sabato 9 marzo 2024

False promesse e ristrutturazione economica ai danni dei lavoratori - Alessandra Ciattini e Federico Giusti

Da: https://futurasocieta.com - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. - Federico Giusti è delegato CUB nel settore pubblico, collabora coi periodici Cumpanis, La Città futura, Lotta Continua ed è attivo sui temi del diritto del lavoro, dell'anticapitalismo, dell'antimilitarismo. 
Leggi anche: Come siamo arrivati alla situazione attuale - Emiliano Gentili e Federico Giusti


Prima e dopo il neoliberismo

Lavorare meno per lavorare tutti/e, era uno slogan, anzi un obiettivo, del movimento operaio per ridurre l’orario giornaliero e settimanale, allentare la morsa dello sfruttamento, favorire nuova occupazione sapendo che un esercito industriale di riserva avrebbe potuto alla lunga determinare la contrazione dei salari e un sostanziale arretramento delle condizioni di vita e di lavoro. Il progresso tecnologico, consentendo di ridurre il lavoro necessario alla produzione rende la riduzione dell’orario di lavoro non solo possibile, ma anche necessaria se vogliamo garantire il lavoro a tutti. Perciò tale riduzione a parità salariale, in un determinato contesto storico, ha rappresentato anche una richiesta legata alla riconquista dei tempi di vita a favore dello studio, del tempo libero e delle relazioni familiari e sociali. Per lo stesso motivo il capitale rifugge la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario in quanto il ricatto della disoccupazione costituisce un formidabile fattore di disciplinamento della classe lavoratrice.

Erano gli anni nei quali le ricette neoliberiste in economia e in campo sociale non avevano ancora preso il sopravvento e lo Stato sociale, costruito prevalentemente sulle famiglie monoreddito, per quanto incompleto era tale da consentire una pensione dignitosa (gli anni maturati erano calcolati con il sistema retributivo con un assegno previdenziale in linea con gli ultimi stipendi percepiti), servizi pubblici in campo educativo e sanitario tali da far studiare i figli all’università, grazie anche alle allora famose 150 ore, assicurando alla popolazione il diritto alla cura e alla prevenzione, alla tutela insomma della salute.

giovedì 7 marzo 2024

La porta delle lacrime, le risa del capitale e l'inflazione. Riflessioni amare sulla crisi del Mar Rosso - Andrea Pannone

 Da: https://www.machina-deriveapprodi.com - Andrea Pannone, economista esperto nell'analisi dei processi di innovazione tecnologica e dei suoi riflessi a livello microeconomico e macroeconomico. Attualmente è ricercatore senior alla Fondazione Ugo Bordoni, ente in cui lavora dal 1993. Si è laureato con lode in Scienze Statistiche ed Economiche all’Università di Roma La Sapienza presso cui ha conseguito anche il Dottorato in Scienze Economiche. È stato docente di economia politica e di economia dei nuovi media in diversi master organizzati in Università pubbliche e private. È autore di pubblicazioni nazionali e internazionali. Ha pubblicato per DeriveApprodi «Che cos'è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo».

crisi del Mar Rosso

Nel testo odierno, Andrea Pannone riflette sulle conseguenze economiche del conflitto in Medio Oriente e delle azioni del gruppo yemenita Houthi.

È un testo molto utile perché spiega i maggiori beneficiari delle tensioni belliche, gli interessi materiali sul campo e dunque le contraddizioni tra gli attori della guerra.



La guerra nello stretto e le conseguenze sul commercio mondiale

 Come ci ricorda il National Geographic Magazine, Bab el-Mandeb, in arabo la Porta delle lacrime, è una piccola strozzatura geografica nel Mar Rosso che ha un'influenza enorme sull’economia mondiale: è un punto chiave per il controllo di quasi tutte le spedizioni tra l'Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez[1]. Da lì, come ormai noto, passa quasi il 15% del commercio marittimo globale, compreso l’8% del commercio mondiale di cereali, il 12% del petrolio commercializzato via mare e l’8% del commercio totale di gas naturale liquefatto.

