Prima e dopo il neoliberismo
Lavorare meno per lavorare tutti/e, era uno slogan, anzi un obiettivo, del movimento operaio per ridurre l’orario giornaliero e settimanale, allentare la morsa dello sfruttamento, favorire nuova occupazione sapendo che un esercito industriale di riserva avrebbe potuto alla lunga determinare la contrazione dei salari e un sostanziale arretramento delle condizioni di vita e di lavoro. Il progresso tecnologico, consentendo di ridurre il lavoro necessario alla produzione rende la riduzione dell’orario di lavoro non solo possibile, ma anche necessaria se vogliamo garantire il lavoro a tutti. Perciò tale riduzione a parità salariale, in un determinato contesto storico, ha rappresentato anche una richiesta legata alla riconquista dei tempi di vita a favore dello studio, del tempo libero e delle relazioni familiari e sociali. Per lo stesso motivo il capitale rifugge la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario in quanto il ricatto della disoccupazione costituisce un formidabile fattore di disciplinamento della classe lavoratrice.
Erano gli anni nei quali le ricette neoliberiste in economia e in campo sociale non avevano ancora preso il sopravvento e lo Stato sociale, costruito prevalentemente sulle famiglie monoreddito, per quanto incompleto era tale da consentire una pensione dignitosa (gli anni maturati erano calcolati con il sistema retributivo con un assegno previdenziale in linea con gli ultimi stipendi percepiti), servizi pubblici in campo educativo e sanitario tali da far studiare i figli all’università, grazie anche alle allora famose 150 ore, assicurando alla popolazione il diritto alla cura e alla prevenzione, alla tutela insomma della salute.
Erano anche gli anni nei quali si rivendicava una medicina del lavoro atta a prevenire malattie professionali o a curarle con ampio ricorso a servizi gratuiti e semigratuiti.
Parliamo insomma di un paese diverso da quello attuale e di un welfare state conquistato in anni di conflittualità sociale, sindacale e politica.
Gli ultimi 40 anni neoliberisti, dovuti all’ennesima crisi capitalistica, hanno ridefinito un quadro generale di riferimento assai diverso; la sanità pubblica è stata dilaniata a colpi di tagli e riduzioni di spesa. Nelle facoltà sanitarie, e non solo, nonostante la carenza di medici e infermieri, si entra solo superando le forche caudine dei test di ingresso. La famiglia monoreddito è stata distrutta dalla erosione del potere di acquisto. Accedere a un lavoro per le donne è stata una conquista da salvaguardare, ma se in una famiglia si lavora e tuttavia si sta peggio di prima sia per le basse retribuzioni che per la carenza di supporti pubblici alle donne lavoratrici, costrette così a unire il lavoro domestico gratuito a quello retribuito, tale conquista diviene una beffa.
Scopriamo che il lavoro per le donne è sovente part-time e sottopagato; le ore lavorate in Italia sono in continua diminuzione determinando anche l’arretramento della nostra economia, per lustri basata sui processi di delocalizzazione e privatizzazione, sul sistema degli appalti e dei subappalti che hanno determinato una nuova frontiera all’insegna dello sfruttamento, della ricattabilità e dello scarso potere di acquisto e di contrattazione.
Queste premesse risultano indispensabili se vogliamo analizzare e comprendere la situazione attuale ed immaginare i progetti che il capitalismo ci sta preparando.
«The Economist», con un articolo pubblicato recentemente, entra nel merito dei nuovi processi capitalistici successivi alla crisi del 2007-2008. La crisi pandemica prima e dopo la guerra in Ucraina (ma anche quella scatenata da Israele contro il popolo palestinese, le cui conseguenze materiali in campo economico sono ancora in evoluzione), e le sanzioni alla Russia hanno determinato il rallentamento dell’economia europea e occidentale, fermo restando che se la locomotiva USA pare non subire contraccolpi negativi, ma anzi un qualche potenziamento, quella renana, e di conseguenza europea, si è letteralmente ingessata come dimostrano gli ultimi dati economici che parlano per il 2022-2023 di recessione tedesca. La quale sarà accompagnata a breve da quella degli altri paesi europei.
Prendiamo allora come sfida l’invito a riflettere sugli scenari di un decennio fa che hanno prodotto innumerevoli produzioni delocalizzate nel Sudest asiatico e la desertificazione dei siti produttivi occidentali, processi determinati dal minor costo della forza lavoro asiatica.
