Non c’è alcun dubbio che, nonostante le evidenti difficoltà di accumulazione che hanno coinciso con la sospensione unilaterale degli accordi di Bretton Woods – a cui si faceva riferimento in precedenza – il dollaro abbia rappresentato la valuta di riferimento per la gran parte delle transazioni internazionali – escludendo quelle dei paesi socialisti – garantendo così agli Stati uniti d’America una posizione di egemonia a livello imperialistico almeno sino alla fine del secolo XX.
L’ambizioso progetto di unificazione monetaria che poi è scaturito nella determinazione dell’Euro aveva esattamente lo scopo di ampliare le contraddizioni che nel frattempo erano emerse in ambito Usa, tentando di creare – a uso del capitale europeo, a guida franco-germanica – un vero antagonista in grado di capovolgere le gerarchie in quel momento esistenti e apparentemente consolidate. Tale conflittualità fratricida, molto difficile da leggere negli anni, ma sempre presente, è emersa in tutta la forza quando tra il 2010 e il 2012 il capitale legato al dollaro, attraverso l'azione speculativa sul debito, inizialmente della Grecia, e poi di tutti i paesi del sud dell'area monetaria euro, ha deciso di inginocchiare definitivamente il potenziale antagonista. Ma questo non è che stato uno degli ultimi attacchi, forse quello solo più esplicito.
Il conflitto dollaro/euro si nascondeva in guerre scatenate apparentemente per altre ragioni che in parte erano verosimili, in parte erano del tutto frutto di fantasia – come negli anni successivi è stato ampiamente dimostrato. Si fa riferimento a due degli scenari bellici più sanguinosi degli ultimi decenni, ossia quelli che hanno visto l’occupazione, la devastazione e il saccheggio di Irak e Libia. Giova ricordare come i presidenti di entrambi i paesi – produttori di materie prime – prima di essere violentemente eliminati proprio da forze speciali o in situazioni non ben comprensibili erano stati ampiamente appoggiati economicamente, politicamente nonché militarmente dagli Stati Uniti o da paesi della Nato. Si sta facendo riferimento a Saddam Hussein e a Mohammad Gheddafi, presidenti rispettivamente di Irak e Libia, che furono attaccati poco dopo aver proposto di prezzare il proprio petrolio in euro. Non si vuol qui intendere che questa fu l’unica ragione del conflitto né tantomeno che le cose avvennero con una sequenza temporale immediata; ma di certo la questione ebbe un peso specifico notevole. Infatti, qualora tali progetti fossero stati portati a compimento la cosa avrebbe avuto un impatto significativo, considerando la mole di riserve energetiche detenuta da entrambi i paesi. In linea del tutto teorica, ciò avrebbe infatti presumibilmente intaccato significativamente la centralità del dollaro nel ruolo di riserva principale a livello globale permettendo all’euro – e al capitale di cui è espressione – di affermarsi in maniera altrettanto sensibile. Il dollaro Usa avrebbe perso, in altre parole, quel ruolo egemone che continuava ad assumere ma in una fase di crisi era un qualcosa che il capitale legato al biglietto verde avrebbe difeso a ogni costo, e così è stato.
Dopo anni di relativa pacificazione, la questione si è nuovamente inasprita a seguito dell’emersione della cosiddetta crisi finanziaria del 2008. Senza dubbio, il ruolo dei giochi del capitale fittizio è stato di rilievo; tuttavia, è stata quella che ha coinciso con il fallimento pilotato del colosso bancario Lehman Brothers la manifestazione più plateale della crisi endemica che, come abbiamo visto in precedenza, andava configurandosi da ormai diversi decenni.
Nelle settimane immediatamente successive a quel fatidico settembre 2008, gli indici di borsa battevano in negativo ogni record e fallimenti e “liberazione” di forza-lavoro riguardava anche quella high-middle class impiegata negli uffici di Manhattan che per la prima volta, forse, toccava con mano quanto il sistema di capitale possa essere feroce anche per chi non ha idea o voglia di identificarsi con la classe lavoratrice di cui comunque è parte. Nel continente europeo, in realtà, nonostante naturali difficoltà connesse alle incapacità di un alleato storico come gli Usa di riprendersi nel breve periodo, la situazione economica generale non sembrava altrettanto compromessa. La onda enorme che sommerse invece i popoli europei comparve nel 2010 quando un enorme attacco speculativo mise in ginocchio una parte importante degli aderenti all’unione economica.