Da circa due mesi alcune navi che transitano in quel tratto sono prese di mira dai droni e dai missili del movimento yemenita Houthi, da anni sostenuto dall’Iran. Alcune navi, non tutte però. Solo le navi mercantili che navigano al largo delle coste dello Yemen e che hanno collegamenti con Israele. Gli stessi Houthi presentano gli attacchi come una risposta alla mancata condanna da parte dell’occidente al massacro che il governo di Netanyahu sta compiendo a Gaza. In realtà, si potrebbe a buon diritto sostenere (come fa ad esempio Emiliano Brancaccio nell’articolo Lo stretto necessario, il Manifesto, 23 gennaio 2024) che le azioni degli Houthi, sicuramente ben note a Teheran, vadano a vantaggio di un progetto antitetico a quello dell’Occidente che mira a contrastare, anche con l’imposizione di barriere commerciali e finanziarie, la crescente sfida dei competitor cinesi e russi al dominio economico degli Stati Uniti e al loro storico ruolo guida delle relazioni geopolitiche. Qualunque sia la loro effettiva motivazione, gli scontri armati hanno avuto come conseguenza l’aumento delle tensioni belliche in Medio Oriente e l'arrivo di navi da guerra di diversi paesi occidentali (in particolare statunitensi e britanniche, ma anche le navi italiane dovrebbero rivestire un ruolo) allo scopo di pattugliare l'area, mentre molte compagnie internazionali di shipping (ad esempio Maersk Line, Hapag Lloyd e Mediterranean Shipping Company)  stanno decidendo di tornare a percorrere come in passato la rotta più lunga e più costosa per raggiungere il Mediterraneo: quella che obbliga alla circumnavigazione dell'Africa. Difficile prevedere in prospettiva l’esito di questo nuovo scenario di guerra. Questo scritto si prefigge, coerentemente all’approccio già seguito in Pannone 2023(a) e 2023(b), di focalizzare l’attenzione non già sulle finalità  geopolitiche degli Stati o dei gruppi armati coinvolti nel gioco delle parti, quanto sugli interessi materiali dei gruppi economico-finanziari che possono trarre maggiore beneficio da un’escalation controllata del conflitto in Medio Oriente – di cui la guerra con gli Houthi è solo l’ultimo atto – e che oggi hanno il potere di plasmare le politiche dei governi e il destino dei popoli.


I maggiori beneficiari delle nuove tensioni belliche

martedì 5 marzo 2024

George Orwell o il paladino della libertà - Alessandra Ciattini

Da: https://futurasocieta.com - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. 


George Orwell è stato impiegato per denigrare il socialismo, ma in realtà il suo atteggiamento era più problematico.

Per comprendere come accettiamo acriticamente la propaganda, che necessita di straordinari apparati, potenziata dai più recenti mezzi informatico-tecnologici, ricostruirò brevemente la biografia di George Orwell, soffermandomi sul modo in cui alcune sue opere – non tutte perché di segno opposto – sono state utilizzate e continuino a esserlo, benché siano in pochi ad averle effettivamente lette. L’autore britannico è utilissimo per trasmettere un certo schema interpretativo (frame), con il quale ci abituiamo a interpretare la realtà che ci circonda, in particolare l’idea che l’Unione Sovietica sia sempre stata un paese totalitario. Ed è proprio a questo scopo che è stata creata la figura di George Orwell e il suo successo, di fatto fomentato non a caso, dei suoi libri 1984 e La fattoria degli animali, che ogni intellettuale di vario orientamento si sente di citare.

Il suo vero nome era Eric Arthur Blair ed era nato in India nel 1903 in una famiglia piccolo-borghese. Tornato in Inghilterra, studiò all’Eton College, dove ebbe come insegnante Aldous Huxley, che fu sua fonte di ispirazione per i suoi romanzi distopici, di cui esistono molteplici esempi spesso dimenticati. Lasciati gli studi, lavorò per la Polizia imperiale birmana, ossia nell’apparato colonialistico, per distaccarsene nel 1928, recandosi a Parigi, dove condusse una vita difficile e cominciò la sua attività di scrittore. Lì adottò lo pseudonimo di George Orwell, quando nel 1933 pubblicò il libro Senza un soldo a Parigi e a Londra.

