Da: https://www.facebook.com/roberto.fineschi - Roberto Fineschi (Marx. Dialectical Studies) è un filosofo italiano. Allievo di Alessandro Mazzone, Membro del comitato scientifico dell’edizione italiana delle Opere di Marx ed Engels.
Leggi anche: Fare
la pace o fare la guerra? - Roberto Fineschi
Vedi anche: Violenza,
classi e Stato nel capitalismo crepuscolare" - R.Fineschi,
M.Casadio, A.Allegra.
Sabato 9 aprile, il Centro Casa Severino e l'Associazione di Studi Emanuele Severino hanno promosso un incontro interdisciplinare sul tema della guerra. Qui sotto la trascrizione minimamente rivista del mio intervento.
Da una parte vorrei tentare di fare un discorso più generale diciamo di quadro. Facendo questo inevitabilmente ci si presta alla critica di non cogliere la drammaticità del presente: quando muoiono persone, si distruggono città è difficile distogliere lo sguardo; ovviamente si tenta di farlo non per ignorare il dramma ma per proporre una riflessione più ampia, inquadrata in un contesto di sistema, in questo caso relativo al concetto di guerra e violenza nella modernità e, a fortiori, anche al caso ucraino.
La guerra non è certo una novità contemporanea; da quando esistono società complesse l'uomo ha sempre fatto guerre; da sempre i filosofi se ne sono occupati, ma più recentemente è nata una disciplina che in modo più politically correct ha cercato di affrontarla in maniera ancora più esplicita: le relazioni internazionali. In esse si cerca di sciogliere il nodo della guerra non per giustificarla da un punto di vista morale, ma per spiegarne la necessità fattuale nel mondo politico (i rapporti di potere producono degli equilibri che non si tratta di giudicare perché belli o brutti, ma semplicemente in quanto instaurano un ordine) o nel tentativo di evitarla proprio per le caratteristiche che ha.
Tanto gli approcci realisti e neorealisti, quanto quelli che hanno invece cercato una via diplomatica, non violenta alla soluzione delle controversie internazionali di stampo liberale o neoliberale (Bobbio ad esempio), a mio modo di vedere hanno una questione filosofica di fondo che consiste nel partire da una concezione che dal punto di vista di Marx è criticabile, vale a dire il contrattualismo: considerare la formazione dell'istituzione statuale come un contratto sociale, che naturalmente si risolve poi diversamente in diversi filosofi. Il tratto comune è che se si instaura una società che in qualche modo argina la violenza anarchica dello stato di natura a livello interno, il problema si ripropone a livello esterno nelle relazioni internazionali in cui, di nuovo, i singoli funzionano come atomi anarchici. Secondo alcuni la loro interazione porta naturalmente a un equilibrio tra forze contrapposte e, alla fine, stabilisce un ordine che non è necessariamente giusto o bello, ma è un ordine. Invece secondo altri quest'ordine va costruito in qualche modo replicando la dimensione contrattualistica attraverso istituzioni terze che riescano, da una posizione super partes, a riconciliare e ricomporre il dissidio atomico dell'anarchia.
Le ultime vicende hanno rilanciato sicuramente approcci realistici o neorealistici: il sistema instabile in cui ci troviamo dalla fine prima del bipolarismo della guerra fredda e poi con la crisi di un potenziale unipolarismo degli Stati Uniti come potenza egemone mondiale costituiscono un sistema dall’equilibrio instabile in cui varie forze cercano i propri spazi in una possibile ricomposizione generale; qui l'elemento della guerra è drammaticamente una carta da giocare, una carta che è stata giocata non solo adesso in Ucraina ma anche varie altre parti del mondo. Questo non significa ridurre tutte le guerre a tattica geopolitica; sicuramente esistono motivazioni interne e specifiche di crisi della società ucraina che preesistono sicuramente alla guerra attuale e che anzi l'hanno preparata; su di esse però insistono anche interessi più generali che tuttavia hanno un peso notevole anche nelle dinamiche interne.
