Da: https://www.lavocedellelotte.it - Gianni Del Panta studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).
Guglielmo Carchedi economista presso l’Università di Amsterdam.
Michael Roberts ha lavorato come economista nella City di Londra per oltre 40 anni. Ha osservato da vicino le macchinazioni del capitalismo globale dall'interno della tana del drago. Allo stesso tempo è stato per decenni un attivista politico nel movimento operaio. (https://thenextrecession.wordpress.com)-----------------------------------------
Bene, Marx parte dall’idea che, all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, il valore sia lavoro umano. Questo vuol dire quindi che il valore non è un’astrazione metafisica, ma esiste come una realtà oggettiva e sociale. Pensiamola in questo modo: l’elettricità è reale. È il movimento degli elettroni attraverso, di solito, atomi di rame. Non la possiamo sempre vedere (anche se possiamo apprezzarne i risultati: luce, calore e scosse). E può essere misurata in volt, watt o ampere. In modo simile, il lavoro umano (sia oggettivo sia mentale) è materiale e può quindi essere misurato in tempo di lavoro (ore, minuti, etc.).
La natura ha anche valore per noi per il fatto che senza aria, il pianeta, gli alberi, le foreste, l’acqua e così via, non ci sarebbe vita umana. Ha quindi valore per l’umanità. Richiede però il lavoro umano per trasformare questo intrinseco valore della natura in altri valori d’uso per l’umanità: le foreste diventano legname per le case solamente con l’applicazione dell’energia umana (e perciò del lavoro).
Marx chiama valore d’uso questo aspetto del lavoro umano. Ma è solamente nel capitalismo che il valore d’uso è trasformato in merci per la vendita su un mercato al fine di realizzare un profitto privato. Quanto realizzato dal lavoro umano è convertito in merci che poi hanno valore con un duplice aspetto: valore d’uso per gli acquirenti di queste merci e valore, anche chiamato valore di scambio perché si manifesta nel denaro attraverso lo scambio.
Questi due aspetti del valore all’interno della merce rivelano la contraddizione fondamentale della produzione capitalistica, vale a dire la discrepanza tra la produzione per i bisogni sociali (valore d’uso) e quella per il profitto (valore di scambio). Questa è la ragione per la quale Marx inizia il Capitale con la merce. In breve, il lavoro è sempre e allo stesso tempo sia concreto o specifico (perché è il dispendio del potere del lavoro umano per la trasformazione di valori d’uso specifici e concreti) e astratto (perché è il dispendio del lavoro umano in astratto, cioè indipendentemente dalle attività specifiche dei lavoratori).
Una delle teorie più influenti alternative alla teoria del valore-lavoro di Marx è la teoria dell’utilità, la quale sostiene che la stima di ogni individuo del valore d’uso o dell’utilità dovrebbe essere in qualche modo aggregata per raggiungere l’utilità totale dei prodotti del lavoro umano. Questo è impossibile. Infatti, com’è possibile che il valore d’uso di un prodotto che è stimato da una persona sia misurabile contro la stima di un’altra persona?
È il dispendio del potere del lavoro umano in astratto, come la trasformazione del lavoro umano nel valore delle merci, che è il focus della legge del valore. La generazione del valore passa attraverso diverse fasi. Se il processo di produzione capitalistica è iniziato ma non è ancora finito, i lavoratori svolgono lavoro ma il valore è solo potenziale, vale a dire non ancora realizzato perché la merce stessa, non ancora finita, rimane in fase di creazione e perciò esiste solamente in potenza. Quando il processo di produzione è completato ma non è ancora venduta, il lavoro che è stato necessario per questa merce è il valore contenuto, oppure incorporato nella merce. Il valore, cioè il lavoro sia concreto che astratto, si realizza solo quando la merce è venduta. In quel momento, essa si realizza sia come valore d’uso che come valore di scambio.