I servizi segreti cominciarono a occuparsi di lui, spirito ribelle e bohémien, quando negli anni ’30 iniziò a lavorare per il giornale «Worker’s Life» e visse per un certo periodo a Wigan, una città mineraria nel Nord dell’Inghilterra, dove svolgeva ricerche sulla vita della classe operaia e abitava in un appartamento fornitogli dal partito comunista locale. In quegli anni anche in Gran Bretagna forti erano i timori per l’espansione del comunismo sovietico e non era facile cosa pensare di un personaggio così originale e anticonformista come Blair. La Special Branch (Sezione speciale dei servizi segreti britannici) lo definì un uomo di “opinioni comuniste avanzate”, ma l’MI5 (Military Intelligence, Sezione 5) comprese che in realtà non si trovava d’accordo con il Partito Comunista. Il frutto delle sue ricerche di quegli anni fu il libro La strada verso Wigan Pie (1937), sulle condizioni miserevoli della classe operaia inglese prima della Seconda guerra mondiale, che ovviamente è caduto nel dimenticatoio.

domenica 3 marzo 2024

Konstantin Sivkov: i fallimenti dell’esercito ucraino come quelli dei nazisti nel 1943

 Da: https://giuliochinappi.wordpress.com - https://www.facebook.com/WorldPoliticsBlog - Giulio Chinappi insegnante e analista che vive e lavora in Vietnam, collabora con La Città Futura e altre testate. 

Vice Presidente dell’Accademia Russa delle Scienze dei Missili e dell’Artiglieria per la Politica dell’Informazione, Konstantin Sivkov ha pubblicato un lungo articolo nel quale analizza i fallimenti dell’esercito ucraino, paragonabili a quelli registrati dai nazisti nel 1943 contro l’Unione Sovietica. Di seguito la traduzione dell’articolo. 

Gli obiettivi dell’offensiva dell’esercito ucraino nell’estate del 2023 e le dimensioni dei gruppi combattenti formati per portarla avanti sono in certo modo paragonabili a quanto l’esercito tedesco mise in campo per la sua Operazione Cittadella (Unternehmen Zitadelle, ndt) nel 1943. Questo ci dà i motivi per chiamare l’offensiva di Kiev nell’estate del 2023 Operazione Cittadella 2.0.

Considerando le sue conseguenze militari-politiche, il fallimento dell’Operazione Cittadella 2.0 ha significato non solo la sconfitta militare-strategica dell’esercito ucraino ma anche il crollo della blitzkrieg ibrida consolidata dell’Occidente.

Possiamo affermare con audacia che la cosiddetta controffensiva tentata dall’esercito ucraino nell’estate del 2023 è stato un evento contro il quale tutti gli altri sviluppi difficilmente avrebbero potuto attrarre così tanta attenzione. Non è sorprendente, perché questa controffensiva era di fondamentale importanza nello scontro tra Occidente e Russia poiché il suo esito ha in gran parte plasmato non solo la situazione nell’area dell’operazione militare speciale, Russia e Ucraina, ma anche le tendenze della situazione globale in cambiamento.

Pertanto, è del tutto naturale che tutti i principali media abbiano prestato molta attenzione ai fronti dell’operazione militare speciale, fornendo dettagli sulla situazione tattica nelle principali aree di prima linea. Tuttavia, le fonti aperte di informazione non hanno ancora offerto un’analisi operativo-strategica di questo evento chiave dell’anno scorso almeno a grandi linee. Questa analisi è forse disponibile nella letteratura classificata speciale, ma è inaccessibile al pubblico in generale. Ecco perché è necessaria una rassegna operativo-strategica degli eventi che si sono verificati nell’estate del 2023 nelle fonti di informazione aperte, poiché questo sforzo è vitale affinché la nostra gente comprenda la loro portata e importanza. Oltre all’aspetto operativo-strategico propriamente detto, dovremmo prestare attenzione alle implicazioni militari-politiche di questi sviluppi. È del tutto naturale che difficilmente possiamo fare un’analisi così dettagliata all’interno di un unico articolo e, pertanto, ci concentreremo sugli aspetti più importanti che mostrano la dimensione e l’importanza di questi eventi.

sabato 2 marzo 2024

Modernizzazione socialista cinese: in cosa differisce dalla via occidentale - Francesco Maringiò

Da: futurasocieta - marx21 - cri.cn - Francesco Maringiò, Presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta. 

