Da “Diario di ordinaria tristezza”, 1973 - Mahmud Darwish è nato a al-Birweh, nell’alta Galilea, nel 1941 ed è morto a Houston nel 2008. Considerato uno dei più grandi poeti arabi contemporanei ha ottenuto, nel corso della sua vita, prestigiosi riconoscimenti internazionali. Le sue opere in versi sono state pubblicate in tutto il mondo. La sua figura in Medio Oriente è ancora popolarissima.
Da quattro anni, la carne di Gaza schizza schegge di granate in ogni direzione.
Non si tratta di magia, non si tratta di prodigio.
È l’arma con cui Gaza difende il diritto a restare e snerva il nemico.
Da quattro anni, il nemico esulta per aver coronato i propri sogni, sedotto dal flirtare con il tempo, eccetto a Gaza. Perché Gaza è lontana dai suoi cari e attaccata ai suoi nemici, perché Gaza è un’isola. Ogni volta che esplode, e non smette mai di farlo, sfregia il volto del nemico, spezza i suoi sogni e ne interrompe l’idillio con il tempo. Perché il tempo a Gaza è un’altra cosa, perché il tempo a Gaza non è un elemento naturale. Non spinge la gente alla fredda contemplazione, ma piuttosto a esplodere e a cozzare contro la realtà. Il tempo laggiù non porta i bambini dal’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende uomini al primo incontro con il nemico. Il tempo a Gaza non è relax, ma un assalto di calura cocente. Perché i valori a Gaza sono diversi, completamente diversi. L’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante. Questa è l’unica competizione in corso laggiù. E Gaza è dedita all’esercizio di questo insigne e crudele valore che non ha imparato dai libri o dai corsi accelerati per corrispondenza, né dalle fanfare spiegate della propaganda o dalle canzoni patriottiche. L’ha imparato soltanto dall’esperienza e dal duro lavoro che non è svolto in funzione della pubblicità e del ritorno di immagine.
Gaza non è un fine oratore, non ha gola. È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il dolore, le fiamme.
Per questo, il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.
Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe.
Non è la città più raffinata, né la più grande, ma equivale alla storia di una nazione. Perché, agli occhi dei nemici, è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed è il suo incubo. Perché è arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza vecchiaia, donne senza desideri. Proprio perché è tutte queste cose, lei è la più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi.
Facciamo torto a Gaza quando cerchiamo le sue poesie. Non sfiguriamone la bellezza che risiede nel suo essere priva di poesia. Al contrario, noi abbiamo cercato di distruggere il nemico con le poesie, abbiamo creduto in noi e ci siamo rallegrati vedendo che il nemico ci lasciava cantare e noi lo lasciavamo vincere. Nel mentre che le poesie si seccavano sulle nostre labbra, il nemico aveva già finito di costruire strade, città, fortificazioni.
Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste. Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovemmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi.
Faremmo tordo a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarle. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere. In un colpo solo, Gaza si scrollo di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori. Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha i natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.
(Diciamo così non per giustificarci, ma per liberarcene.)
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.
Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno.
Non le importa affatto se ne riconosciamo o meno il nome, l’immagine, l’eloquenza. Non ha mai creduto di essere fotogenica, né tantomeno di essere un evento mediatico. Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere sfoderando un sorriso stampato.
Lei non vuole questo, noi nemmeno.
La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche. La cosa bella di Gaza è che noi ne parliamo molto ne incensiamo i suoi sogni con la fragranza femminile delle nostre canzoni.
Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori. Per questo, sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.
La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie. Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone nel Consiglio nazionale, né la forma del governo palestinese che fonderemo nella parte est della Luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato. Niente la distoglie. È dedita al dissenso: fame e dissenso, sete e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso.
I nemici possono avere la meglio su Gaza. (Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma lei:
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
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