Come riportarono alcuni quotidiani internazionali, il giorno 8 febbraio del 2010 si incontrarono a casa di un piccolo broker locale (Monness, Crespi, Hardt & co.) diversi guru della finanza Usa, i rappresentanti (gli “uomini”) di Soros Group, di Sac Capital, di Greenlight Capital, di Brigade C. e della Paulson & Co., (da non confondere con l’ex segretario al tesoro di Bush jr, in un recente passato oltretutto amministratore delegato di Goldman-Sachs, secondo alcune fonti schierato invece contro l’operazione speculativa). Anche se pochi dei nomi citati raccontano delle avide potenzialità di costoro, di certo c’è che ogni loro incontro rappresenta una grave minaccia per la vita di milioni di lavoratori, poiché, essendo ai tempi i più importanti gestori degli hedge fund (i fondi speculativi) al mondo, è chiaro che ogni loro convergenza di intenti possa determinare vere e proprie tempeste su qualsiasi mercato di ogni paese.
Quel lunedì di febbraio, come già rivelato nel dettaglio dal Wsj [Hedge funds try to "career trade" against euro, 26.2.2010] e dal Sole-24ore, questi personaggi decisero che era giunto il momento di attaccare: tuttavia, con una evidente discontinuità rispetto al passato, l’obiettivo non era rappresentato dalle economie dei paesi “terzi”, bensì dalle appendici più deboli dell’area dell’euro. Attraverso lo strumento dei credit default swap (uno dei prodotti finanziari “derivati” più diffuso) questi sicari del capitale decisero dunque di colpire pesantemente le economie di quei paesi che da allora vengono definiti con spregio P(i)igs, maiali: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.
La cosiddetta “idea della cena” [lett. the idea dinner] sembra consistesse nell’investire pesantemente sul deprezzamento dell’euro che, dal massimo raggiunto alla fine del 2009 di 1,50 $, nelle previsioni degli speculatori, sarebbe potuta giungere ad 1 $ dopo un’azione architettata e simultanea volta ad incunearsi nelle contraddizioni più evidenti dell’area dell’euro, ossia il debito dei paesi del sud del continente aderenti alla valuta unica. Dunque, l’obiettivo era colpire nel vilnus del continente per destabilizzare l’intera area dell’Euro. Dalla ricostruzione dei fatti sembra sia stato proprio il capo del fondo speculativo Brigade capital, Donald Morgan, ad individuare nell’indebitamento greco il varco entro cui inserire l’aculeo per determinare, a suo dire, un effetto domino utile a condurre rapidamente ai risultati sperati. L’idea deve aver convinto a fondo i presenti tanto che, già durante la settimana della “cena”, il volume di scommesse a ribasso sull’euro ha raggiunto il livello massimo, secondo quanto ammesso da Morgan Stanley, di 60.000 futures contrattati. Non a caso, solo qualche giorno dopo l’8 febbraio, il tasso di cambio col dollaro Usa raggiungeva il minimo di 1,35 € registrando un calo evidentemente manovrato da una serie di operazioni ben pianificate e coordinate. Del resto, gente come Soros già negli anni novanta aveva guidato l’operazione di speculazione sulla sterlina britannica intascandosi alla fine dei giuochi circa un miliardo $ di profitti, imponendo all’Inghilterra di uscire dal meccanismo dei tassi di cambio europeo, con conseguente e sin troppo attendibile massacro delle condizioni dei lavoratori del paese.