Leggi anche: 50 anni di relazioni (Italia-Cina) ed un futuro tutto da scrivere - Francesco Maringiò 

Vedi anche: Ruolo e funzioni del Partito Comunista Cinese nella Repubblica Popolare Cinese


In un recente libro pubblicato dalla prestigiosa casa editrice tedesca Springer, il professor Hu Angang (1) ha illustrato le caratteristiche peculiari del processo di modernizzazione cinese e le tendenze di sviluppo al 2035 (l’anno nel quale la Cina punta a realizzare la modernizzazione socialista), chiarendo un aspetto peculiare: quella cinese è una modernizzazione guidata dal Partito comunista.

Già questo distingue nettamente il poderoso sviluppo cinese degli ultimi decenni dalla via seguita dai paesi capitalisti più sviluppati e ci permette di comprendere alcuni aspetti che, vista l’importanza che il dibattito sulla modernizzazione riveste per la classe dirigente del paese, è utile conoscere e comprendere. Non è un caso che Xi Jinping, nel suo discorso programmatico dopo il 20º Congresso Nazionale del PCC abbia dedicato un lungo passaggio proprio al tema della modernizzazione in stile cinese e la sua differenza sostanziale con quella occidentale.

Proviamo a fare un passo indietro. Quando i rivoluzionari cinesi presero il potere dovettero fare i conti col fatto che era quasi del tutto assente una teoria marxista della modernizzazione in senso stretto ed essi dovettero sperimentare sia sul piano teorico che pratico per riuscire ad individuare la strada in grado di modernizzare il paese nel tempo più breve possibile. Per quanto l’Unione Sovietica fosse un esempio di alternativa allo sviluppo capitalistico, tuttavia alcune caratteristiche (tutt’ora fondamentali) quali l’enorme popolazione ed il bisogno di uno sviluppo armonico tra le varie aree del paese, spinsero il gruppo dirigente cinese ad avviare diverse sperimentazioni.

giovedì 29 febbraio 2024

Semi di un mondo futuribile. Note sparse su alcuni problemi internazionali del nostro tempo - Aristide Bellacicco

Da: https://futurasocieta.com -  Recensione del libro di Alessandra Ciattini, Semi di un mondo futuribile. Note sparse su alcuni problemi internazionali del nostro tempo, Multimage, Firenze 2023. - Aristide Bellacicco (Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni") - Leggi anche: PER UNA SPERANZA DI FUTURO - Antonio Minaldi 







L’epoca in cui viviamo, così come emerge dalle pagine di questo bel libro di Alessandra Ciattini, potrebbe apparire folle o insensata, vittima del caos generato da conflitti furibondi che hanno senz’altro trovato un motivo di ulteriore scatenamento nella fine dell’assetto internazionale conseguente, in modo determinante, alla scomparsa dell’Unione Sovietica.

Eppure, per dirla con l’Amleto, può darsi che “in questa follia” ci sia “del metodo”: il punto è capire in cosa tale metodo consiste e quali sono gli esiti ai quali potrebbe condurre.

È questo, mi sembra, il tentativo che anima il testo, a partire dal titolo che, come l’autrice sintetizza nella quarta di copertina, allude alla possibilità del comparire di “qualche spiraglio di cambiamento positivo” in un mondo che “tenta a fatica di darsi un ordine”. 

Qui però non si tratta più del mondo in cui molti di noi hanno trascorso gran parte della loro vita: e penso soprattutto ai marxisti, bene o male legati all’idea che la lotta di classe (che sarebbe stato meglio declinare come “lotta delle classi”) avesse dalla sua una positiva razionalità con cui fronteggiare l’essenziale anarchia del grande capitale e il suo procedere alla pura e semplice distruzione dell’esistente a scopo di profitto. 

Quel mondo non esiste più e non si può evitare di prenderne atto. Mille fenomeni ce lo testimoniano: e forse le straordinarie e, diciamolo pure, sbalorditive trasformazioni cui è andata incontro la Cina a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso costituiscono uno fra i più eloquenti di tali fenomeni. 