Secondo me la teoria di Marx aggiunge degli elementi d'analisi utili alla comprensione di come queste forze internazionali e nazionali agiscono nel tentativo di dire la loro, di imporsi. Un problema delle teorie realiste o comunque di quelle che si basano sull'idea degli Stati come soggetti individuali risiede infatti nella limitata capacità di stabilire quali siano le motivazioni e soprattutto il contesto strutturale in cui questi stati agiscono. La logica di potenza, di potere ecc. sicuramente sono un elemento decisivo, ma probabilmente astratto, o meglio parziale; non permettono di comprendere a 360 gradi le ragioni profonde o, quantomeno, riducono la complessità delle cause che spesso non è riconducibile solo alle decisioni dei singoli governi. Secondo Marx non ci sono gli astratti Stati che agiscono; essi si collocano in configurazioni peculiari che hanno delle caratteristiche storicamente determinate e che rispondono a una logica specifica che di fatto crea un contesto economico, sociale e politico solo all'interno del quale esiste una gamma di scelte possibili; contesto che non coincide, anzi trascende la somma delle singole decisioni individuali, spesso sovradeterminandole. Ignorare questo aspetto – e non lo dice solo Marx, ben inteso - non permette di cogliere appieno la gamma del possibile, le alternative sul tavolo di fronte agli effettivi attori politici che poi prendono decisioni. Questa cornice Marx la chiama modo di produzione capitalistico, un sistema di riproduzione sociale che non parla dell'essere umano in generale, della società in generale ma di una strutturazione peculiare che ha un andamento determinabile e che appunto pone dei confini a questo andamento.
Pare impossibile, anche senza essere marxisti, marxiani o in qualunque modo si voglia connotare un orientamento di questo tipo, negare che nel modo di produzione capitalistico il motore fondamentale dell'azione è la la valorizzazione del capitale: essa è la conditio sine qua non che fa sì che il sistema stia in piedi, non semplicemente che si decida di fare la guerra o non fare la guerra: è una condizione non solo storica o fattuale, ma ontologica di esistenza della modernità. Questa precondizione così astratta si configura poi in sistemi più complessi che, al di là del capitale in generale, includono chiaramente capitalismi storicamente, geograficamente determinati eccetera. Tutto ciò implica delle dinamiche che, a lungo andare, secondo Marx in qualche modo modificano la natura stessa del capitalismo in una maniera che sostanzialmente mina le basi stesse su cui esso si fonda. In questo senso, generalizzando ancora di più, la teoria del capitale è una teoria dialettica in cui l'idea di conflitto, di auto-contraddittorietà è intrinseca al sistema. È la natura stessa della realtà che, nel modo di produzione capitalistico, si caratterizza come processo di valorizzazione che, a un certo punto, mette in crisi le stesse condizioni di tale processo; il capitalismo non si riproduce in maniera circolare ma crescendo su se stesso, raggiungendo, a un certo punto, una condizione per cui mette in crisi il funzionamento “naturale” del processo di valorizzazione.
Quali sono gli elementi che lo caratterizzano: l'impiego sempre più massiccio di tecnologie, di macchine, i progressi della scienza che Marx non poteva neanche immaginare che aumentano la produzione del plusvalore relativo, che parallelamente escludono una massa crescente di forza-lavoro determinando quindi una disoccupazione di massa, una sovraproduzione di massa, tutte condizioni che di fatto mettono in crisi il meccanismo della valorizzazione. Questa condizione strutturale, qui solo brevemente richiamata, la chiamo *capitalismo crepuscolare*; un elemento chiave di questa fase consiste proprio nell'incapacità del sistema di mantenersi e progredire semplicemente sulle basi del meccanismo “naturale” di valorizzazione. Ci sono degli ostacoli che il sistema stesso da solo non riesce a rimuovere, si incarta in se stesso.
Se questa è la cornice generale in cui la dinamica fondamentale si muove, essa delimita i confini all’interno dei quali l'azione politica, l'intervento di istituzioni può di fatto agire come fattore che toglie gli inceppi, che fa ripartire in qualche modo il processo. Ciò può essere fatto in maniera pacifica attraverso il welfare state, l'investimento statale sia economico e sociale (i cosiddetti meccanismi keynesiani), ma in realtà si può anche intervenire attraverso mezzi violenti: è sostanzialmente possibile imporre condizioni di valorizzazione che non sarebbero “naturali”, che non si realizzerebbero cioè in base allo sviluppo del modo di produzione capitalistico per com'è. Alterando in maniera “extra-economica” questi vincoli, di fatto si permette una valorizzazione.
