterà.
Nessuna voce risuona tranne la voce di chi comanda
e sui mercati lo sfruttamento dice alto: solo ora io comincio.
Ma fra gli oppressi molti dicono ora:
quel che vogliamo, non verrà mai.

Chi ancora è vivo non dica: mai!
Quel che è sicuro non è sicuro.
Com'è, così non resterà.
Quando chi comanda avrà parlato,
parleranno i comandati.
Chi osa dire: mai?
A chi si deve, se dura l'oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!