L’autrice mette molto bene in evidenza tutto ciò: in particolare come, insieme alla ricostituzione via via crescente di un sistema di mercato e di economia a base capitalistica, i gruppi dirigenti cinesi stiano conducendo una lotta a fondo contro la povertà estrema e a favore di un ampliamento delle forme di democrazia “consultiva”. Può apparire come una contraddizione, certo, ma una contraddizione di tipo nuovo, con la quale forse non siamo ancora attrezzati a fare i conti. 

martedì 27 febbraio 2024

Dal prestito alle “tavolette” dei Sumeri (con le equazioni di Dgiangoz). Cronache marXZiane n. 13 - Giorgio Gattei

Da: http://www.maggiofilosofico.it - Giorgio Gattei è uno storico del pensiero economico ed economista marxista italiano. Professore di Storia del Pensiero Economico presso la Facoltà di Economia dell'Università di Bologna. 

I Precedenti... 

- http://www.maggiofilosofico.it/cosi-parlo-saggio-massimo-cronache-marxziane-n-7/
- http://www.maggiofilosofico.it/sraffa-sul-pianeta-marx-cronache-marxziane-n-6/
- http://www.maggiofilosofico.it/lanomalia-di-un-pianeta-che-cresce-cronache-marxziane-n-5/
- Tre Saggi per un pianeta (intervista a Saggio Massimo). Cronache marXZiane n. 4 - Giorgio Gattei
- Inside Marx. Viaggio al fondo del pianeta. Cronache marXZiane n. 3 - Giorgio Gattei
- Che vita su Marx! Cronache MarXZiane n. 2 - Giorgio Gattei
- C’è vita su Marx? Cronache MarXZiane n. 1 - Giorgio Gattei 


1. Sul pianeta Marx (quell’insolito corpo astrale comparso nel cielo della economia politica nel XVIII secolo e studiato da astronomi capaci come Adam Smith, David Ricardo e infine da Karl Marx che gli ha dato il nome) io sono stato trascinato nel 1968 dai marXZiani dell’astronave “la Grundrisse”, che mi hanno letteralmente rapito, e nella mia lunga esplorazione di quel pianeta, che sto raccontando in queste “Cronache marXZiane”, sono alla fine approdato alla terra di Saggio Massimo (del profitto) nella quale non si pagano salari. Ma non è paradossale che non si remuneri il lavoro che pure s’impiega nella produzione delle merci? Niente affatto se si segue l’acuta osservazione del cosmonauta (non astronauta!) Piero Sraffa, che ha visitato personalmente quel pianeta prima di me dandone un resoconto preciso in Viaggio di merce per merce (1960), che il salario va considerato come composto di due parti distinte: un “salario di necessità” e uno “di sovrappiù”, con il primo che è dato esogenamente e deve essere necessariamente pagato per la sopravvivenza dei lavoratori «sulla stessa base del combustibile per le macchine o del foraggio per il bestiame», mentre il secondo partecipa in competizione con il profitto alla spartizione del sovrappiù prodotto attraverso il sistema della contrattazione sindacale tra le parti sociali di capitalisti e lavoratori ed è variabile potendo andare da “tutto il prodotto al lavoro” (come recitava la rivendicazione politica di un tempo) a zero quando la forza del lavoro sia così indebolita (per qualsiasi accidente storico, compreso il maledetto fascismo) da dover lasciare l’intero sovrappiù alla parte avversa. Così in quella estrema periferia del pianeta Marx il fatto che non si paghino salari significa soltanto che non si paga il “salario di sovrappiù”, dato che quello “di necessità” rimane, eccome, dentro ciò che in gergo è chiamata la “matrice della tecnica” ad indicare quali e quanti input, ovvero fattori produttivi compresi quindi i beni-salario “necessari”) servono per produrre ogni output. E’ proprio questa condizione che permette di costruire una pura logica del profitto senza alcuna contaminazione salariale, dovendosi pur giustificare quella curiosa indicazione di Marx, ripresa da Sraffa, sulla «possibilità di una caduta del saggio del profitto ‘perfino se i lavoratori potessero vivere di aria’» (e ci arriveremo, ma solo alla conclusione di queste Cronache, sebbene a futura memoria lascio già qui almeno una traccia: che “Macondo” è il nome autentico del pianeta Marx per i suoi abitanti).

domenica 25 febbraio 2024

Engels e l'antropologia delle religioni - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Approfondimenti teorici (Unigramsci)Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma 


Engels ha dato un contributo significativo alla riflessione sulla relazione tra situazione sociale e concezioni religiose.

