
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
venerdì 17 maggio 2013
Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali. - Emiliano Brancaccio -

giovedì 2 maggio 2013
Voto di classe e sopravvalutazione del voto utile alle ultime elezioni - Domenico Moro - .

mercoledì 1 maggio 2013
martedì 30 aprile 2013
Dal postmoderno all’ipermoderno - Roberto Finelli – Francesco Toto -

Hegel aveva argomentato che il bisogno della filosofia nasce dalle scissioni e dalle contraddizioni della vita individuale e collettiva, e quindi dalle passioni e dai tormenti della storia. E che la riunificazione di queste scissure –ossia la produzione di quello che definì l’Assoluto– deve compiersi secondo le movenze e le vicende interiori di ciascuno degli opposti, che nella separatezza ostile e nell’esclusione dell’altro da sé non possono far altro che precipitare in una vita patologicamente sofferta ed esposta alla dissipazione della cattiva infinità.
http://www.consecutio.org/2013/04/edtoriale-dal-postmoderno-allipermoderno/
venerdì 26 aprile 2013
“Teoria del valore, lavoro e classi sociali” - intervista di Daniel Bensaïd, datata maggio 2009, alla rivista argentina Herramienta.
Daniel Bensaïd : C’è tutta una lotta storica sulla riduzione dell’orario di lavoro. Anche se il tempo liberato resta alienato, essa costituisce un limite allo sfruttamento della forza lavoro, è una libertà non omologata. Vi sono altri meccanismi di alienazione, quali possono essere i mezzi di comunicazione di massa, la diffusione della cultura, l’organizzazione della città e dello spazio urbano, ecc. Tuttavia, perlomeno formalmente, per riprendere la formulazione di Marx, durante questo tempo libero il lavoratore ha la possibilità di consumare programmi televisivi, di dare una mano nel sindacato, o di leggere il Capitale. Non è quindi una questione secondaria che la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro sia permanente, anche all’interno del capitalismo. Nel quadro del capitalismo, però, credo ci sia un nesso stretto tra un lavoro alienato e un piacere alienato, vale a dire che non si può essere realmente liberi al di fuori del lavoro se si rimane al tempo stesso dominati al lavoro. Non basta perciò ridurre l’orario di lavoro forzato, ma è necessario anche trasformare il contenuto e l’organizzazione del proprio lavoro, costruire l’emancipazione del lavoro e fuori dal lavoro. E qui c’è una grossa differenza. La disoccupazione produce un tempo liberato, ma un tempo senza libertà. Ed esiste anche la conquista di tempo libero tramite la riduzione dell’orario lavorativo, ma che si può continuare a utilizzare in forma completamente alienata. E questo pone un problema anche al socialismo. È l’idea che troviamo nel Gorz di Addio al proletariato e nei suoi lavori successivi, secondo cui esisteranno sempre lavori duri e alienanti, che non sarà mai creativo spazzare le strade o raccogliere l’immondizia e che sarà quindi sempre necessario che la società dedichi a un certo tempo di lavoro che non sarà mai creativo e che la vita si svolga sempre al di fuori di questo tempo di lavoro. Non avendo robot per tutto, questo costituisce di fatto un problema. Per altro verso, credo si possa svolgere un lavoro alienato e, al tempo stesso, svilupparsi, aprirsi al di fuori di questo. Il problema per una società socialista, è come distribuire questo tipo di lavoro, come modificarne l’organizzazione. È evidente che ci sono compiti che non sono gradevoli o stimolanti, ma questo richiama all’esigenza di radicale trasformazione della divisione del lavoro come condizione stessa di una società socialista così come ce la possiamo immaginare..