Le privatizzazioni e le delocalizzazioni hanno generato l’impoverimento del tessuto produttivo europeo, la finanziarizzazione dell’economia, ma anche la politica dei bassi salari, crollati a partire dal 1970, perché nei paesi a capitalismo avanzato l’industrializzazione del terziario è stata possibile con la costruzione di cooperative fasulle e di appalti/subappalti, che hanno reso più economici certi servizi solo per effetto del deterioramento delle condizioni di vita e lavorative, dello sfruttamento intensivo dei salariati con l’erosione del potere di acquisto e di contrattazione.
Negli USA l’avvento di Trump e di un conservatorismo nuovo, populista e anche xenofobo, è il risultato di processi economici ed egemonici della prospettiva neoliberista, che ha fatto leva sul malessere delle classi subalterne bianche, le quali hanno subito una retrocessione simile alla nostra.
Si fa presto a dire che la popolazione in età lavorativa cinese stia diminuendo perché anche in Oriente sono alle prese con le rivendicazioni sindacali, poco note in Occidente, dei salariati per aumentare il potere di acquisto dei salari, come sta avvenendo anche in Cina.
Se affermiamo che l’instabilità globale emerge con la pandemia e che le guerre stanno rendendo l’outsourcing meno attraente, si racconta solo una parte della verità, omettendo volutamente l’analisi delle contraddizioni tra capitale e lavoro e di come i paesi a capitalismo avanzato stanno affrontando la loro ennesima crisi.
Dopo gli anni pandemici, nei quali le delocalizzazioni produttive avevano acuito le contraddizioni, determinando la penuria di prodotti semilavorati e di materie prime, e in generale la formazione di colli di bottiglia dovuti alle chiusure temporanee di diverse imprese, il ritorno delle produzioni negli USA viene finanziato con il bilancio statale. Centrale in questo senso è l’Inflation Reduction Act, con i benefici all’economia “green” (doverosamente fra virgolette) e pensato in funzione antieuropea (come del resto le sanzioni alla Russia). Tuttavia, non si tratta ancora, in sostanza, della presa d’atto del fallimento dei processi di esternalizzazione.
Non dobbiamo nemmeno dimenticare che la sfida green ha dato vita a nuovi scenari. Ne sono un esempio la ricerca di materie prime a basso costo che impegna i paesi NATO e occidentali ad assicurarsi, a colpi di guerre, il loro approvvigionamento o i nuovi canali energetici e processi di ristrutturazione capitalistica, che nei prossimi anni sanciranno la crisi di alcuni settori economici con la perdita di tanti posti di lavoro. E ciò allo scopo di mantenere un’egemonia che appare vacillante alla maggior parte dei paesi del mondo.
Cosa si prospetta per il futuro?
Ma quali sono i problemi che ci troviamo ad affrontare? Vediamo un articolo che riprende un saggio dell’«Economist» recentemente pubblicato, su citato, estrapolandone alcuni passaggi, la cui tesi principale sta nella convinzione che, per varie ragioni, si sta prospettando una stagione d’oro per i lavoratori che vedranno crescere i loro salari.
Si può leggere nell’articolo: “Dagli Stati Uniti alla Corea, complice anche il calo demografico, tutte le aziende hanno difficoltà a coprire i posti vacanti. E il lavoro è diventato così prezioso che le aziende si ingegnano per trattenere i lavoratori. Anche in Germania, dove l’economia va tutt’altro che bene, nei centri per l’impiego ci sono 730mila posizioni di lavoro offerte che restano vuote. Questa carenza di personale dovrebbe favorire, in teoria, l’immigrazione per tamponare i posti vacanti. Ma non tutti i Paesi – vedi l’Italia – perseguono questa strada. Mentre il Giappone, ad esempio, offre visti a tempo limitato per lavoratori in diversi settori, tra cui la produzione di componentistica e la costruzione navale, e i salari nel Paese stanno aumentando”.
Sempre secondo l’articolo su citato, anche in Italia si registra qualche cambiamento in questa direzione e alcune aziende hanno deciso di sperimentare la settimana corta di quattro giorni a parità di salario, richiedendo maggiore produttività e innescando una migliore conciliazione tra vita e lavoro.
