*Da:
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Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio
e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi,
Roma, 2016, pp.350, € 20,00
«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza
come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta
Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema
sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai
due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la
seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e
nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero
complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo
indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica
del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo
consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta
libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi
malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità
morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale
crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio
degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e
da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato –
secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica
(nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori
spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una
(contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di
riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio
di milioni di uomini.
Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla
scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann,
constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”,
“inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi
suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una
premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba
essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative
assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina
genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un
contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori
di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti
decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del
male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano
uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui
solitamente considerabili come “persone per bene”.