http://www.inventati.org/cortocircuito/2013/04/26/intervista-a-daniel-bensaid-teoria-del-valore-lavoro-e-classi-sociali/
giovedì 25 aprile 2013
Euro, un fallimento annunciato. Venti anni fa il keynesiano Wynne Godley spiegava perché non poteva funzionare. - era 1992... -

giovedì 18 aprile 2013
Ancora sul rapporto Marx - Smith. (Maurizio Bosco)
Marx e Smith
La
lettura che Marx effettua sull’opera di Smith è particolarmente indicativa del modo
in cui Marx, a partire del risultato dell’avanzamento teorico e della
chiarificazione concettuale a cui è giunto, interroga il pensiero dell’economia
politica borghese, mostrandone gli aspetti tautologici, fermi alla pura
apprensione della “fenomenologia” del meccanismo esteriore della società di
scambio, eppure non privo di problematiche e tensioni interne. La stessa
contraddittorietà ed oscillazione concettuale evidenziata seguendo
l’esposizione di Smith è, per Marx, elemento esplicativo dei limiti e della
specifica prospettiva storica, nel prodursi di una teorizzazione che, pure non
priva di una generale intuizione sull’origine della ricchezza sociale, non
riesce a guadagnare una completa consapevolezza e coerenza interna. Giusta la
sottolineatura che, nello scritto di Stefano Garroni, è operata sull’aspetto del
“metodo” di lettura di Marx, il quale, ben lungi dal concretizzarsi nella
semplice critica esteriore dell’opera di Smith, secondo un enunciazione di
“tesi” contrapposte, si mostra, piuttosto, come un movimento “all’interno” dello
stesso evolversi della concettualizzazione dell’autore, vorrei provare a
tracciare una linea di lettura, più “discorsiva” dei temi toccati, che possa
costituire una traccia alternativa all’interno
della ricostruzione di Stefano e contribuire a focalizzare alcuni snodi concettuali
che nel suo testo non mi paiono sufficientemente illuminati.
Marx,
in dialogo con Smith, che ha già, a suo tempo, colto come la fonte di ogni
ricchezza sia costituita dal lavoro umano (e sociale, nella sua divisione di
specializzazioni tipologiche), manterrà fermo l’apporto corretto della stessa
determinazione di Smith rispetto al rapporto tra lavoro come “sostanza” del
valore e “tempo di lavoro” (contenuto) come “misura” del valore (di scambio)
delle merci. In forza di questo determinazione fondante, è possibile “simularne”
la tenuta esplicativa, come il modo di evidenziarsi ed occultarsi della stessa
determinazione, nelle forme e momenti diversi
entro i quali si presentano il sistema della produzione e riproduzione sociale,
il rapporto degli uomini con le condizioni di lavoro ed il loro rapporto reciproco
in società, attraverso il quale, mediante lo scambio, possano appropriarsi di
beni (valori d’uso), prodotti da altri, necessari a soddisfare bisogni sempre
più differenziati e sviluppati.
Poiché
i valori d’uso, in quanto apprezzati soggettivamente in base al “valore” che
ciascuno attribuisce all’oggetto in vista del suo godimento (consumo), non sono
misurabili e quindi non sarebbero commisurabili in vista dello scambio, è dentro il legame
sociale che si stabilisce la sostanza comune e universale che consente di
renderli equivalenti al di là delle specifiche caratteristiche naturali e singolari.
Tale sostanza è il tempo di lavoro (oggettivato nella merce) che è reciprocamente
riconosciuto come necessario a formare l’oggetto di consumo.
Qualora
i produttori fossero pensati come operanti in condizioni tali da consentirgli
di appropriarsi dell’intero “valore” dei beni prodotti attraverso il loro
lavoro (ossia di quanto risultato dall’intero tempo di applicazione del proprio
lavoro, indifferentemente dalla concretezza del suo contenuto), lo scambio di x
quantità della merce M contro y quantità della merce M’ potrebbe rendersi
possibile sulla base dell’equivalenza dei pari tempi di lavoro contenuti nelle
due porzioni di merci scambiate, o, secondo l’altro aspetto della
determinazione del legame e dell’interdipendenza sociale, a cui Smith guarda ,
la quantità di lavoro che ho impiegato per produrre xM mi consentirebbe di
“comandare”, ossia di godere dei frutti, della quantità di lavoro erogata (al
mio posto) da colui che scambia con me la quantità yM’ della sua merce.
martedì 16 aprile 2013
L’OCCHIO ESTRANEO E LA PALLA per Brecht: condizioni sociali come processi contraddittori. -Gianfranco Pala - ( La Contraddizione n. 126 gennaio-marzo 2009)
ci troviamo ora di fronte alla possibilità di un totale annientamento del pianeta.
Si lavori a trasformare il mondo.