Appurata, dunque, l’irreprensibile “morale capitalistica” dei commensali della grande abbuffata newyorkese del febbraio scorso, è opportuno riflettere sulle motivazioni che hanno indotto costoro a reputare elevata la probabilità di successo di un’operazione così ambiziosa, proprio perché diretta al cuore di una delle filiere dominanti del modo di produzione capitalistico, ossia quella vincolata all’euro. Si è parlato molto dei trucchi contabili inventati dal precedente governo greco conservatore di Costas Karamanlis che aveva dichiarato un deficit pubblico nettamente inferiore al pesantissimo 12,7% scoperto e ammesso in seguito in sede istituzionale dal governo socialdemocratico del Pasok di Papandreou (tre volte superiore ai livelli massimi concessi nell’area euro dal patto di stabilità) che rappresentava null’altro che una situazione generalizzata di crisi di tutta l’economia ellenica – su cui pesa come un macigno il livello di illegalità (la cosiddetta economia sommersa) stimato vicino ad un terzo del totale della ricchezza prodotta in loco.
Di certo, il crollo della Grecia ha rappresentato un banco di prova per la (in)stabilità politica, prima che economica dell’area dell’euro. In molti si sono affrettati ad accusare in particolare la Germania e la Merkel di tentennare e di perdere, a lor dire, tempo prezioso per intervenire nel salvataggio dello stato ellenico: sono stati paventati gli scenari più variegati, tra cui il ritorno della Grecia alla dracma e l’inevitabilità del default dell’economia locale a causa dell’eccessiva vicinanza della scadenza di molti dei titoli dello stato. In molti hanno subito invocato l’intervento massiccio ed immediato della Bce che, attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico degli stati in difficoltà, avrebbe potuto controbilanciare l’attacco, ponendo argine alla violenta voragine che tra la fine di aprile ed i primi giorni di maggio del 2012 ha fatto tremare i polsi di tre quarti di Europa. Tuttavia, l’articolo 123 del trattato di Lisbona – ancora nel 2023, nonostante certezze granitiche inizino a vacillare – pone dei limiti oggettivi alla Banca centrale europea impedendole di acquistare direttamente i titoli del debito emessi dai governi o da altri enti del settore pubblico: contemporaneamente, però, lo stesso articolo non ne impedisce l’acquisto attraverso operazioni definite di mercato aperto. Ciò vuol dire che la Bce, secondo alcune interpretazioni del trattato, ha la facoltà di acquistare i titoli del debito di ogni stato dell’Ue come se fosse un qualsiasi investitore: per far questo, perciò, deve elargire quantità di euro significative che vengono riversate immediatamente sul mercato obbligazionario.
In attesa di promulgare quella che sarà la risposta più significativa all’attacco speculativo – il quantitative easing – nella notte tra il 9 ed il 10 di maggio dello stesso anno, in aggiunta ai 110 mrd € già stanziati per garantire i proprietari delle passività greche di immediata scadenza, la Bce emanava un maxi-scudo di 750 mrd € composto da una miriade di strumenti finanziari con l’obiettivo di fornire stabilità ai mercati borsistici europei e garantire lo “sblocco” di liquidità che gli operatori lamentavano.
La celebre frase pronunciata da Mario Draghi “difenderemo l’euro a ogni costo” più conosciuta come “whatever it takes” il 26 luglio tracciò la strada per una chiara sedimentazione dei rapporti di forza. Il messaggio che fu veicolato al capitale legato al dollaro sostanzialmente consisteva nel togliere ogni dubbio sul fatto che altri scenari – come a esempio il ritorno alle valute nazionali, costituire un euro di serie B per i paesi più indebitati – non erano plausibili qualsiasi fosse stato il livello dell’attacco. L’idea stessa di definire gli strumenti finanziari consentiti per prevenire futuri attacchi, “Bazooka”, in maniera palese rimanda a un lessico guerresco. Il successivo via libera – molto travagliato – a una sostanziale politica monetaria espansiva della Bce (consentita solo poiché l’inflazione era sotto il target del 2/3%) aprì la strada ai quantitative easing in salsa europea, che contribuirono ad inondare di liquidità il mercato mondiale al pari degli omologhi d’oltreoceano (e non solo).