In un libro molto interessante dedicato alla riflessione sulla religione Brian Morris [1990: 44] individua nel pensiero di Marx e di Engels due prospettive diverse, a suo parere, contraddittorie. La prima costituisce una sorta di antropologia filosofica e può essere riscontrata nell'Ideologia tedesca e nel capitolo sul feticismo delle merci nel Capitale. Secondo Morris tale prospettiva, fondata su nozioni di origine hegeliana come reificazione, obiettivazione, alienazione, è generica e astratta. Accanto a questo tipo di analisi Marx, ma anche Engels portarono avanti ricerche di tutt'altro segno, in particolare indagini storiche specifiche volte ad illustrare concretamente il rapporto fra certe determinate forme di ideologia religiosa e le condizioni materiali, in senso marxiano, in cui esse si sono sviluppate.

Per la sua impostazione empiristica Morris dà senz'altro la preferenza a questo ultimo tipo di analisi. Probabilmente è opportuno, tuttavia, rivedere tutta la questione, cercando di chiarire sia pure nello spazio di un breve scritto, se le cose stanno effettivamente in questi termini e se possibile delineare un contributo originale di Engels alla problematica antropologico-religiosa, così come si è delineata almeno dalla seconda metà del 700.

Comincio dalla prospettiva storico-sociologica, perché il problema è certamente più semplice. Esempi illuminanti ed interessanti di questo modo di procedere li troviamo nella Guerra dei contadini in Germania (1850) e nelle riflessioni sulla storia del cristianesimo. In questi scritti Engels prende in considerazione la relazione tra un certo sistema di credenze e di pratiche religiose e un determinato gruppo sociale, per mostrare come il primo sia strettamente connesso alle condizioni storico sociali del secondo.

Nel primo scritto egli osserva che in Germania all'epoca della riforma si contrapponevano tre blocchi politico-sociali: 1) il campo cattolico conservatore, nel quale si riunivano i difensori dell'ordine esistente, ossia “…il potere imperiale, i principi ecclesiastici, una parte dei principi laici, la nobiltà più ricca, i prelati e il patriziato cittadino”; 2) il campo della riforma luterana borghese moderata, che comprendeva piccola nobiltà, borghesia e parte dei principi laici; 3) infine i contadini e i plebei, che si richiamavano alle concezioni religiose egualitarie e comunistiche di Thomas Münzer [Marx ed Engels 1969: 80].

venerdì 23 febbraio 2024

La Filosofia di Lenin. Da "Materialismo ed empiriocriticismo" ai "Quaderni filosofici" -

Da: MarxVentuno Edizioni - Galofaro Francesco è professore associato all’Università IULM di Milano. - 
Roberto Fineschi è docente alla Siena School for Liberal Arts.  È membro del comitato scientifico dell’edizione italiana delle Opere complete di Marx ed Engels, dell’International Symposium on Marxian Theory e della Internationale Gesellschaft Marx-Hegel für dialektisches Denken.

                                                                         

mercoledì 21 febbraio 2024

La guerra mondiale e l’Europa - Alessandra Ciattini e Ascanio Bernardeschi

Da: https://giuliochinappi.wordpress.com - https://futurasocieta.com/ - 

Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. - Ascanio Bernardeschi collabora con UniGramsci (Pisa), La Città futura e Futura Società [(APPROFONDIMENTI TEORICI (UNIGRAMSCI)]. 

Le varie parti della “guerra mondiale a pezzi” hanno una logica comune e l’Europa, contro i propri stessi interessi, tollera questa logica. I comunisti devono invece appoggiare lo sforzo dei popoli che vogliono liberarsi dalla violenta supremazia occidentale.

Se alcuni mesi fa papa Bergoglio aveva parlato, con riferimento ai troppi conflitti in corso, di “guerra mondiale a pezzi”, ci pare che questi pezzi si stiano pericolosamente fondendo nell’ambito di un orientamento sistemico alla guerra da parte delle maggiori potenze occidentali e della Nato.