Se ci si mette dal punto di vista della palla,
è evidente che le leggi del moto diventano inconcepibili.
[Bertolt Brecht]
Bertolt Brecht, nei suoi Scritti teatrali [Einaudi, Torino 1962, raccolti del 1957, l’anno successivo alla sua morte], “come cordiale contributo alle vostre discussioni” muove dal presupposto che “il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un mondo trasformabile”. Ecco: anche epurché; infatti Brecht affermava “che il problema se sia possibile una descrizione del mondo, è un problema di ordine sociale”. In base a questo suo impianto materialistico emergono due constatazioni connesse: da un lato, il riprovevole stato della concezione epica del teatro brechtiano, che tranne pochi piccoli coraggiosi tentativi contrari alla drammaticità e superficialità delle rappresentazioni dominanti è stato sempre più lasciato a se stesso se non dimenticato e di fatto tradito anche dalla quasi totalità dei suoi allestitori attratti dal più appagante successo commerciale e dalla facile “commozione” drammatica degli uditori; dall’altro, al contrario in base alla coerenza brechtiana, il suo esplicito riferimento all’aspetto sociale del problema.
Lezioni di politica economica - Federico Caffè
Leggi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Caff%C3%A8
http://www.centrostudimalfatti.org/cms/federico-caffe/
Vedi anche. http://www.radioradicale.it/scheda/339901
http://www.centrostudimalfatti.org/cms/federico-caffe/
Vedi anche. http://www.radioradicale.it/scheda/339901
1. Alcune distinzioni correnti tra
economia e politica economica.
La definizione di una
disciplina, anche se risponde ad esigenze didattiche, non può fornire che
un’indicazione approssimativa e sommaria del significato della disciplina stessa. Una comprensione più
completa può ottenersi soltanto attraverso lo studio delle sue varie parti.
Con questa riserva le
definizione più semplice del significato della politica economica consiste nel
chiarire anzitutto che essa è parte della scienza economica intesa in senso
lato; nel precisare poi che si tratta di quella parte che utilizza le
conoscenze dell’analisi teorica come guida
dell’azione pratica.
Ogni scienza ha come problemi
ultimi quelli di comprendere e spiegare determinati fenomeni e di far
uso della conoscenza come guida dell’azione. La politica economica, per
effetto di un processo di specializzazione e di convenienza didattica, si
occupa appunto di quella parte dell’indagine economica che assolve in modo più
ravvicinato e diretto il secondo dei suoi compiti essenziali, quello cioè di
essere di guida per l’azione. […]
Questi chiari rilievi
consentono di avanzare due considerazioni. In primo luogo, sarebbe estremamente
pedante pretendere che, negli insegnamenti economici che precedono quello
specifico della politica economica, l’esposizione si mantenga rigorosamente
“sul terreno proprio dei teoremi”, senza occuparsi in forma più o meno estesa anche
di problemi di politica economica. In secondo luogo, il fatto stesso che
ciò di frequente si verifichi non fa che confermare l’assoluta correttezza
dell’impostazione metodologica, dovuta anch’essa a un importante economista
italiano, secondo la quale economia generale, economia finanziaria, politica
economica non sono che “stadi successivi
nel passaggio da una maggiore a una minore astrazione di un inscindibile
sistema teorico.”(Del Vecchio, 1957, p. 131).
2. La politica economica nella
concezione di Jan Tinbergen.
La sostanziale unità
dell’indagine economica non esime, come è ovvio, dal ricercare i caratteri
differenziali tra le varie branche che rientrano nell’indagine stessa.
Un’elegante presentazione dei rapporti tra analisi e politica economica è
quella dovuta a Jan Tinbergen, economista olandese che, nei tempi più recenti, ha
contribuito in modo notevole all’elaborazione sistematica della politica
economica.
Occorre preliminarmente
ricordare che gli sviluppi dello studio sia dell’intero sistema economico, sia
di singoli mercati hanno portato a fornirne una rappresentazione schematica
mediante modelli costituiti da equazioni matematiche che
esprimono le connessioni esistenti tra le grandezze economiche del sistema o
della parte di esse considerata.