Un'altra tappa di grande pathos si verificò alcuni mesi dopo, esattamente durante l’estate del 2015 quando, a seguito del fallimento pilotato della Grecia, il governo Tspiras decise di interrompere le contrattazioni della cosiddetta troika (bce-ue-fmi) sul rifinanziamento del debito. Sinteticamente, alla richiesta delle istituzioni di riportare sotto controllo il debito cresciuto enormemente, le proposte del governo greco rispondevano basandosi principalmente sul recupero dell’evasione fiscale e l’aumento della tassazione dei grandi patrimoni e dei capitali. Queste posizioni si scontravano pesantemente con le esigenze delle istituzioni di continuare a vessare i lavoratori greci attraverso l’aumento della tassazione indiretta, anche su beni di prima necessità, tagliando quindi pensioni e stipendi degli impiegati pubblici e prolungando l’età pensionabile con effetto quasi immediato.
Il presidente dell’Fmi di allora, Lagarde, sottolineava come l’aumento dell’aliquota di tassazione diretta sui grandi capitali potesse determinare un incerto risultato fiscale, mentre quella sui lavoratori avrebbe conseguito un risultato ampiamente più sicuro: dietro all’ovvietà di dichiarazioni di questo tipo – un aumento delle aliquote fiscali dirette sui lavoratori dipendenti fornisce un gettito fiscale garantito a differenza della volatilità di grandi patrimoni e capitali – va letta una presa di posizione evidentemente rigida poiché inequivocabilmente di classe. Che una larga fetta di lavoratori greci fosse già da anni in condizioni di povertà assoluta, che gli ospedali non fossero più in grado di fornire le cure basilari; che nei supermercati venissero venduti generi alimentari scaduti; che ci fosse un esercito di persone che stabilmente viveva per strada o nelle automobili; e che a fronte di tutto ciò, armatori e uomini e donne della grande finanza internazionale si godessero quotidianamente le splendide isole dell’Egeo, non veniva vissuto dalle istituzioni come problema immediato, o comunque una priorità.
La convocazione di un referendum popolare sulle condizioni proposte dalla troika ebbero un effetto dirompente: la vittoria inattesa del no (OKI) al referendum, ossia il rifiuto popolare di tali condizioni determinò un terremoto politico che portò alla spaccatura interna al governo giacché le posizioni più oltranziste, rappresentate da Varoufakis, chiedevano di dar seguito all’esito delle consultazioni e furono sconfitte da quelle del presidente del consiglio, Tsipras. Assumendosi una responsabilità politica di dimensioni non trascurabili, questi decise di capovolgere il risultato accettando un programma di lacrime e sangue proposto dalle istituzioni sovranazionali. A distanza di anni possiamo senza dubbio dire che le condizioni di vita delle classi popolari greche siano peggiorate visibilmente. D’altro canto, da allora praticamente tutti i titoli del debito pubblico greco (junk bonds, cioè i titoli-immondizia) sono stati stralciati dai bilanci del capitale privato perché acquistati dal settore pubblico. In altri termini, le stesse istituzioni hanno permesso che la gran parte dei titoli del debito ellenico - platealmente inesigibili - fossero acquistate dal settore pubblico di ogni stato membro, sgravandone l’onere, dunque, alle banche private. Infatti, i capitali più esposti, come noto, erano quelli francesi (79 mrd €) e, a seguire, quelli tedeschi (45 mrd €); a distanza quelli olandesi (12 mrd €) e italiani (7 mrd €); ma soprattutto, è importante ricordare che si trattasse esclusivamente di soggetti privati. Con una operazione “straordinaria”, dal punto di vista di classe, nel giro di pochi anni, il montante di questi titoli è stato redistribuito tra i bilanci pubblici dei 4 paesi con il Pil più alto. Violando de facto le proporzioni precedenti, le manovre attuate hanno determinato una situazione tale per cui alla fine del 2015 i tedeschi detenevano ancora la quota maggiore dei titoli (62 mrd nel settore pubblico, 14 mrd nel privato); a seguire la Francia (47 mrd solo nel settore pubblico), l’Italia (41 mrd, settore pubblico) e la Spagna (27 mrd settore pubblico). Insomma, viene confermato ancora una volta che la legge della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite diviene fondamentale specie nelle fasi di crisi; e che il fondo salva stati, che è alla base di questa manovra, ha scaricato sui due piigs più importanti (Italia e Spagna) la gran parte del peso di questi titoli spazzatura e, soprattutto, sul loro settore pubblico.