Il motivo fondamentale è che stanno crollando i vecchi equilibri di fronte all’emergere impetuoso di nuovi protagonisti, fino a poco tempo fa dominati dalla violenza, più che dall’egemonia, del cartello di nazioni “evolute” dominato dagli Usa.

È proprio la potenza americana che, nel disperato tentativo di salvaguardare il suo predominio – e il predominio della propria valuta che le consente di vivere ben al di sopra delle proprie capacità produttive –, ha scelto il terreno militare dello scontro, consapevole che su quello economico la sua supremazia sta vacillando. La logica della maggior parte delle guerre in atto si può spiegare solo tenendo presente questa premessa.

martedì 20 febbraio 2024

“A Gaza l’imperatore è nudo, la sua malevolenza è chiara. Chi tace è complice” - Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Da: https://altreconomia.it - Maria Tavernini è una giornalista indipendente che vive e lavora a New Delhi dal 2013. Collabora con Altreconomia, Q Code Magazine, Al Jazeera e Narratively, tra gli altri, occupandosi di tematiche sociali, diritti umani e questioni di genere. - Alessandro Di Rienzo collabora con Altreconomia. 


La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, autrice di “Ogni mattina a Jenin”, richiama ciascuno alle proprie responsabilità di fronte a una “disumanità da mozzare il fiato”, trasmessa in “live streaming”. Prendere posizione in una prospettiva decolonizzante è più che mai necessario. Per porre fine all’occupazione israeliana e alla carneficina. 

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-americana nata in Kuwait da genitori resi profughi dalla Guerra dei sei giorni. Da bambina ha vissuto in un orfanotrofio di Gerusalemme prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove vive tutt’oggi. Attivista per i diritti umani, è saggista, scrittrice, poetessa oltre che fondatrice di un’organizzazione non governativa, Playgrounds for Palestine, che costruisce parchi giochi in Palestina e nei campi profughi in Libano. È inoltre coinvolta nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds) ed è relatrice per Al Awda, la coalizione per il diritto al ritorno.

Il suo primo romanzo, “Ogni mattina a Jenin” (Feltrinelli, 2006), è stato tradotto in 32 lingue e ha venduto più di un milione di copie rendendo Abulhawa l’autrice palestinese più letta di sempre. Quel romanzo è riuscito a colmare il vuoto, lamentato da Edward Said, di un’opera letteraria capace di rappresentare -soprattutto su un pubblico occidentale- la tragedia sofferta da diverse generazioni di palestinesi a partire dal 1948, anno della costituzione di Israele, a oggi. Per Abulhawa il romanzo rappresenta un potente mezzo di decolonizzazione e su questa direttrice interpreta la motivazione di autori come James Baldwin e Tina Morrison sull’immaginario della tradizione letteraria araba di autori come Ghassan Kanafani e Elias Khoury.

Da attivista, nel corso degli anni, sempre in chiave decolonizzante, ha esortato i palestinesi a ricambiare la solidarietà ricevuta sottraendosi a una dialettica esclusivamente euro-anglocentrica, ritenendo le lotte indigene e per la giustizia sociale più forti e autorevoli se condotte insieme, in quanto la liberazione si raggiunge in modo più completo quando si è impegnati in quella degli altri. L’impegno del Sudafrica, che ha intentato la causa per genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia al di fuori di alleanze meramente geopolitiche, sembra darle pienamente ragione.

Abbiamo intervistato Susan Abulhawa dopo quattro mesi di guerra, mentre il governo israeliano di Benjamin Netanyahu respingeva la proposta avanzata da Hamas di 135 giorni di tregua con scambio reciproco di prigionieri in vista di un accordo per porre fine alla guerra. Hamas aveva anche chiesto che durante la tregua l’esercito israeliano si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza, proposta giudicata inaccettabile dall’esecutivo di Tel Aviv. Nello stesso giorno il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha lasciato il Medio Oriente spiegando alla stampa che Israele non ha “la licenza per disumanizzare gli altri”. Dal 7 ottobre le vittime palestinesi sono oltre 28.400 e 60mila i feriti. 

domenica 18 febbraio 2024

Le radici valutarie del conflitto in Ucraina - Francesco Schettino

Da: https://www.lantidiplomatico.it - in origine su: https://journals.uniurb.it/index.php/materialismostorico - Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli) è un economista italiano.

