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A DIEGO - Gianni Minà
Sento da troppi giorni i tamburi della guerra che, in maniera opprimente, si stanno avvicinando sempre di più nelle nostre vite, appesantite dagli affanni, chi più chi meno, della quotidianità, ma non certo lacerate dai drammi che la guerra porta.
Ho 84 anni, ero un bambino durante la seconda guerra mondiale, ma mi ricordo molto bene il tragico bagaglio che aveva portato: mio nonno ferroviere fu ucciso in un bombardamento degli alleati mentre stava lavorando insieme ai suoi colleghi, la disperazione dei miei, la fatica e la paura di essere sfollati, la mancanza del cibo, il freddo, il terrore di chi rischia la morte per un tozzo di pane, le file interminabili per l’acqua. E poi, i grandi egoismi di molti, i gesti eroici di pochi, la generosità e l’altruismo esercitati in silenzio di altri.
Oggi la mia mente ripercorre quei ricordi dolorosi e vedo che nulla è cambiato: c’è chi inneggia alla guerra, anche nucleare, incurante dei dolori che porta, chi si fa alfiere di vari interessi, chi randella quotidianamente chi la pensa in maniera critica, azzerando il confronto e trasformando il dialogo in una assurda polarizzazione: amico di Putin se sei per la pace o difensore della democrazia se aderisci all’invio di armi per l’Ucraina. Perfino il Papa è stato dichiarato “pacifista estremista”, come se invocare la pace fosse da vigliacchi o peggio, da inetti, incapaci di “prendere una posizione”.
Roba da matti, o da incoscienti. O roba da falchi…
Anche Raniero La Valle, un giornalista e mio antico collega della Rai, che ha prodotto storici documentari sulla Palestina, la Cambogia e il Vietnam, nel suo editoriale su Facebook, sostiene di aver paura della guerra, perché: “anche a noi fu detto “Vincere! E vinceremo”, come infatti accadde con armate straniere che si combatterono sul nostro suolo e dal cielo distrussero le nostre città. (…) Ma noi abbiamo paura che le ultime notizie, magari come allora nascoste nelle “brevi” e poi a lungo secretate, ci informino di un’azione altamente meritoria e densa di valori imperituri come quelle compiute a Hiroshima e Nagasaki; abbiamo paura di perdere non la vita, ma ciò per cui abbiamo combattuto per tutta la vita: per la pace, la libertà, l’onore, la difesa dei popoli martoriati ed oppressi dalle colonie, dagli Imperi, dalla Trilaterale, dagli Esodi, dalle guerre bipartisan, dalla fame, dalla “giustizia infinita” inalberata per gratificare il mondo intero della democrazia, dei respingimenti, dei porti chiusi e delle estradizioni; così come abbiamo combattuto contro le operazioni alla “Desert Storm” per annientare Stati canaglia e terrorismi, o contro i missili stranieri da Comiso puntati contro l’Ungheria.”
Gino Strada, come lo hanno ricordato a un incontro a Sesto S. Giovanni, prendendo in prestito le parole di Albert Einstein all’indomani della fallimentare conferenza sul disarmo del 1932 a Ginevra, diceva sempre che la guerra non si può umanizzare, ma solo abolire, perché è impossibile e illusorio imporre regole di comportamento.
La pace non va contrattata, non è un’opzione tra tante, la pace si abbraccia senza se e senza ma, anche a costo di essere perdenti.
Apro un sito: https://www.atlanteguerre.it/, molto interessante. Nella cartina interattiva, si clicca nei paesi colorati e si legge il conflitto: il mondo è come se avesse una cintura fatta di paesi in guerra. Troppi, ancora. La lista dei paesi si allunga quotidianamente.