L’impiego di schemi
semplificati, tendenti a ridurre la complessa realtà a “fatti stilizzati”, non
costituisce un fatto nuovo nell’indagine dei fenomeni economici. […]
Ne risulta quindi, secondo le
parole di Tinbergen (1969, p. 19), che il
processo logico per la ricerca della migliore politica economica, cioè per la
determinazione delle misure in cui dati mezzi debbano essere impiegati per
raggiungere dati fini, rappresenta, in certo senso, il processo logico inverso di quello cui è abituato
l’economista. Il compito dell’analisi economica consiste nel considerare i
“dati” (compresi in essi gli strumenti della politica economica) come noti e i
fenomeni e le variabili economiche (compresi gli obiettivi della politica
economica) come incognite. Nella politica economica, si
considerano gli obiettivi come noti e gli strumenti come incognite, o quanto
meno come parzialmente incognite.
3. I rapporti con le altre
discipline
Sono
stati indicati sinora i rapporti molto stretti esistenti tra le varie branche
della scienza economica. È anche
necessario tener presente, tuttavia, che lo studio dei fenomeni economici si
avvale estesamente dell’ausilio delle matematiche e delle statistiche, nonché
dell’apporto di altre discipline quali
la storia generale ed economica, la sociologia, il diritto.
Più
che sottolineare in termini generici l’utilità odierna delle ricerche
“interdisciplinari”, piò essere utile richiamare l’attenzione sulle considerazioni
che seguono, dovute allo studioso svedese Gunnar Myrdal , che ha dato contributi eminenti sia
all’economia sia alla sociologia.
...
Le scienze sociali stanno ora penetrando ogni angolo della società e ogni fase
della vita umana. Vanno gradualmente infrangendosi i tabù e la loro
distruzione, nell’intento di razionalizzare il senso comune, è divenuta una dei
maggiori obiettivi della scienza sociale occidentale. Ci rendiamo conto che tutti i problemi umani sono complessi; essi non
possono essere incasellati nei comparti delle discipline accademiche
tradizionali, in modo da essere considerati come problemi economici,
psicologici, sociali o politici. A volte, per fini didattici o per maggiore
efficacia della ricerca mediante la specializzazione, le antiche discipline
sono state mantenute ad anche divise in sottodiscipline; tuttavia non viene da
noi attribuito a queste divisioni il medesimo significato che avevano nel
passato. Oggi, ad esempio, nessuno avanzerebbe conclusioni circa la realtà
sociale unicamente in base a concetti economici, per quanto ciò fosse fatto
frequentemente due generazioni fa. Per evitare impostazioni superficiali e
unilaterali, le discipline sociali specializzate cooperano nella ricerca. In
aggiunta, una particolare disciplina, la sociologia, pone l’accento
sull’insieme delle relazioni sociali e si occupa in modo speciale di quei campi
della realtà sociale, che sono analizzati in modo meno approfondito delle altre
discipline. (Myrdal, 1968, vol. 1 p. 5).
4. La funzione dei “giudizi di
valore”
Si
deve allo stesso Myrdal un contributo molto importante al chiarimento della
posizione che le “premesse o giudizi di valore” (vale a dire le preferenze politiche e gli ideali etici)
hanno nelle scienze economiche, o sociali in genere.
Il
dibattito sull’obiettività della scienza (che implicherebbe la sua “neutralità”
nei confronti dei diversi ideali politici e morali), ovvero sull’inevitabilità
che essa rifletta anche la “visione del mondo” dello studioso (e quindi
preferenze di carattere necessariamente soggettivo) è antico quanto lo sforzo
umano rivolto all’ampliamento delle conoscenze. Myrdal ha contribuito a tale
dibattito, assumendo una posizione decisamente critica nei confronti della tradizionale e diffusa concezione secondo la
quale la scienza potrebbe considerarsi tale solo in quanto “immune da giudizi
di valore”.