Bisogna menzionare, anche se di sfuggita, la questione del lavoro improduttivo (di valore). Il lavoro come lavoro concreto può trasformare valori d’uso (come nel caso di un falegname che trasforma legno in un tavolo) o no (il lavoro necessario per la vendita delle merci che le lascia immutate). Quest’ultimo, come lavoro astratto, non produce valore e plusvalore. Il valore realizzato dal capitale produttivo non è quindi prodotto dai lavoratori produttivi ma è appropriato dai settori produttivi.
In un’economia capitalista, a causa della concorrenza tecnologica tra i molti produttori della stessa merce, una merce venduta sul mercato può non realizzare il valore in essa contenuto e quindi non tutto il lavoro che è stato necessario per la sua produzione. Due merci che hanno richiesto tempi di lavoro diversi sono vendute a più o meno lo stesso prezzo. La redditività varia a seconda dei produttori, ma grazie alla concorrenza vi è una tendenza verso una redditività media. Quindi, il prezzo di una merce tenderà a essere fissato dal costo di produzione (cioè il valore pagato per l’acquisto di forza lavoro, o salari, più il valore pagato per i mezzi di produzione) più il tasso medio di profitto nell’economia. Il valore contenuto in una merce viene quindi modificato in un prezzo di produzione.
Ci sono altri aspetti che sono essenziali per la legge del valore e cruciali per spiegare gli sviluppi del capitalismo del XXI secolo. La grande scoperta di Marx nella sua legge del valore è il plusvalore. Nella produzione capitalistica, ci sono i proprietari dei mezzi di produzione (fabbriche, terreni, finanza, ecc.) e ci sono gli altri che possiedono solo la loro forza-lavoro. I proprietari dei mezzi di produzione, i capitalisti, impiegano la forza-lavoro umana per produrre il valore contenuto nelle merci che poi vendono sul mercato. Quindi, da dove viene il plusvalore? Pagando il salario, i capitalisti pagano l’intero valore della forza lavoro, che è ciò di cui i lavoratori hanno bisogno per il loro sostentamento. Ma i capitalisti costringono i lavoratori a lavorare per un tempo superiore a quello necessario per produrre i mezzi di sussistenza. Questo è pluslavoro durante il quale viene prodotto un surplus di prodotto che, al momento della vendita della merce, assume la forma monetaria di plusvalore (monetario). Questo può essere suddiviso in profitti per i capitalisti industriali, interessi per i capitalisti finanziari e rendita per i proprietari terrieri. Come già detto, i singoli capitalisti cercano continuamente di aumentare il loro plusvalore in concorrenza con altri capitalisti. Possono farlo aumentando la forza lavoro e/o aumentando l’intensità e le ore di lavoro della manodopera. Ma ci sono limiti fisici e sociali nel fare questo.
Inoltre, altri capitalisti possono introdurre nuove tecnologie che accelerano la produttività della forza-lavoro dei loro lavoratori (produzione per lavoratore) e quindi ridurre le ore di lavoro (o il valore) necessari per produrre una merce con un valore inferiore a quello dei concorrenti. Quando i concorrenti vendono le loro merci allo stesso prezzo, coloro che hanno impiegato meno ore di lavoro si appropriano del valore di coloro che hanno impiegato più lavoratori, cioè che hanno prodotto più valore. Questi capitalisti possono quindi battere sul prezzo quelli con una tecnologia meno avanzata. Questo costringe tutti i capitalisti a investire sempre di più in tecnologia/macchinari per aumentare la produttività del lavoro (cioè la produzione per unità di capitale investito) e quindi a impiegare manodopera. I capitalisti che sono leader tecnologici fanno produrre più output (valori d’uso), ma meno valore. Il valore per unità di prodotto diminuisce e, se il prodotto è il mezzo di sostentamento, il valore della forza lavoro (salari) diminuisce. Pertanto, gli investimenti in macchinari e materie prime (chiamati capitale costante) tenderanno ad aumentare rispetto agli investimenti in forza-lavoro (capitale variabile). Questo rapporto è chiamato composizione organica del capitale.