Le sanzioni e le contromisure russe
Questi paragrafi introduttivi ci sono sembrati di enorme importanza per comprendere quali siano le cause materiali del conflitto ucraino-russo e quali le prospettive dello stesso, al di là delle letture ideologiche che se ne fanno e delle manifestazioni che esso può assumere – sia in senso strettamente bellico che in ambito “diplomatico”. In altre parole, in questa sede si sostiene che lo scontro ucraino-russo sia parte di una conflittualità valutaria simile, nella teoria, a quella consumatasi alcuni anni fa tra dollaro e euro – di cui si è parlato nei paragrafi precedenti – ma che nella forma differisce molto, vedendo contrapposti questa volta il capitale legato al dollaro, in evidente perdita di “appeal” e il capitale legato alle valute asiatiche. Nel caso specifico, però, il livello dello scontro sembra essere più elevato non solo per il vasto utilizzo di armi di ultima generazione sul campo, ma anche per la numerosità dei soggetti coinvolti e per le difficoltà perduranti di accumulazione che impediscono al capitale mondiale di doversi spartire quote di plusvalore che si rivelano essere sempre più insoddisfacenti.
Questo aspetto diviene più chiaro anche se si osservano con attenzione modalità e conseguenze delle sanzioni che l’Europa e gli Usa hanno imposto e che, nel progetto iniziale, avrebbero dovuto inginocchiare economicamente, in poche settimane la Russia.
Seguendo uno schema già applicato contro nazioni considerate “ostili” (come Libia, Afghanistan ma anche Venezuela) il primo provvedimento è consistito nel congelamento dei fondi della Banca centrale russa. Non esiste ancora oggi certezza sulla cifra complessiva “sequestrata”, però si va da 300 miliardi di dollari (secondo le autorità russe) sino ai 1000 miliardi di cui ha parlato esplicitamente il ministro dell’economia francese Le Maire. Si è trattato in ogni caso di un quantitativo senza precedenti, sulla cui legittimità internazionale ci sono molti dubbi, considerando il fatto che tutto il mondo – ad esclusione di Usa, Europa e pochi loro satelliti – hanno esplicitamente mostrato ostilità a tali manovre. Poi, si è passati all’esclusione delle principali istituzioni finanziarie russe dalla piattaforma di scambi finanziari internazionali più utilizzata al mondo (SWIFT), al fine di bloccare le transazioni internazionali russe anche con quei paesi che, di fatto, c’entrano poco o nulla con il pacchetto di sanzioni. Il terzo passo, quello probabilmente più vincolante, includeva il divieto di importazioni di petrolio e gas russo da parte dei partner degli Usa (dunque area dell’euro inclusa). Se per gli Usa, la questione non impattava direttamente, giacché è almeno dal 2019 che non importano più gas dalla Russia, le conseguenze per i paesi europei erano potenzialmente catastrofiche. Nella sua interezza, prima della guerra, gli stati dell’Ue importavano dalla Russia il 40% del fabbisogno totale di gas e il 25% del fabbisogno di petrolio. Per ovviare a una inevitabile sciagura, gli Stati Uniti promettevano al contempo di aumentare le esportazioni di gas liquido in Europa e di mantenere tali incrementi almeno fino al 2030 a prezzi, come è noto enormemente più elevati. Tra tutti, il capitale legato all’euro di origine tedesca paga il prezzo maggiore, giacché è di fatto costretto alla sospensione definitiva – anche prima delle note manovre di sabotaggio di presumibile origine Nato - dell’attività del gasdotto Nord Stream 2, completato nel 2021, il gasdotto più lungo del mondo, che collega la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico, e che avrebbe dovuto costituire una fonte maggiore di approvvigionamento energetico per tutta l’Ue. I risultati di tale scelta – secondo molti del tutto scellerata – sono immediatamente evidenti ed è altresì chiaro che tali manovre determineranno riflessi sull’andamento dell’economia continentale per diversi anni, forse decenni.