Come
egli scrive, “………Il credere nell’esistenza di un corpus di conoscenze scientifiche acquisite indipendentemente da ogni giudizio di valore è, come ora io ritengo, ingenuo empirismo
(…)” In qualsiasi lavoro scientifico “ si devono porre delle domande per
ottenere risposte. E le domande sono espressione del nostro interesse nelle
cose del mondo, sono in essenza delle valutazioni. (Myrdal, 1953, Prefazione,
p. VII).[1]
In
altri termini, gli ideali umani costituiscono una componente ineliminabile
della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività
consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo
o reprimerli. È quello appunto che suggerisce Myrdal, allorchè afferma
il suo convincimento “nella necessità di lavorare sempre, dal principio alla
fine, con esplicite premesse di valore”; avvertendo inoltre che esse debbono
essere “ importanti e significative per la società in cui viviamo”. (ibid. , p. VIII).[2] […]
5. I criteri ispiratori della
trattazione
Per
rimanere aderenti a questa impostazione,
ci è d’obbligo avvertire il lettore che la trattazione che seguirà è
influenzata dalla premessa ideale del prevalere inevitabile delle idee, alla
lunga, sugli interessi costituiti. […]
Il
metodo seguito nella trattazione è poi quello di tendere alla ricostruzione
storica degli sviluppi sia del pensiero teorico, sia dell’azione dei poteri
pubblici nella vita economica, nell’intento di porre in rilievo la maniera in
cui i vari problemi si sono venuti ponendo nel corso del tempo.
Questa
concezione che tende a considerare “il presente come storia”- per utilizzare il
significativo titolo di un volume di Sweezy (1970) – non consente di evitare un
tema oggi largamente dibattuto e che riguarda l’affermata “crisi” della scienza
economica.
6. Un’interpretazione
dell’affermata “crisi” della scienza economica
[…]
Nel tentativo di contribuirvi in qualche modo, si può prendere avvio da uno dei
“lamenti” che ha avuto maggiore risonanza: quello elevato da Joan Robinson con
il suo articolo “la seconda crisi della scienza economica”(1972). Già
questo riferimento a una duplice crisi induce ad andare oltre l’argomentazione
di mera scontatezza psicologica cui allude Hahn. La prima crisi coincise,
cronologicamente, con il periodo della grande depressione degli anni trenta; la
seconda è, ovviamente, quella che stiamo sperimentando. Elemento comune alle
due crisi è l’evidente incapacità del pensiero economico di fornire spiegazioni
convincenti dei fenomeni sottoposti al suo esame e di proporre soluzioni
adeguate ai più assillanti problemi del momento. Con riferimento alla prima crisi,
la Robinson sintetizza lucidamente i punti di vista dell’”opinione ortodossa” alla quale si contrappose
polemicamente l’insorgenza Keynesiana. […]
Ciò
che interessa sottolineare è che c’era, all’epoca della grande crisi, un
pensiero economico egemone, che risultava tale indipendentemente dalla
distinzione interna tra concezione marshalliana e concezione warlas-paretiana
(vedi p. 21). Rispetto a questo pensiero egemone (che – si ripete – comprende, ai fini che
interessano, sia la scuola di Cambridge sia quella di Losanna) , vi erano le
correnti eterodosse, ereticali (incluse quelle marxiste, o quelle
istituzionaliste, seguite in particolare negli stati uniti). Esse, tuttavia,
erano considerate talmente poco meritevoli di considerazione, da parte del
pensiero “egemone”, che destò scandalo quel certo recupero che Keynes cercò di
fare di alcune intuizioni degli eretici dell’economia (Keynes, 1936, cap.23;
trad. it. 1947, pp. 297 sgg.). […]
Vi
è un’impostazione che, senza negare l’opera di creazione e di incremento della
scienza, considera che essa debba sostanzialmente svolgersi nell’ambito di una
concezione privilegiata nella quale sono contenute le premesse di ogni
ulteriore svolgimento. Vi è un’impostazione che non si limita ad attribuire
carattere privilegiato a una determinata concezione, ma ritiene indispensabile
un’azione “guastatrice” che demolisca, una volta per tutte, orientamenti (come
quello detto marginalistico) che pur hanno costituito parte del cammino della
scienza economica. Vi è, infine, una concezione che considera la scienza
economica come “un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio
della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli
precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico”(Del Vecchio,
1961). […]
Vi
è poi un aspetto della affermata “crisi” della scienza economica che investe
direttamente la politica economica, in quanto sono riaffiorati di recente
orientamenti di pensiero che, contrapponendo “lo stato” al “mercato” (secondo
una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri
pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzante (Rosa
e Aftalion, 1979). Atteggiamenti del genere sono talvolta indice di una specie
di arrogante isolazionismo intellettuale, che sembra inconsapevole del
carattere del tutto acquisito di temi metodologici (come quello della
“neutralità” della scienza e della funzione dei giudizi di valore) che sono
stati già da tempo chiariti e che vengono riproposti come nuovi. Altre volte (come nel caso di f. Hayek e di
M. Friedman, le figure più rappresentative del neo-liberismo economico), si
sottolinea la validità del mercato, come forma organizzativa dell’assetto
sociale, senza tener conto delle numerose dimostrazioni fornite, attraverso il
tempo, dei “fallimenti del mercato”: aspetti che trovano una larga
esemplificazione nel capitolo terzo di questo volume.