La legge del valore dice che solo il lavoro umano (impiegato dal capitale) può creare valore. Le macchine possono produrre più unità di merci per unità di capitale investito. Tuttavia, senza lo sforzo del lavoro umano, le macchine possono produrre valori d’uso, ma questi valori d’uso non hanno alcun valore intrinseco (non abbiamo ancora raggiunto un mondo di automazione totale in cui tutto il valore d’uso è prodotto dai robot; e se mai lo faremo, non sarà capitalismo). L’aumento della composizione organica del capitale può avvenire solo se i capitalisti investono più plusvalore nelle macchine rispetto agli investimenti in forza-lavoro umana. Nella produzione capitalistica, quindi, l’aumento del nuovo valore e quindi del plusvalore tende a essere inferiore rispetto all’aumento del capitale investito. In altre parole, il tasso di profitto (plusvalore per unità di capitale investito) tende a diminuire nel tempo in un’economia capitalista. Esistono molte controtendenze a questa tendenza, in particolare un maggiore sfruttamento della forza-lavoro umana, cioè un più alto tasso di plusvalore, e nel caso delle economie nazionali, un aumento del commercio e degli investimenti da parte dei capitalisti tecnologicamente avanzati in mercati esteri con mezzi di produzione meno efficienti, al fine di appropriarsi del plusvalore. Ancora una volta, questo fattore di contrasto è una caratteristica chiave della nostra analisi dell’imperialismo moderno in questo libro.
Marx ed Engels sono spesso accusati di quella che è stata definita una visione prometeica dell’organizzazione sociale umana, ovvero che gli esseri umani, utilizzando le loro menti superiori, le loro conoscenze e le loro abilità tecniche, possano e debbano imporre la loro volontà sul resto del pianeta o su quella che viene chiamata “natura” – nel bene e nel male. L’accusa è che le altre specie viventi siano solo giocattoli da usare per gli esseri umani. Ma questa critica è in contrasto con gli scritti di Marx ed Engels. Questa concezione dell’uomo e della natura come parti di un’unica totalità si ritrova in tutta l’opera di Marx ed Engels.
L’idea che Marx ed Engels non abbiano prestato attenzione all’impatto dell’attività sociale umana sulla natura è stata sfatata di recente, in particolare grazie al lavoro innovativo di autori marxisti come John Bellamy Foster e Paul Burkett. Questi ci hanno ricordato come in tutto il Capitale Marx fosse ben consapevole dell’impatto degradante del capitalismo sulla natura e sulle risorse del pianeta.
La legge del valore descritta sopra è molto rilevante per la comprensione del riscaldamento globale e del cambiamento climatico. La spinta al profitto da parte del capitale ha portato a un’espansione incontrollata dell’industrializzazione, alla produzione di energia e di beni in agricoltura che emettono carbonio e provocano l’esaurimento delle risorse naturali, e al riscaldamento del pianeta a livelli che ne minacciano l’esistenza stessa. Il colpevole non è “l’umanità”, ma il capitalismo industriale e la sua dipendenza dai combustibili fossili. Le soluzioni di mercato al cambiamento climatico si basano sul tentativo di correggere il “fallimento del mercato” incorporando gli effetti nefasti delle emissioni di carbonio attraverso un sistema di tasse o quote. Ma la soluzione del prezzo e della tassazione sul carbone, anche se funzionasse per ridurre le emissioni, è un sogno irrealizzabile perché non potrà mai essere attuata a livello globale prima che il riscaldamento globale raggiunga pericolosi “punti di non ritorno”.