La mancanza dei lavoratori richiesti favorisce il salariato nella scelta lavorativa e attribuisce maggiore potere ai sindacati. Non a caso, anche i lavoratori dell’acciaio tedeschi nei prossimi negoziati chiederanno una settimana lavorativa di 32 ore, rispetto alle attuali 35. Tuttavia, bisogna sottolineare, come scrive Eugenio Donnici: “L’obiettivo ‘100-80-100’, che implica il 100% delle prestazioni, con una riduzione dell’orario all’80% e mantenendo il 100% della retribuzione, presuppone un aumento della capacità produttiva, ossia un aumento della produttività del lavoro”. Di questa continuano ad appropriarsi le aziende, le quali godono anche di una riduzione dei costi per la concentrazione del lavoro in meno giornate. Nulla viene concesso se non c’è nello stesso tempo un vantaggio per chi detiene i mezzi produzione.
In un momento di grande inflazione, è ovvio che tra le strategie per trattenere e attirare i lavoratori ci sono anche gli aumenti salariali e l’attribuzione di benefici economici (Bonus Retention). L’incremento delle dimissioni e il passaggio da una azienda a un’altra sono incrementati anche dalla ricerca di una retribuzione migliore. E come dimostrano diversi studi, questo potrebbe portare benefici anche alle fasce a più basso reddito. Negli Stati Uniti, dal 2020, circa il 38% dell’aumento della disuguaglianza salariale accumulata nei quattro anni precedenti sarebbe stato cancellato. Ma cosa è avvenuto della disuguaglianza accresciutasi dagli anni ’70 al 2019?
L’articolo si mostra fiducioso anche nello sviluppo tecnologico, in particolare sostiene che l’intelligenza artificiale potrebbe aumentare la produttività e rendere più gratificante il lavoro, dato che i compiti più noiosi e ripetitivi verrebbero sostituiti dalle macchine. La conseguenza inevitabile sarà la sparizione di alcuni ruoli professionali, ma coloro dotati manualità, creatività e originalità potrebbero essere ricercati con un possibile aumento degli stipendi.
E l’Italia?
La riduzione dell’orario di lavoro settimanale continua a rappresentare una rivendicazione storica dei salariati e delle organizzazioni sindacali. In alcuni ambiti produttivi la settimana lavorativa diminuisce mentre in altri si va dilatando, favorita dagli stessi sindacati attraverso la contrattazione di secondo livello e gli accordi all’insegna della produttività detassati fino a 3000 euro.
La contrattazione nazionale e quella di secondo livello vengono gestite in base agli obiettivi di produttività. Un’eventuale contrazione dell’orario di lavoro può determinare anche l’accrescimento della produzione qualitativo, se si promuove la fidelizzazione del lavoratore, e quantitativo, se si abbina all’intensificazione dei ritmi e dei carichi di lavoro.
È ormai acclarato come lo smart working sia stato utilizzato a fini capitalistici per avere prestazioni migliori e anche quantitativamente maggiori, in barba ai profili professionali delle maestranze. Il lavoro da casa in determinati settori conviene al datore, rappresenta un risparmio dei costi (energetici, di produzione e in termini di spesa per il personale non necessitando l’erogazione dei buoni mensa e altri istituti contrattuali). Il dipendente è attratto dallo smart anche perché gli consente di coniugare meglio i tempi di vita con quelli di lavoro, non rivendica un welfare adeguato con riferimento ai servizi in campo educativo e sanitario capaci di rispondere agli effettivi bisogni.
Il lavoratore in smart è in prospettiva poco sindacalizzato e individualista (quindi non combattivo), le prestazioni erogate non passano dal confronto con colleghi\e, ma rispondono invece a un rapporto gerarchico spesso invisibile, tuttavia, assai forte anche attraverso la tecnologia del capitalismo della sorveglianza.
Questi aspetti sono stati solo frettolosamente analizzati guardando non in prospettiva futura e in una logica di classe, ma analizzando il problema dal punto di vista individualista, come viene in prevalenza nelle scienze sociali borghesi.
La riduzione dell’orario di lavoro per alcuni settori produttivi è quindi possibile, ma diventa una gentil concessione della parte datoriale contraccambiata dalla crescita esponenziale della produttività e della flessibilità, una ridefinizione del lavoro secondo progetti e obiettivi calati dall’alto e mai oggetto di riflessione critica.