Poiché
il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente
necessaria e non un elemento di per sé
distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso
neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore.
Sul piano storico, l’intervento pubblico nell’economia, è tutt’altro che esente
da inconvenienti ed errori.
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giovedì 11 aprile 2013
Profilo del pensiero economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa. - Stefano Garroni -
Profilo del pensiero
economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa.
Così
scrive Adam Smith, nel 1776: “Il prodotto del lavoro costituisce la naturale
retribuzione o salario del lavoratore. In questa situazione originaria delle
cose, che precede l’appropriazione della terra come anche l’accumulazione di
capitale, l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Non vi sono
ancora proprietari terrieri, né imprenditori (Beschäftiger), con i quali egli debba ripartire (il prodotto del
lavoro). Se questa condizione fosse continuata, il salario del lavoratore
sarebbe aumentato con la maggiorazione delle sue forze di lavoro, scaturite
dalla divisione del lavoro. Tutte le cose sarebbero state sempre più
convenienti (wohlfeiler), perché
avrebbero richiesto meno lavoro per la loro produzione.”[1]
Per chiarire meglio, proseguiamo la lettura: “le cose sarebbero state prodotte da una minore quantità di lavoro e le merci, poiché prodotte da una analoga quantità di lavoro, sarebbero state scambiate l’’una con l’altra… Ma questa condizione originaria, in cui il lavoratore godeva dell’intero prodotto del suo lavoro, non poteva durare quando vi fu la prima appropriazione della terra e accumulazione di capitale” (40s).[2]
Dunque, esiste una condizione “originaria”, in cui la proprietà privata non si coniuga con lavoro salariato, perché le due figure –di proprietario privato e di lavoratore- vengono a coincidere[3] Ma a questa fase ne succede un’altra, in cui alcuni hanno la proprietà privata delle condizioni di lavoro, ed altri, invece, debbono –in cambio di un salario- ‘affittare’ la propria capacità lavorativa. E’ interessante che, giusta la raffigurazione smithiana, la prima fase della storia economica condurrebbe, se potesse svilupparsi, ad un progressivo miglioramento del tenore di vita, legato ad un progressivo abbassamento del costo delle merci.
Ma da questa fase l’umanità esce fondamentalmente per un motivo, di cui Smith non offre spiegazione, vale a dire, a causa dell’appropriazione privata delle condizioni economico-industriali (lo stock, come lo chiama Adam Smith) ed economico-agricole (con la conseguente formazione della classe dei proprietari fondiari).[4]
Come abbiamo già letto in Smith, da questo mutamento del quadro economico-sociale, deriva la formazione della figura del lavoratore salariato, a proposito del quale lo stesso Smith dichiara: “un uomo deve sempre vivere del suo lavoro ed il suo salario deve almeno esser tale da consentirgli di mantenersi; ma per lo più deve essere un poco più alto, sennò il lavoratore non avrebbe la possibilità di formarsi una famiglia, in modo che il suo genere possa esistere oltre una generazione.”[5]
Come si vede, per formulare la tesi, secondo cui –all’interno dei rapporti sociali capitalistici di produzione- il salario del lavoratore tende a ridursi al minimo vitale, dunque, tende ad identificarsi con quanto consente al lavoratore di mantenersi come fonte di capacità lavorativa e come produttore di nuovi, futuri lavoratori, per formulare questa tesi Marx doveva semplicemente leggere i grandi economisti dell’epoca per trovarla già formulata apertis verbis – torna a manifestarsi in questo modo quello, che Marx indicava con cinismo degli economisti. Per quanto possa apparir bizzarro, l’accusa di cinismo, che Marx formula, è uno dei segni del suo rapporto con la letteratura economica ed, in questo senso, con la realtà dell’orizzonte economico capitalistico.