La prima reazione delle autorità russe, per quanto possa essere sembrata poco comprensibile ai non addetti ai lavori ha da una parte mostrato l’importanza che le valute assumono in tale conflitto e dall’altro ha sostanzialmente neutralizzato le velleità occidentali che, nella sua parte europea, ha invece pagato la grandissima parte del conto. La contromossa iniziale ha previsto il pagamento del gas esclusivamente attraverso la valuta russa. Ciò ha imposto a chi avesse necessitato di questa fondamentale materia prima di procurarsi direttamente dei rubli o di procedere all’acquisto attraverso il canale esclusivo della “Gazprombank” a condizioni ovviamente vantaggiose per il venditore. In generale, per ottenere, in generale, valuta straniera bisogna procedere attraverso delle strade delineate: la prima è cambiare la propria valuta (o quelle pregiate, tipo dollaro, euro o yen) con quella di cui si necessita. Oppure si può procedere esportando merci vero quel paese la cui banca centrale batte la moneta di cui si necessita (e chiedere il pagamento delle stesse attraverso essa) o si agisce su mercati valutari terzi. Dunque, questa mossa è stata strategicamente pensata per sovvertire il segno di una delle sanzioni più importanti, ossia quella che ha bloccato le riserve internazionali della banca centrale russa detenute nei conti correnti stranieri, creando le condizioni per un nuovo afflusso, autonomo, di valuta pregiata nelle casse russe, necessaria per onorare prestiti contratti e acquistare merci straniere. Inoltre, ha avuto il chiaro effetto di arginare la caduta libera del prezzo del Rublo, conferendole nuovamente un potere d’acquisto adeguato. Difatti, questa mossa aveva l’obiettivo di dire al mondo che qualsiasi intenzione di speculare sul rublo a ribasso (come accaduto con l’Euro anni fa) avrebbe trovato non solo la banca centrale russa pronta a riequilibrare il mercato, ma soprattutto l’enorme domanda di gas e materie prime avrebbe naturalmente agito da cinta muraria contro queste immancabili pulsioni.
Pertanto, solo dopo poche settimane le sanzioni si mostravano del tutto inefficaci sia nell’isolare la Russia economicamente, sia di indebolire direttamente il rublo per le ragioni di cui abbiamo già detto ma anche perché è noto che, dopo la Cina, sia proprio la Russia a essere il più importante produttore di oro al mondo. E dunque, un paese che detiene grandi riserve auree – nonostante le illegali confische – e grandi riserve di materie prime, molto difficilmente può veder decadere il valore della propria moneta. Proprio il momentaneo ancoraggio all’oro ha consentito di permettere, infatti un rapido riassorbimento del crollo iniziale, che già in un mese (tra marzo e aprile) era stato cancellato, raggiungendo, il rublo, lo stesso tasso di cambio che aveva avuto con il dollaro Usa nei due anni precedenti l’inizio dell’invasione russa. Perdipiù mentre le banche centrali degli Usa e quella europea erano alle prese con l’aumento dei tassi – che alimentava malumori interni – il rublo continuava ad apprezzarsi sulle valute più importanti. A maggio del 2022 – e dunque solo 2 mesi dopo l’inizio delle sanzioni – servivano solo 58 rubli per acquistare un dollaro Usa (non più 75) e ciò spingeva Bloomberg ad assegnare al rublo il titolo di valuta più remunerativa dell’anno3.
Le conseguenze più palpabili dell’embargo nei confronti della Russia sono a carico di coloro che ne erano i più importanti partner commerciali, soprattutto per le materie prime e energetiche, ossia i paesi dell’area euro. Una manovra così chiaramente suicida è stata imposta all’Europa dagli Usa e comprende una inevitabile sostituzione – almeno in parte – della provenienza del gas che, per tali ragioni, non potrà più giungere attraverso i gasdotti North Stream, bensì arriverà attraverso l’Oceano atlantico.