Quella che un tempo era una rivendicazione sindacale e politica avanzata presto potrebbe trasformarsi in una necessità impellente del capitale che, ricorrendo a tecnologie innovative, riesce a garantire maggior produzione in meno tempo e con minori costi. E, grazie a questi vantaggi, il capitale, invece di investire i risparmi in una produzione umanizzata, in un welfare adeguato, preferisce concedere la riduzione della settimana lavorativa a parità di salario, rinnovando al contempo i contratti nazionali al di sotto del potere di acquisto reale; nella sostanza si tratta di aumenti insufficienti ma presentati come grandi conquiste soprattutto se accompagnati dalla riduzione oraria. C’è da rilevare, inoltre, anche che questa modalità di ridurre l’orario di lavoro, consentendo in meno ore di realizzare il medesimo prodotto o servizio, non costituisce nemmeno una risposta al problema occupazionale indotto dalle innovazioni tecnologiche.
Meriterebbe uno studio serio e approfondito il 57° Rapporto sulla situazione sociale del Paese (2023) del CENSIS.
Leggiamo testualmente un passaggio a proposito del calo demografico che imporrà presto politiche diverse in materia di immigrazione e incentivi alle famiglie da mascherare sotto forma di aiuti al welfare.
“Nel 2050, fra meno di trent’anni, l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti (come se le due più grandi città italiane, Roma e Milano insieme, scomparissero). Questo dato sarà il risultato composto di una diminuzione di 9,1 milioni di persone con meno di 65 anni (e -3,7 milioni con meno di 35 anni) e di un aumento di 4,6 milioni di persone con 65 anni e oltre (e +1,6 milioni con 85 anni e oltre)”.
Il rapporto fotografa un paese in crisi, nel quale le giovani generazioni si dichiarano disilluse e sono giustamente convinte di avere un peso pressoché inesistente, essendo state private come tutti i salariati un ruolo sociale e politico. Sempre più forte è il senso di impotenza e l’insicurezza sociale derivante anche dalla precarietà occupazionale e dallo scarso potere di acquisto dei salari. Sul banco degli imputati sale la globalizzazione, per anni presentata come grande opportunità a partire dal crollo del prezzo dei biglietti aerei, che in realtà dipendeva dal sistema low cost e da quello degli appalti aeroportuali.
Il lento e inesorabile declino del sistema produttivo italico riguarda anche la stessa società e desta profonde preoccupazioni tra quanti studiano le dinamiche sociali ed economiche, consapevoli che dalla crisi attuale si possa uscire solo con percorsi condivisi con le parti sociali, ma solo apparentemente. Non siamo davanti alla ennesima concertazione, ma ad un salto di qualità nella ricerca di consenso e di compartecipazione sindacale e sociale ai processi di ristrutturazione capitalisti.
Il sindacato e le parti sociali devono essere coinvolti nei processi di innovazione tecnologica e produttiva per affrontare i quali serve anche un cambio di passo o se preferiamo una sorta di paradigma culturale innovativo. Questa presunta innovazione tuttavia sancisce la subalternità del lavoro al capitale e anche rivendicazioni storiche come la settimana corta possono essere utilizzate a uso e consumo del capitale stesso. Più che rivendicazioni diventano una sorta di gentil concessione o di riduzione del danno. Per esempio parti significative e crescenti del salario saranno collegate all’incremento della produttività, ai percorsi formativi permanenti da garantire anche nel tempo libero, seppure presentati non come sottrazione dei tempi di vita ma in veste di opportunità di crescita individuale, per assoggettare i nostri corpi e le nostre menti all’ideologia e alle ragioni del capitale.
Stiamo entrando veramente nell’epoca d’oro dei lavoratori?
Siamo certi che l’analisi sopra riportata sia sostanzialmente corretta o invece rappresenti la classica narrazione a senso unico della crisi?
Sempre «The Economist» si preoccupa di sfatare l’idea incrollabile che i ricchi continuino a diventare sempre più ricchi mentre la gente comune si impoverisce sempre di più, accanendosi contro la convinzione che il capitalismo sia truccato per favorire i ricchi e punire i lavoratori. Convinzione che sta dietro a progetti politici sia di sinistra che di destra e che, secondo i fautori della bontà del capitalismo, deve essere assolutamente smentita. Evidentemente anche il prestigioso giornale britannico si è reso conto che l’attuale regime capitalistico non è ben visto dai più e con qualche sacrosanta ragione.