In America Latina, ad esempio, lo sanno bene cosa hanno portato le guerre e le dittature. Popoli assoggettati, sterminati, come ad esempio i paesi del Centro America, il Salvador o il Guatemala, chiamati, per le continue stragi delle loro popolazioni “il mattatoio d’America” e che hanno avuto dalla storia solo un flebile “scusa” di Barak Obama in una conferenza stampa nel 2010. Ma si sa, non tutte le vittime di guerra hanno la stessa considerazione. Eppure quel continente, senza voce da sempre, al contrario di noi occidentali, ormai ridotti a consumatori alienati anche di guerre, esportatori di una democrazia svuotata, di cui non sappiamo più neanche il senso, è sempre alla ricerca del “buen vivir”, in una dimensione circolare, che produce benessere per tutti, spirituale e materiale, senza escludere nessuno.
Spesso, da quando conosco quel continente, mi sono domandato: ma chi vive meglio, noi o loro?
I media certo non aiutano a capire: se prima eravamo ossessionati 24 h da notizie, informazioni, appelli quotidiani sul Covid, oggi la nuova ossessione sono le immagini di guerra, la cui quantità e tipo di messaggi ormai è fuori controllo; questo sistema, ormai, in una sorta di news war, ha spento tutte le voci del resto del mondo e non mi soffermo più sulle fake, che si rincorrono ad arte, nella impossibilità di essere smascherate. Approfitto, però, per ospitare tra le mie righe un appello dei nostri più importanti inviati di guerra che mi ha segnalato Livio Senigalliesi, uno dei fotografi che ho ospitato nelle pagine della mia rivista “Latinoamerica”: https://bit.ly/3uSa56J.
Oggi sono costretto a casa e osservo distrattamente i telegiornali e i programmi, spalmati tutti sulla guerra Russia-Ucraina, tanto da farmi avere un leggero senso di nausea, un overload di notizie, come mi era capitato con la pandemia, ora scomparsa dai radar, anche se la curva, pare, si stia rialzando. Telegiornali di 30 minuti, dove 24 spesi nel conflitto che ci invade e 6 miseri minuti su politica estera e italiana e ovviamente, per “politica italiana” intendo la cronaca nera, lasciandoci però appesi su questioni che erano primarie nell’agenda fino a qualche tempo fa: ad esempio i migranti portati in Bielorussia dal Medioriente e bloccati ai confini della Polonia da un muro di filo spinato di più di 180 km, che fino hanno fatto?
Ma come si può andare avanti così?
Per sapere qualcosa di serio e vero sui conflitti e sul mondo, ormai ascolto quasi solamente Radio Vaticana.
Sulla rivista Missioni Consolata il suo direttore Gigi Anataloni, nel suo editoriale nomina monsignor Tonino Bello, che sosteneva qualche tempo fa: “Il mio desiderio è quello del cessate il fuoco, perché non è possibile, non è accettabile, non è pensabile che ancora oggi, con tutto il progresso che abbiamo fatto, con tutta la cultura che abbiamo alle spalle, della gente debba essere massacrata a questo modo. E’ osceno. Io credo che ci vergogneremo domani per la nostra mancanza di insurrezione di coscienza (…) La guerra tutto può partorire, fuorchè la pace e la giustizia. La pace non arriverà, finchè non si farà giustizia.”
Non ci rendiamo neanche conto che questi tamburi di guerra non porteranno certo alla prosperità economica, anzi: l’inflazione sta crescendo e crescerà ancora indebolendo il valore dei già magri stipendi delle classi più fragili, aumenteranno i precari, i prezzi si gonfieranno sempre di più e le conseguenze sociali saranno devastanti, non soltanto per l’Europa, ma anche per altre regioni del mondo: la globalizzazione non dà scampo a nessuno, e la pandemia ci ha già insegnato che i confini non esistono più.
Vorrei concludere questo mio breve articolo sulla pace, con una notizia di speranza, che tanto ci fa bene, e che viene proprio dal popolo cubano che ho apprezzato per i tratti che lo caratterizzano: la dignità, l’umanità, ma soprattutto la loro solidarietà nelle piccole e grandi cose, nonostante siano strozzati da un blocco economico che dura da più di 60 anni, nonostante siano stati messi a forza nella vergognosa lista di “stati canaglia”.