Che c’entra questo con la guerra? Una delle possibilità, non necessariamente l’unica ma una delle possibilità sul tavolo, è ricorrere alla violenza per imporre determinate condizioni di valorizzazione o per bloccare condizioni di valorizzazione di capitali mossi da altri paesi o che nascono in altre nazioni; il ricorso alla violenza e alla guerra come manifestazione principe della violenza, come violenza organizzata, statuale e perpetrata con mezzi di distruzione massicci, può rientrare in un quadro di questo tipo, cioè può diventare una delle carte da giocare, o addirittura, in certi casi, un'ottima carta.
Nella situazione attuale, senza parlare direttamente dell'Ucraina, è evidente che, oltre alla dimensione specifica, esiste un problema di ricollocazione mondiale tra potenze che rappresentano grandi sistemi: chiaramente gli Stati Uniti da una parte, la Cina dall'altra, la Russia in una posizione intermedia (per non parlare dei cosiddetti “paesi emergenti”). I sistemi di penetrazione sono diversi tra loro: da una parte la Cina penetra con la sua capacità produttiva, di egemonia reale grazie alla quale entra comprando, costruendo, facendo investimenti. È una modalità che è impossibile fuori dalla Cina perché si realizza grazie alla sinergia tra capitale privato e capitale pubblico, che in maniera coordinata fanno operazioni che non sarebbero possibili in un sistema puramente capitalistico, dove nessuno appoggerebbe in maniera così forte investimenti che non è sicuro che diano un ritorno garantito. Le grandi istituzioni finanziarie cinesi lo fanno perché è una decisione politica, legata alla proprietà statuale di esse. Nel capitalismo puro questo non succede perché la banca, l'investitore agisce solo con la garanzia di un ritorno. Ciò dà alla Cina un vantaggio competitivo notevole.
Da una parte c'è dunque un paese in grande espansione produttiva, commerciale, finanziaria che sicuramente vede nella Russia un possibile alleato, se non altro temporaneo, dall'altra c'è la grande forza tradizionale statunitense, probabilmente in declino, che non riesce a competere a questi livelli e che chiaramente considera la guerra come una delle possibilità. In realtà tutti la considerano, ma il vantaggio degli Stati Uniti è quello di essere il più forte da un punto di vista militare.
Con ciò non si vuole ridurre la complessa questione solo alle dinamiche imperialiste statunitensi; le variabili io gioco sono più ampie e includono altri interessi di terzi altrettanto poco nobili. Il punto è che in un quadro complessivo di questo tipo, la guerra è una delle carte che queste grandi potenze possono giocare, in particolare quelle che, per i motivi detti, hanno più interesse e vantaggio nel farlo. In questo momento la condizione di equilibrio internazionale è frammentata; se la posta in gioco è ridiscutere le condizioni, in un sistema a capitalizzazione difficile sicuramente la possibilità della guerra è una di quelle che i “decisori” considerano.
Vorrei infine aggiungere che Marx permette di considerare altri tipi di guerra e altri tipi di conflittualità che per adesso sono rimasti sottotraccia. Il gioco delle potenze internazionali ha anche una dinamica interna, nazionale, fatta altrettanto di conflitti. Senza voler tirar fuori il conflitto di classe, chiamiamolo pure come si preferisce, pare evidente che all'interno della società cinese, russa, italiana, statunitense in questo momento c'è una fase di conflittualità potenziale estrema dovuta proprio alla crisi del modo di produzione capitalistico, che non solo non garantisce più il pieno impiego, ma che sta producendo disoccupazione di massa, impoverimento costante dei ceti medi eccetera eccetera. Per farla breve, Marx tenta di mettere insieme la dinamica interna nella sua proiezione esterna come parte di un processo articolato, ma unitario. Aggiunge quindi, secondo me, degli strumenti interessanti per tentare di comprendere questa complessità in cui la dimensione della violenza, della guerra, risultano essere intrinseche alla crisi profonda, di sistema, del modo di produzione capitalistico. Ciò non significa né che esso crolli, né che ci sia la rivoluzione, né chissà cosa; però è evidente l’esistenza di una crisi profonda le cui dinamiche producono la guerra come una delle sue possibili variabili.
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