La decrescita è divenuta sempre più popolare tra molti ambientalisti e persone di sinistra. I fautori della decrescita sostengono che qualsiasi tipo di crescita economica sia ecologicamente insostenibile – che si tratti di crescita capitalista o socialista non fa differenza alcuna. Pertanto, la decrescita non ha una vera e propria teoria ecologica dell’accumulazione capitalista. Per la decrescita, qualsiasi tipo di accumulazione è negativa. Ma c’è una differenza. La differenza è che l’accumulazione nel socialismo sarebbe guidata dai lavoratori stessi che determinano collettivamente cosa produrre, per chi e come. L’accumulazione (cioè gli investimenti) farebbe parte di questo processo decisionale collettivo. I lavoratori deciderebbero quanto prodotto in eccesso produrre e come utilizzarlo. Potrebbero decidere che ne serve meno, in modo da poter godere di più del tempo libero. Ma questo presuppone l’abolizione del capitalismo. La decrescita in una società capitalista è impossibile perché il capitalismo deve crescere o morire. Nel capitalismo, l’accumulazione avviene per il bene dell’accumulazione (o del capitale), per investire di più e quindi per ottenere più profitti senza un piano e nel puro interesse del profitto privato.
La soluzione a queste crisi ambientali multiformi e crescenti non è la decrescita, ma piuttosto, secondo la formula di Ernest Mandel, una “crescita controllata e pianificata”: tale crescita dovrebbe essere al servizio di priorità chiaramente definite che non hanno nulla a che fare con le esigenze del profitto privato.
La scelta della “crescita zero” è chiaramente una scelta disumana. Due terzi dell’umanità vivono ancora al di sotto della soglia minima di sussistenza. Se si arresta la crescita i paesi in via di sviluppo saranno condannati a rimanere bloccati nella palude della povertà, costantemente sull’orlo della carestia. Crescita pianificata significa crescita controllata, razionalmente controllata dai lavoratori. Ciò presuppone il socialismo: tale crescita non può essere raggiunta a meno che i “produttori associati” non assumano il controllo della produzione e non la utilizzino per i propri interessi, invece di rimanere schiavi di leggi economiche cieche o costrizioni tecnologiche.
Quando i lavoratori avranno il controllo del surplus, non svilupperemo e faremo crescere le forze produttive per rendere la vita migliore e più facile per noi stessi e più sostenibile per la terra e i suoi abitanti? In particolare, non dovremmo far crescere le forze produttive verdi per costruire più scuole (e migliori), trasporti pubblici, eccetera? I socialisti non dovrebbero sforzarsi di rimediare al sottosviluppo dell’imperialismo aiutando lo sviluppo delle forze produttive nel mondo ex colonizzato?
L’economia mainstream non è in grado di fornire una spiegazione adeguata dell’inflazione. Per il mainstream, l’aumento dei prezzi è il risultato di “troppi soldi a caccia di relativamente troppi pochi beni”: questa è la teoria monetarista. Oppure, secondo la teoria dei costi di produzione, l’inflazione è causata dai salari, che aumentano troppo velocemente e costringono le aziende ad aumentare i prezzi.
La recente impennata dell’inflazione dopo la fine della pandemia ha confutato entrambe le teorie. I salari sono aumentati in risposta all’aumento dei prezzi, e non viceversa; i prezzi sono aumentati prima dei salari, e da allora i lavoratori stanno cercando di recuperare. Semmai, sono stati gli aumenti dei profitti a dare il maggior contributo all’inflazione, non i salari. Non è stata la “domanda eccessiva” a causare l’impennata inflazionistica, come sostengono i banchieri centrali e i governi, ma al contrario la debolezza dell’offerta, dovuta all’emergere di colli di bottiglia nell’offerta dopo la pandemia, al calo della crescita della produttività e al fatto che i lavoratori qualificati non sono tornati al lavoro in numero sufficiente dopo la fine della pandemia. Di conseguenza, i prezzi delle materie prime sono saliti alle stelle, soprattutto per quanto riguarda l’energia e il settore alimentare. Le grandi multinazionali produttrici di energia e alimenti hanno approfittato della carenza per aumentare i propri margini di profitto.
