giovedì 20 novembre 2025

Così ha votato l’Iraq, la terra delle nostre menzogne - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. - alberto.negri 


Gli osservatori iracheni riscontrano comunque una sfiducia diffusa tra i cittadini, prigionieri di un sistema dominato da interessi settari considerato responsabile del fallimento del paese


L’Iraq è la terra delle bugie. Delle nostre menzogne. Perciò tendiamo a dimenticare quanto è accaduto: persino la rievocazione della strage dei militari italiani a Nassiriya qualche giorno fa è avvenuta fuori da ogni contesto, come provocata da un uragano o un terremoto.

La prima bugia è che l’Iraq di Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, la seconda è che il regime iracheno fosse legato ad Al Qaeda. Nel 2003 ce le siamo bevute tutte, quelle di Bush jr., Dick Cheney e di Blair: abbiamo partecipato a una insensata guerra di aggressione che ha ridotto il Paese in frantumi.

Oggi leggendo i risultati delle elezioni in Iraq quasi non si crede che tutto sia avvenuto più o meno pacificamente. Sembra che l’Iraq sia diventato un sorta di isola di stabilità nel cuore di un Medio Oriente sanguinante. Ovviamente non è così. Eppure è come se ci fossimo dimenticati delle sofferenze immani della popolazione irachena che tra occupazione e terrorismo ha visto in oltre un decennio almeno 500mila morti e milioni di profughi. Ricordo delle elezioni, sotto occupazione americana, mentre con Giuliana Sgrena e Stefano Chiarini andavamo da un seggio all’altro e intorno esplodevano colpi di mortaio e attentatori suicidi.

LA VITA DI BAGHDAD allora durava poche ore: si usciva all’alba e alle quattro del pomeriggio in strada non circolava più nessuno: è stato così per anni. Una città che un tempo viveva le notti afose sul Tigri era rinchiusa tremante con l’orecchio teso a ogni rumore sospetto che non fosse quello dei generatori: la luce non era più tornata dalla notte del primo bombardamento del marzo 2003. Persino i cruise americani del 17 gennaio 1991 ci apparivano un ricordo quasi nostalgico: era stato qui che il mondo, per la prima volta nella storia dell’umanità, aveva visto la guerra in diretta.

I risultati delle elezioni descrivono solo in parte l’Iraq contemporaneo. La lista sciita Coalizione per la ricostruzione e lo sviluppo, guidata dal primo ministro uscente Mohammed Shia al Sudani, è arrivata in testa alle elezioni legislative dell’11 novembre. Dopo la convalida del voto da parte della corte suprema, i deputati dovranno scegliere il presidente del parlamento, incarico riservato alla comunità sunnita, e il capo dello stato, un curdo, entro trenta giorni. Quest’ultimo deve nominare un primo ministro, sciita, che avrà un mese di tempo per formare il governo.

Gli osservatori iracheni riscontrano comunque una sfiducia diffusa tra i cittadini, prigionieri di un sistema dominato da interessi settari considerato responsabile del fallimento del paese. Molti, anche se meno del previsto, sono stati spinti al boicottaggio dal leader sciita Moqtada al Sadr. Esponente di una famiglia di ayatollah prestigiosi, Sadr ha guidato le rivolte contro gli americani ma in una foto recente, lui che avevo intervistato ancora giovane a Najaf, appariva precocemente invecchiato e con la barba bianca: mi si era presentato allora addobbato in un sudario bianco, «pronto – mi disse – a subire il martirio» come altri membri della sua famiglia che Saddam aveva fatto ammazzare. Poi aveva passato molto tempo a Qom, il vaticano dello sciismo iraniano, dove lo avevano convinto a partecipare al governo: sono questi gli ayatollah di lotta e di governo, per la verità sempre meno convincenti nell’agitare il simulacro della rivoluzione sciita.

DALLA PARTE dello sciita Al Sudani c’è la sua riconosciuta abilità nel bilanciare l’influenza degli Stati Uniti, che mantengono ancora truppe nel paese, e dell’Iran, che esercita una forte influenza sui blocchi politici sciiti. Dopo la caduta di Assad in Siria e la sconfitta degli Hezbollah in Libano, l’Iraq riveste un’importanza strategica per Teheran. Come in Siria, in Iraq gli iraniani hanno investito uomini e denaro per fermare il Califfato di Al Baghdadi che nell’estate del 2014 era a un’ora di auto dalla capitale. La bandiera nera dell’Isis, che non è per niente scomparso, allora la vidi sventolare a qualche decina di chilometri dalla curda Erbil, a Kobane assediata e alla periferia di Damasco. Uno degli artefici della resistenza sciita fu l’ayatollah Sistani (poi visitato da papa Bergoglio a Najaf) e il generale Soleimani, tempo dopo fulminato da un missile americano sulla pista dell’aereoporto di Baghdad.

Questi eventi relativamente recenti e le stesse elezioni “settarie” di martedì derivano da una storia complessa che ha un nome: “colonialismo”. Afferrando come su un tavolo da gioco le fiche dell’Iraq ridotto a pezzi nel marasma seguito alla fine dell’impero ottomano, gli inglesi si appoggiarono, a scapito degli sciiti e dei curdi, sulla minoranza sunnita insediando nel 1921 il re hashemita Faisal. Negli anni Sessata e Settanta, mentre si consumava la rottura tra il partito Baath siriano e quello iracheno, il regime sunnita di Baghdad mascherava il suo settarismo dietro al paravento del nazionalismo panarabo e del secolarismo, vessilli agitati anche nella guerra contro l’Iran durata otto anni. A Baghdad c’è ancora l’imponente il mausoleo di Michel Aflaq, il siriano greco ortodosso fondatore del Baath e scappato qui in esilio. Soltanto con la caduta di Saddam nel 2003 gli sciiti si presero la rivincita.

MA GLI AMERICANI sciogliendo il Baath e l’esercito iracheno misero ai margini i sunniti facendo più o meno gli stessi errori dei loro predecessori britannici, anzi infiammando la resistenza dell’Islam più radicale di Al Qaida e dell’Isis. Salvo adesso ricevere alla Casa Bianca il jihadista siriano Al Shaara. Ecco perché l’Iraq e “la terra tra i due fiumi” sono il banco di prova delle nostre menzogne e dei nostri miserabili trucchi sulla testa di intere popolazioni, dalla Palestina alla Siria, dal Libano all’Iraq.

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