Secondo il nostro autorevole giornale certamente la sfiducia nei confronti del libero mercato è aumentata, ma – scrive – le prove a sostegno della tesi secondo cui la disuguaglianza sta aumentando nel mondo ricco sono diventate più deboli. Ritorna sul tema precedente secondo il quale i divari salariali si stanno riducendo. Osserva: “Dal 2016 i guadagni settimanali reali per coloro che si trovano agli ultimi posti nella distribuzione salariale americana sono cresciuti più rapidamente di quelli ai vertici. Dopo la pandemia di Covid-19 questa compressione salariale è andata oltre; secondo una stima, è bastato a invertire uno straordinario 40% della disuguaglianza salariale al lordo delle imposte emersa negli ultimi 40 anni. È in corso una miniera d’oro tra i colletti blu.
Per verificare queste affermazioni andiamo a vedere come è finito il famoso sciopero dei mesi passati, durato circa sette mesi, dei lavoratori statunitensi della UAW (United Automobile Workers), le cui richieste erano, ricavate dal loro manifesto: aumenti salariali del 40%, rivalutazione al costo della vita, pensioni sicure, ripristinare le prestazioni mediche per i pensionati, diritto di scioperare nel caso di chiusura delle fabbriche, garanzia di lavoro per sostenere il benessere delle comunità, fine degli abusi dei tempi di lavoro, i lavoratori sono impegnati fino a 80 ore la settimana e vogliono tempo pagato per stare insieme alle proprie famiglie, significativo aumento delle pensioni. Si tenga presente che le rivendicazioni riguardavano circa 146.000 lavoratori, i quali appartengono alle tre grandi (General Motors, Stellantis, Ford). Ora andiamo a vedere cosa hanno effettivamente ottenuto, tenuto presente che un consistente gruppo di operai, quelli della Allison Transmission di Indianapolis (fornitore di trasmissioni militari per i carri armati Abrams e i veicoli da combattimento Bradley) hanno al 96,2% respinto l’accordo voluto dalle burocrazie sindacali, che hanno addirittura chiamato in causa Biden. Questi ha presenziato a un loro picchetto e ha dichiarato il suo forte sostegno alle rivendicazioni dei lavoratori.
Nonostante l’accordo si stato presentato come uno straordinario successo dai dirigenti sindacali, il cui capo si chiama Shawn Fain, i lavoratori, che hanno votato sotto pressione, non condividono la stessa opinione. A loro giudizio le disposizioni sui salari e sul costo della vita sono inadeguate e non invertono la massiccia perdita di salari reali subita a causa di decenni di concessioni UAW e di un’inflazione record. I contratti non ripristinano le pensioni perse e i benefici sanitari per i pensionati, non mettono fine all’odiato sistema a livelli (tra i lavoratori) e all’abuso dei lavoratori temporanei, né riducono gli orari di lavoro estenuanti e massacranti. Inoltre, le grandi aziende si stanno comportando in maniera assai diversa da quanto promesso. Secondo i lavoratori, che intendono organizzare azioni indipendenti dal sindacato, con l’accordo si intende aprire la strada alla massiccia distruzione di posti di lavoro mentre le multinazionali, con il pieno sostegno della burocrazia UAW, costringono i lavoratori a pagare per la transizione alla produzione di veicoli elettrici. Infatti, gli accordi con GM, Ford e Stellantis includono acquisizioni di “cessazione volontaria del rapporto di lavoro” e prendono di mira impianti come il complesso Ford Rouge come “surplus”. L’amministratore delegato di Ford ha affermato di aspettarsi che la produzione di veicoli elettrici richiederà il 40% in meno di lavoratori, il che significa che le aziende stanno pianificando la distruzione di centinaia di migliaia di posti di lavoro. in modo assai diverso da quanto promesso.
Il passaggio alle auto elettriche sta indirizzando politiche analoghe in Germania, dove studi della Confindustria locale stimano un taglio della forza lavoro nelle industrie meccaniche del 40% e tagli superiori alle 300.000, sempre con lo scopo di aumentare la produttiva e abbassare i costi, eliminando i “lavoratori superflui”.
Ritornando alle riflessioni dell’«Economist» da cui siamo partiti, che prefigura un’età dell’orofittizia per i lavoratori delle società a capitalismo avanzato impegnate nella svolta green e che ci vuol far credere che esso apporta straordinari benefici a noi salariati, dobbiamo dire che i fatti dimostrano l’esatto contrario. E, come se ciò non bastasse, il capitalismo dovrebbe anche dirci, tema su cui non si sofferma, quali progetti ha per quei miliardi di persone che vivono con un dollaro al giorno, i cui paesi sono oggetto di saccheggio e di guerre volte alla distruzione totale come quella di Gaza?
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