Queste sono le cause contingenti recenti. Ma l’inflazione e la disinflazione devono essere intese come fattori costanti dell’economia capitalistica moderna. Né le teorie convenzionali né quelle marxiste dell’inflazione si concentrano su quella che noi pensiamo essere, per Marx, la causa ultima e determinante: i cambiamenti nella produzione di nuovo valore (il fattore determinante) e la reazione delle autorità monetarie a questi cambiamenti (il fattore determinato). Noi ci concentriamo su questa interazione.
Di conseguenza, definiamo il tasso dell’inflazione come la variazione percentuale della quantità di denaro meno la variazione percentuale del valore prodotto, che operazionalizziamo come il numero di ore lavorate nei settori produttivi. L’inflazione aumenta se la crescita percentuale della quantità di denaro è maggiore di quella del valore e viceversa per la disinflazione e la deflazione. Le ore produttive crescono in assoluto con l’accumulazione di capitale, ma allo stesso tempo, a causa della maggiore composizione organica dei nuovi investimenti, diminuiscono per unità di investimento di capitale, cioè in percentuale. Nei periodi di crescente accumulazione, il lavoro cresce perché gli investimenti più elevati richiedono più lavoro. Ma i nuovi investimenti richiedono anche meno lavoro per unità di capitale investito. L’occupazione produttiva in ore (valore) cresce, ma il plusvalore diminuisce rispetto al capitale investito. Ciò significa che, mentre la quantità assoluta di ore (valore) cresce, il tasso di profitto inizia a diminuire. La crisi è in atto, anche se è nascosta dalla crescita dell’economia.
Per l’economista mainstream, l’origine delle crisi e dell’inflazione è un enigma – sembrano esplodere all’improvviso. Ma in realtà le crisi possono essere previste dal punto di vista del valore, dato che le fluttuazioni oggettive delle ore di lavoro (valore) sono mosse da due forze contrarie: da un lato, un aumento o una diminuzione assoluta che segue il ciclo dell’accumulazione del capitale, ma dall’altro un calo tendenziale della redditività.
Come reagiscono le autorità monetarie? In un periodo di crescita economica, l’offerta di moneta e del credito aumenta perché più moneta e credito sono necessari per far circolare il maggior valore contenuto nel maggior volume di produzione. Allo stesso tempo, il plusvalore e quindi il tasso di profitto diminuiscono, qualcosa che le autorità monetarie percepiscono dalla pressione del lavoro per l’aumento dei salari e dalla maggiore domanda di materie prime e mezzi di produzione da parte del capitale, nonché dai fallimenti delle imprese più deboli. Queste sono le forze combinate che spingono per un aumento della quantità di moneta. Inoltre, poiché questa maggiore quantità di denaro non ripristina (e non può farlo) la redditività, le autorità monetarie continuano ad aumentare la quantità di denaro nell’ostinato e vano tentativo di frenare la crisi. Questo è il motivo per cui la quantità di denaro aumenta percentualmente più dell’aumento delle ore di lavoro produttivo, cioè del valore. Emerge l’inflazione.
In definitiva, la causa dell’inflazione è il calo tendenziale del tasso di profitto dell’economia, che spinge le autorità monetarie ad aumentare la quantità di denaro più di quanto sia necessario per sostenere la ripresa dell’economia. Ma di per sé la maggiore quantità di moneta non è la causa dell’inflazione. Piuttosto, nel ciclo ascendente è la conseguenza della diminuzione della redditività del capitale. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, considerata da Marx la legge più importante dell’economia politica, è essenziale per spiegare non solo le crisi, ma anche l’inflazione.