È chiaro che i costi di una ostilità così elevata alla Russia siano asimmetrici anche all’interno dei membri del Patto atlantico, mentre i benefici vanno, quasi completamente in un’unica direzione: quella degli Usa. Infatti, la sostituzione, parziale, delle importazioni di gas dalla Russia agli Stati Uniti è un processo lungo e costoso, includendo nuove spese connesse al processo di trasformazione e distribuzione, trasporto su navi cisterna, terminal di carico e scarico, infrastrutture di stoccaggio, rigassificazione e allaccio ai gasdotti tradizionali.
Ovviamente, tutto a carico dei membri dell’Ue. Anche la costruzione delle infrastrutture per gestire lo stoccaggio di tali merci prevede investimenti enormi e questo non potrà che scaricarsi sui prezzi agli utenti finali: in altre parole, i popoli europei dovranno rassegnarsi a convivere con prezzi energetici in crescita per la semplice ragione che un loro “alleato” ha deciso, per conto loro, di escludere dalla lista dei suoi fornitori, il più grande e il più economico produttore di tali materie prime.
Questo importante mutamento, tutto a carico delle classi più vulnerabili dei paesi legati all’euro, vede però anche dei vincitori. Che non possono non essere i produttori del settore energetico basati negli Usa che d’incanto vedono aprirsi un enorme mercato con florida domanda pagante, ossia quello europeo. C’è da ricordare, infatti, che il settore energetico statunitense iniziava ad entrare in crisi e uno sbocco del genere rappresenta una grande ancora di salvataggio. Dopo il 2008 molti piccoli produttori statunitensi avevano investono molto nel settore energetico: tra il 2011 e il 2014, la produzione statunitense di gas naturale liquefatto aumenta del 70% e, nel 2018, gli Stati Uniti diventano il primo produttore mondiale di petrolio, superando la Russia e l’Arabia Saudita. Già alla fine del 2019, e dunque poco prima della crisi pandemica, c’era chi intravedeva nel settore energetico Usa uno dei luoghi all’interno di cui si sarebbe potuta annidare l’esplosione dell’ennesima crisi, dovuta a una enorme esposizione debitoria e a un eccesso di produzione che sembrava eccessivo. Non è un caso che già durante la costruzione del gasdotto North Stream 2, gli Usa abbiano fatto di tutto per opporsi al progetto, ovviamente violando ogni norma di diritto internazionale, ottenendo solo con l’intervento militare il definitivo abbandono dello stesso. Dunque, gli Usa hanno conquistato un nuovo importante mercato di sbocco per le proprie aziende produttrici di materie prime, impedendo con la forza ogni forma di alleanza tra Russia e paesi dell’area euro.
Il quadro così delineato mostra in maniera nitida almeno due questioni. Innanzitutto, che nello scorso decennio il conflitto dollaroeuro è stato definito con la vittoria schiacciante del capitale legato alla valuta statunitense che, nell’ex concorrente d’Europa vede ormai un alleato su cui può agire senza problemi e a cui può imporre decisioni anche quando queste confliggano esplicitamente e poderosamente con gli interessi economici dell’area. Inoltre, sembra altrettanto evidente che la conflittualità valutaria tra capitali - al momento risolta tra dollaro ed euro – abbia assunto una ampiezza maggiore, coinvolgendo da una parte il dollaro e dall’altro le valute asiatiche – in particolare rublo e yuan. In altre parole, quello russo-ucraino ci appare come l’ennesimo conflitto per interposta persona in cui, attraverso la NATO, il capitale legato al dollaro cerca di indebolire l’area valutaria legata allo Yuan che, nel frattempo, sta crescendo economicamente in maniera straordinaria, contendendo esplicitamente l’egemonia sull’intero sistema di capitale.
bene, sì. metto il link di un vecchio articolo di CounterPunch del 2014, che spiega efficacemente le vere ragioni dell’attacco da parte degli Stati Uniti e dell' Unione Europea all’Ucraina, cioè delle grandi banche e multinazionali che dettano il destino di popoli e nazioni.
RispondiEliminahttps://www.counterpunch.org/2014/08/22/monsanto-and-ukraine/
https://www.counterpunch.org/2014/08/22/monsanto-and-ukraine/
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