Leggi anche: Le caratteristiche economiche della questione palestinese - Francesco Schettino 


1. L’ultima grande crisi e la conflittualità valutaria

Anche il più grande sostenitore delle logiche dell’attuale modo di produzione, se mosso da onestà, non potrebbe negare che da almeno 25 anni il capitale mondiale, nella sua interezza, versa in uno stato di difficoltà, come mostrato dalla Figura 1, seguendo una tendenza ribassista già emersa almeno dalla fine degli anni sessanta, come avremo modo di spiegare più avanti. 

Figura 1 – Tasso di crescita del Pil pro-capite – dato mondiale (1961-2021) – Dollari Usa 2015 costanti. Fonte: World Bank national accounts data, and OECD National Accounts data files.

Il denominatore comune di questa tendenza di medio-lungo periodo può essere individuato nell’eccesso patologico di sovrapproduzione1 che impedisce a tutto il valore prodotto di essere collocato adeguatamente o, in altre parole al plusvalore complessivo di tradursi in profitto a causa della limitatezza del mercato mondiale e della domanda pagante in grado di assorbire tale sistematico eccesso. In questo capitolo tenteremo di focalizzare il nostro campo di indagine sulle evoluzioni del ritmo di accumulazione delle ultime due decadi, ossia a partire dal biennio 2007/2008, periodo ricordato da molti come quello della “crisi finanziaria”. Già l’adozione diffusa di questa limitativa definizione, ormai ampiamente acquisita e sussunta, descrive adeguatamente la natura e l’entità del tentativo di nascondere le vere peculiarità della crisi emersa nel 2008 come epifenomeno di un problema che, come abbiamo già iniziato a vedere è più antico ed endemico al sistema. Del resto, quello di coniare appellativi, talvolta creativi, non è una novità degli ultimi anni. Almeno dal secondo dopoguerra, la classe dominante, assieme ai propri organi di diffusione di massa, ha impiegato molte risorse per negare la specificità principale della crisi – ossia quella di immanente – attribuendogli periodicamente una etichetta in grado di deviare l’attenzione su capri espiatori creati per l’occasione, facendo anche leva su ricostruzioni apparentemente verosimili. Quando la crisi, nella sua fenomenicità emerse violentemente negli anni settanta, fu ricondotta alla crescita dei prezzi dei prodotti petroliferi, mentre il riferimento all’annullamento unilaterale degli accordi di Bretton Woods da parte della nazione fino ad allora egemone (gli Usa) come inevitabile conseguenza degli scricchiolii emersi nel decennio precedente, viene ancora oggi espunto da ogni tipo di discussione “ufficiale” che metta in connessione i fenomeni. E così via negli anni novanta prima con la crisi “delle tigri asiatiche”, poi quella “della new economy”, a fine periodo; poi nel nuovo millennio la crisi “del terrorismo islamico”, alimentata da guerre giustificate da finte provette di armi di distruzione di massa, “quella finanziaria”, quella “della Covid19”, quella della guerra UcrainaRussia e chissà quante altre ancora. Nonostante la consecutività temporale sempre più ravvicinata, la cui evidenza di per sé dovrebbe raccontare una chiara continuità, smascherando la strategia di ricerca dei colpevoli di turno, una lettura complessiva delle crisi è ampiamente negata. Per questa ragione, ci sembra opportuno qualificare innanzitutto la crisi che viviamo come crisi da sovrapproduzione e come denominatore comune dello sviluppo capitalistico globale degli ultimi decenni. Il fenomeno della crisi non è qualcosa di momentaneo o ascrivibile a una o più cause: l’eccesso di sovrapproduzione è difatti sistematico, endemico al modo di produzione del capitale e può assumere molte forme distinte a dispetto della comune radice sostanziale. Che i ritmi di accumulazione si siano assottigliati, questione a cui riesce a porre argine solo la straordinaria esperienza cinese con i suoi tassi di crescita, è cosa ormai visibile e difficile da negare. La Figura 2 mostra chiaramente come almeno dagli anni novanta i ritmi di crescita siano difformi e che, in particolare, il ritmo di accumulazione mondiale è sempre più prossimo allo zero.