Quando la marea si inverte e l’occupazione e il nuovo valore crescono meno, è necessaria meno moneta per far circolare la produzione e il valore in diminuzione. Però allo stesso tempo, a causa della persistente necessità di stimoli monetari, l’offerta di moneta aumenta. Aumenta in modo assoluto, ma il suo tasso di crescita diminuisce. Per le autorità monetarie non solo deve diminuire, ma deve diminuire più di qualsiasi calo del tasso di crescita per non provocare inflazione, che nel ciclo discendente significherebbe stagflazione (ovvero combinazione di stagnazione e inflazione ndr). Nel ciclo ascendente, si accetta un’inflazione moderata per controllare la crescita dei salari reali. Nel ciclo discendente, la crescita dell’offerta di moneta deve essere ridotta per controllare l’inflazione.
Ma la necessità di stimolare l’economia persiste a causa del calo tendenziale della redditività. Quindi l’offerta di moneta continua a crescere sia nei cicli ascendenti che in quelli discendenti dell’accumulazione di capitale (negli Stati Uniti, M2, cioè la misura della moneta circolante nel paese, cresce costantemente da 298 miliardi di dollari nel 1960 a 14.430 miliardi di dollari nel 2019). Ma il punto è la crescita percentuale. Il tasso di variazione della moneta cresce di più nel primo caso rispetto al tasso percentuale del valore e cresce meno del secondo. Si ha inflazione in un caso e disinflazione nell’altro. Ma dato che il tasso di profitto scende tendenzialmente in entrambi i periodi, la tendenza del capitalismo è la disinflazione (piuttosto che l’inflazione). Ciò è confermato dai nostri risultati. La fase 1960-2019 è un lungo periodo disinflazionistico. Ma questa lunga tendenza è il risultato di un primo sotto-periodo inflazionistico 1960-1979 e di un più lungo periodo disinflazionistico 1980-2019. Il primo periodo è inflazionistico perché M2 cresce percentualmente più delle ore produttive (sia in tutti i settori che nel settore dei beni salariali) e il secondo periodo è disinflazionistico perché M2 cresce percentualmente meno dell’aumento delle ore produttive. Nel corso dell’intero, lungo periodo le linee del nostro tasso di inflazione e del CPI (la misura ufficiale dell’inflazione dei beni salariali) sono simili e la correlazione tra loro è molto alta, circa 0,80. Siccome il CPI ignora le variazioni nella produzione di valore, ciò dimostra che la produzione di valore è la forza fondamentale che sta alla base dell’inflazione prima e della disinflazione poi e che l’offerta di moneta è solo una reazione al movimento del valore e rappresenta solamente il 20% del movimento dei prezzi. L’attenzione esclusiva all’offerta di moneta non può spiegare né l’inflazione né la deflazione perché ignora il fattore principale. Il CPI descrive il movimento, la teoria del valore dell’inflazione lo spiega. Ma accettare questa spiegazione significa riconoscere la natura di crisi del capitalismo.
Per noi l’imperialismo esiste come sviluppo fondamentale del capitalismo. Nel nostro libro e in questo articolo ci concentriamo sull’economia dell’imperialismo, non sulle strutture politiche. L’imperialismo moderno presenta analogie con il colonialismo che esisteva prima che il capitalismo diventasse il modo di produzione dominante a livello globale. Ma ha anche caratteristiche proprie che hanno a che fare con il flusso di capitali a livello globale. Il potere economico è determinante perché è la condizione di esistenza del potere militare e ideologico, e quest’ultimo è determinato perché è la condizione di riproduzione (o di soppressione) del primo. Ma il dominio militare, politico e ideologico, anche se determinato da una tecnologia e da un potere economico superiori, è essenziale per la riproduzione del potere economico.
Noi riteniamo che l’imperialismo moderno possa essere spiegato al meglio dalla legge del valore di Marx. Su questa base, possiamo definire due blocchi: il blocco dei paesi imperialisti ad alta tecnologia, con una tecnologia media costantemente più alta e un tasso medio di plusvalore più basso; e il blocco dei paesi dominati, con un tasso medio di plusvalore elevato e una tecnologia media costantemente più bassa. Il livello tecnologico è misurato dalla composizione organica. Le differenze nel livello tecnologico e nei tassi di plusvalore determinano l’appropriazione del plusvalore da parte dei paesi imperialisti non come evento accidentale o per periodi di breve durata, ma per lunghi periodi pluridecennali.