Nei giorni scorsi, è passata in Italia una delegazione di scienziati cubani che Fabrizio Chiodo in collaborazione con AICEC e l’Ambasciata cubana, ha portato a Napoli. Sono tre generazioni di grandi ricercatori della biotecnologia cubana: il professor Luis Herrera-Martinez, uno dei padri di questa disciplina, Dagmar Garcia Rivera, la più giovane, e il professor Verez-Bencomo a cui si deve lo sviluppo del primo vaccino sintetico della storia, il vaccino contro Haemophilus influenza del tipo B, e anche il vaccino contro la polmonite, che, a differenza di quello statunitense venduto a 100 dollari la dose (il cui costo proibitivo non può essere acquistato da paesi depressi economicamente) ha permesso e permetterà ai bambini di Cuba e dei paesi più poveri di essere curati contro una delle malattie più letali per l’infanzia, la polmonite. L’iniziativa napoletana racconta la storia personale dei tre protagonisti e la storia della biotecnologia di Cuba, ma soprattutto la collaborazione tra l’istituto vaccinogeno Finlay all’Avana e il Laboratorio di Virologia dell’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino che sta lavorando per comprendere lo spettro di applicabilità dei vaccini cubani (soprattutto il vaccino Soberana Plus) in funzione delle varianti in circolazione.
A Cuba, diversamente da altri Paesi, anche i più industrializzati, i decessi per Covid (normalizzati sulla popolazione) sono risultati inferiori durante tutta la pandemia, soprattutto durante l’arrivo di Omicron e questo grazie sia a una campagna di vaccinazione ma soprattutto ai vaccini pubblici sviluppati, nonostante il blocco economico imposto dagli Stati Uniti che vieta l’approvvigionamento di materie prime, strumenti e tecnologie. Di fondamentale importanza è stato anche aver sviluppato l’unico vaccino contro SARS-CoV-2 pensato per la popolazione pediatrica e somministrato al 97% dei bambini cubani dai due anni in su. Fabrizio Chiodo, ricercatore del CNR e collaboratore dell’istituto vaccinale Finlay dove ha lavorato al disegno e allo sviluppo dei vaccini Soberana, ha spiegato in un articolo di Franz Baraggino sul Fatto quotidiano: “Ci si è concentrati sui vaccini proteici che, a differenza dei vaccini a materiale genetico come Pfizer e Moderna, si basano su una tecnologia già nota e largamente utilizzata anche in campo pediatrico. I dati sono stati messi a disposizione della comunità scientifica e pubblicati su riviste scientifiche internazionali ed è in corso la procedura di pre-qualifica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un ok che basta ad agevolare l’export del vaccino cubano in molti paesi del mondo. Sono a basso costo, con un brevetto pubblico ed un trasferimento di tecnologia piuttosto semplice. Per questo penso che possano essere importanti nel supporto ai tanti Paesi che non vedranno la loro popolazione vaccinata prima del 2023. Abbiamo tentato di realizzare un ponte, una strategia che stimolasse un interesse su questi vaccini nonostante gli standard previsti in Europa, nella speranza che le evidenze scientifiche prevalgano sulla geopolitica e che nessuna opportunità sia preclusa alla lotta contro il Covid”.
Più vaccini e meno armi, ha detto il Papa già a ottobre scorso. Non può essere considerata solo una esortazione di un leader religioso, è un messaggio impellente rivolto a tutti noi, soprattutto nel nostro Paese, dove la spesa sanitaria è condannata a continui tagli e i fondi per l’Istruzione ci sbattono all’ultimo posto nella graduatoria europea.
Un antropologo ha detto che l’inizio della civiltà è iniziata da un femore guarito. Nell’era preistorica, animale o uomo, quando si ferivano, la loro vita era condannata. Non potevano scappare. Un femore guarito è stata la prova che qualcuno si è preso cura del ferito, lo ha protetto e lo ha curato.
Questa regola vale ancora oggi: nessuno si salva da solo. Lo ha detto il Papa ma lo hanno già detto le popolazioni millenarie prima di lui. Noi dobbiamo solo ascoltare e seguirne il solco e, come amava dire Vittorio Arrigoni, Vik, il mio giovane collega, scrittore e pacifista che sognava e lavorava per la pace tra Palestina e Israele, “restare (restiamo) umani”.
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