sabato 30 marzo 2013
Quando si paga il debito sovrano? - Giorgio Gattei -

domenica 24 marzo 2013
Fatica sprecata. Produttività e salari in Europa. - Maurizio Donato -

"[...] prescindendo da un giudizio sulla possibilità e sulla desiderabilità di un ulteriore aumento della produttività, è possibile sostenere che:
1. La produttività del lavoro, e dunque il livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive, è storicamente alta, anzi altissima, in occidente e dunque nei paesi europei capitalisticamente sviluppati;
2.. La circostanza per cui in un determinato periodo la produttività sia cresciuta in un gruppo di paesi più che in un altro può dipendere dagli investimenti in innovazioni tecnologiche, da scelte (o non scelte) politiche e strategiche, dalla dimensione media o dalla specializzazione settoriale delle imprese che operano in un determinato paese;
3... Che una maggiore produttività si traduca in più alti salari è una evidenza che non esiste a livello empirico, mentre tipicamente accade il contrario: un maggiore valore aggiunto prodotto per lavoratore occupato, anche a voler prescindere dei suoi “sbocchi”, in particolare nelle fasi in cui la domanda internazionale è debole, corrisponde da molti anni a questa parte a una minore e più precaria occupazione che a sua volta si traduce in una maggiore competizione sul mercato del lavoro che indebolisce la lotta per aumenti salariali.
4. La crisi non colpisce tutte le classi sociali allo stesso modo: la quota di salari diminuisce e quella destinata ai profitti cresce"
Leggi tutto: http://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/2656-maurizio-donato-fatica-sprecata-produttivita-e-salari-in-europa.html.
mercoledì 20 marzo 2013
Il tema hegeliano del "riconoscimento". - Stefano Garroni -

“Hegel è tutto fuorché un intellettualista: senza la creazione mediante l’azione negatrice non c’è contemplazione del dato. La sua antropologia è fondamentalmente differente dall’antropologia greca, per la quale l’uomo dapprima sa e si riconosce, quindi, agisce.” (Alexandr Kojève).
Negli anni Venti del nostro secolo, il
neopositivista Moritz Schlick sottolineava come conoscere (erkennen) sia propriamente un ri-conoscere (wieder-erkennen).
Com’è noto, questo tema del conoscere come riconoscere già lo abbiamo incontrato in Hegel;
dunque, può destare qualche meraviglia ritrovarlo in un ambiente (quello
neo-positivista), che di solito considera Hegel il campione del pensiero
speculativo e metafisico, contro cui si indirizza l’analisi linguistica,
proposta, a partire dal Wienerkreis (Circolo
di Vienna, 1929), quale strumento terapeutico contro gli abusi linguistici[1] e di
pensiero.
La stessa puntualizzazione, che chiarisce come per
Hegel non si tratti esattamente di erkennen/wiedererkennen
(riconoscere), ma sì di erkennen
/anerkennen (riconoscere, ma nel senso di legittimare), non ci toglie
dall’imbarazzo, dato che M. Schlick usa wiedererkennen,
intendendo dire che <conoscere X>
equivale a ritrovare in X la possibilità di ricondurlo a una certa forma
o regola, nella quale la ragione ritrova o riconosce
se stessa; dunque, per Schlick, affermare che la ragione conoscendo, riconosce
X, significa dire che la ragione legittima
X, testimonia della sua razionalità,
lo accetta nel dominio del razionale.
A questo punto wiedererkennen vale
esattamente anerkennen.
Da quanto detto, si possono ricavare due
conseguenze:
(i) comune a due grandi momenti del razionalismo
moderno (pensiero di Hegel e Wienerkreis[2]) è la
concezione del conoscere (che ha nella scienza la sua espressione più compiuta[3]) come
riconoscere/legittimare;
(ii) ciò posto, possiamo esaminare il tema nel
solo Hegel, pur avendo lo scopo di mettere in evidenza come
conoscere/riconoscere implichi certe condizioni, che valgono probabilmente per
qualunque razionalismo moderno.
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