Nella nostra analisi empirica, abbiamo scoperto che solo poche economie capitalistiche avanzate hanno ottenuto la maggior parte dei trasferimenti di plusvalore attraverso il commercio e i profitti derivanti da investimenti di capitale, mentre il resto ha subito significativi deflussi. È interessante notare che i paesi del blocco imperialista erano gli stessi di quando Lenin scrisse la sua analisi dell’imperialismo oltre 100 anni fa. Da allora nessuna economia capitalista emergente è riuscita a entrare nel club imperialista e non ha alcuna prospettiva di farlo. E questo include anche la Cina, l’economia emergente in più rapida crescita. Infatti, contrariamente a molti, secondo la nostra definizione, Cina e Russia non sono economie imperialiste perché non ricevono grandi e persistenti afflussi di plusvalore da altri paesi attraverso il commercio e gli investimenti [1].
Per me, gli accademici marxisti sono necessariamente sottoposti a un’enorme pressione ideologica per conformarsi: non solamente per comportarsi con la dovuta riverenza nei confronti delle autorità universitarie e delle loro fonti di finanziamento, ma ancor di più per rispettare le idee del mainstream. Questo è particolarmente vero in economia, la più ideologizzata di tutte le discipline scientifiche. Gli economisti mainstream sono combattenti prezzolati del capitale. I marxisti nel mondo accademico, quindi, non solo patiscono discriminazioni dirette su posti di lavoro, incarichi e riconoscimenti, ma subiscono anche pressioni per accettare le teorie del mainstream. Alcuni accademici hanno ripudiato il marxismo in toto. Altri sono ricorsi a una tattica diversa. Hanno “corretto”, “migliorato” e “aggiornato” il marxismo introducendovi elementi dell’economia convenzionale in modo da snaturarlo e trasformarlo in una delle sue molte varianti.
Nonostante le loro differenze, tutte queste varianti addomesticano la sua essenza rivoluzionaria per poter rivendicare un riconoscimento accademico. E alcuni di loro sono diventati i più accesi e feroci ideologi del capitalismo e dell’imperialismo. Di conseguenza, la maggior parte degli accademici “marxisti” (e non sono molti nelle università) non sono affatto marxisti. Con questo intendo dire che la maggior parte degli economisti marxisti non accetta la legge del valore di Marx e cerca continuamente di “reinterpretarla” per demolirla. E la maggior parte non accetta la legge di Marx sulla profittabilità come causa di fondo delle crisi regolari e ricorrenti del capitalismo. Al contrario, adottano generalmente spiegazioni alternative basate sul sottoconsumo, sulla mancanza di regolamentazione o sugli shock finanziari. E non è un caso che le loro raccomandazioni politiche sostengano come le economie moderne possono essere rese in grado di evitare le crisi e ridurre la disuguaglianza di ricchezza e reddito, e persino abolire la povertà a livello globale e risolvere la crisi climatica senza dover sostituire il capitalismo.
Il nostro libro vuole combattere questa pressione e riaffermare la chiarezza di spiegazione che è fornita dalla legge del valore di Marx. È la cartina di tornasole di ogni teoria rivoluzionaria del socialismo.
In base a questa definizione, il socialismo non esiste in nessuna parte del mondo e non è mai esistito, finora. Ma questo non significa che il capitalismo e gli Stati capitalisti non siano stati abbattuti dalla lotta di classe negli ultimi 100 anni. Le rivoluzioni russa e cinese hanno portato alla rimozione dei capitalisti e dei proprietari terrieri nei loro paesi. Ma questo non è durato a lungo e non ha instaurato il socialismo, come sopra definito, da un giorno all’altro. All’inizio, questi paesi erano meglio caratterizzati come economie di transizione, non più Stati capitalisti, ma presumibilmente in transizione verso il socialismo.
Nel nostro libro cerchiamo di definire le condizioni per il successo della transizione dal capitalismo al socialismo dopo una rivoluzione. Ci sono due condizioni fondamentali dopo che i lavoratori hanno conquistato il potere statale dai capitalisti e hanno trasformato la maggior parte dell’economia in proprietà pubblica. Si tratta della democrazia operaia, basata sul diritto di revoca di tutti i funzionari nominati dalle organizzazioni operaie per gestire lo Stato e sul fatto che questi funzionari non ricevano più del salario medio dei lavoratori. In secondo luogo, è necessario introdurre un piano di produzione e di investimento che sostituisca le cosiddette forze di mercato e che sia controllato e monitorato dalle organizzazioni dei lavoratori.
Queste condizioni erano presenti nell’Unione Sovietica dopo il 1917? Erano presenti in Cina, o a Cuba, o in Corea del Nord, o in Vietnam dopo le loro rivoluzioni? La risposta è, in linea di massima, no. Non tutte queste condizioni erano presenti. Quindi, non solo oggi i paesi cosiddetti “socialisti” non lo sono, secondo la definizione di Marx ed Engels, dove la legge del valore non opera più, ma non sono nemmeno economie o Stati in transizione verso il socialismo. Ma questo non significa nemmeno che siano Stati capitalisti. La logica formale dice che se ci sono solo due colori: il bianco e il nero, se qualcosa non è bianco, deve essere nero. Ma la logica formale non si applica alla realtà che cambia continuamente. Si applica allora la logica dialettica della contraddizione e del cambiamento. Prendiamo l’evoluzione.
L’ornitorinco a becco d’anatra è un rettile in un certo senso perché depone uova e non ha parti vivi; ma è un mammifero in un altro senso perché allatta i suoi piccoli con il latte, cosa che i rettili non fanno. Che cos’è dunque? È un’istantanea del cambiamento evolutivo. Anche l’Unione Sovietica e la Cina sono istantanee di economie di transizione tra capitalismo e socialismo. Ma il processo di transizione può essere invertito. C’è stato il crollo della struttura dell’Unione Sovietica in una controrivoluzione che ha restituito il potere statale ai capitalisti e ha riportato il capitalismo. In Cina, la questione rimane aperta [2].
Ci sono due condizioni necessarie per ripristinare la transizione al socialismo in questi Paesi. La prima è una rivoluzione democratica dei lavoratori che stabilisca le condizioni della democrazia operaia e della pianificazione democratica. La seconda è la sconfitta dell’imperialismo a livello globale. Senza la fine del capitalismo nei principali paesi imperialisti, la Cina sarà sempre più contenuta e ostacolata nel suo progresso e potrebbe addirittura tornare al capitalismo. Il socialismo, come definito sopra, è impossibile in un solo paese. Solo la democrazia operaia e la rivoluzione internazionale possono portare l’umanità verso il socialismo. Il nostro libro vuole essere un modesto contributo in questa direzione.
Riferimenti bibliografici
Lodi L (2021) La Cina è un paese imperialista? Le implicazioni di una “classificazione”. Egemonia, 1(1): 15-28.
Note
[1] Sulle pagine di questo giornale, Lorenzo Lodi (2021) era giunto a conclusioni simili per quanto riguarda il caso da lui analizzato: ovvero, quello cinese.
[2] La nostra posizione diverge qui da quella di Michael Roberts: dal nostro punto di vista, la Cina è un paese pienamente capitalista, per quanto lo Stato mantenga un controllo diretto di ampi e importanti settori produttivi. Rimane dubbio invece se riuscirà ad entrare nel club dei paesi imperialisti. Anche in questo caso, si veda Lodi (2021).
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